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Diffamazione militare: solo il carcere è legittimo?

Un militare è stato condannato per diffamazione militare dopo aver pubblicato un post sui social media in cui attribuiva erroneamente a suicidio la morte di un collega, criticando le gerarchie militari. La Corte di Cassazione, investita del ricorso, ha sospeso il giudizio e sollevato una questione di legittimità costituzionale sull’art. 227 del codice penale militare di pace. Il dubbio riguarda la previsione della sola pena detentiva, senza un’alternativa pecuniaria, che potrebbe violare la libertà di espressione.

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Pubblicato il 28 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Diffamazione militare: la sola pena detentiva è ancora costituzionale?

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha sollevato un importante dubbio di legittimità costituzionale riguardo al reato di diffamazione militare. La questione centrale è se la previsione della sola pena detentiva, senza l’alternativa di una sanzione pecuniaria, sia compatibile con la libertà di espressione tutelata dalla Costituzione. Analizziamo i fatti e le motivazioni di questa decisione che potrebbe cambiare le regole sulla libertà di parola nelle Forze Armate.

Il Caso: un post sui social e la condanna per diffamazione

La vicenda ha origine da un post pubblicato su due profili Facebook e su un sito di informazione da un maresciallo. Nel comunicato, il militare commentava il decesso di un collega, presentandolo come un suicidio inserito in una presunta “strage silenziosa” all’interno delle forze armate. Egli criticava aspramente le gerarchie militari e il Ministero della Difesa, accusandoli di indifferenza verso le problematiche del personale e di rifiutare il confronto con le associazioni sindacali. Aggiungeva, inoltre, che le indagini dei Carabinieri sul caso sembravano essere giunte a un “vicolo cieco”.

Le indagini successive hanno però accertato che la morte del militare non era dovuta a un suicidio, ma a un tragico incidente domestico (asfissia da monossido di carbonio). Di conseguenza, il maresciallo è stato processato e condannato in primo e secondo grado per aver leso la reputazione dell’Aeronautica Militare, dei Carabinieri e del Ministro della Difesa, diffondendo notizie false.

La questione di legittimità sulla diffamazione militare

Arrivato in Cassazione, il caso ha preso una svolta inaspettata. Invece di decidere nel merito del ricorso, la Prima Sezione Penale ha ritenuto di dover sottoporre alla Corte Costituzionale l’art. 227 del codice penale militare di pace. Questa norma, infatti, punisce la diffamazione militare con la reclusione militare (fino a sei mesi nel caso base, da sei mesi a tre anni nelle ipotesi aggravate, come quella a mezzo stampa o social media), senza prevedere la possibilità per il giudice di infliggere una pena pecuniaria (una multa).

Secondo la Cassazione, questa rigidità sanzionatoria potrebbe essere in contrasto con:

* Art. 21 della Costituzione e Art. 10 della CEDU, che tutelano la libertà di manifestazione del pensiero.
* Art. 52 e 117 della Costituzione, che impongono di informare l’ordinamento delle forze armate allo spirito democratico della Repubblica.

La Corte suprema evidenzia come, per la diffamazione comune (art. 595 c.p.), la giurisprudenza nazionale ed europea si sia orientata a limitare le pene detentive solo ai casi di eccezionale gravità, proprio per non scoraggiare l’esercizio del diritto di critica, fondamentale in una democrazia. L’assenza di un’alternativa pecuniaria nel reato di diffamazione militare creerebbe una sproporzione e un potenziale “effetto dissuasivo” (chilling effect) sulla libertà di espressione dei militari.

Le motivazioni

L’ordinanza della Cassazione si fonda su un’attenta analisi del bilanciamento tra la tutela della disciplina militare e la garanzia dei diritti fondamentali. La Corte riconosce che l’ordinamento militare ha esigenze specifiche di coesione e funzionalità, ma sottolinea che la libertà di espressione, come affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, “non si ferma davanti al cancello delle caserme”.

Le restrizioni a tale libertà devono essere necessarie e proporzionate. La previsione della sola pena detentiva per la diffamazione militare appare alla Corte sproporzionata, poiché non consente al giudice di adeguare la sanzione alla concreta gravità del fatto. In casi meno gravi, una multa potrebbe essere una risposta sanzionatoria sufficiente, senza dover ricorrere alla privazione della libertà personale.

Inoltre, la Corte rileva che l’ordinamento militare stesso si è evoluto, introducendo istituti come le associazioni sindacali militari e ammettendo l’applicazione di pene sostitutive, inclusa quella pecuniaria, a reati militari. Mantenere una norma così rigida come l’art. 227 c.p.m.p. appare quindi anacronistico e non coerente con il sistema attuale.

Le conclusioni

La Corte di Cassazione ha quindi sospeso il processo e trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale. Sarà ora la Consulta a decidere se l’art. 227 del codice penale militare di pace, nella parte in cui non prevede una pena pecuniaria alternativa a quella detentiva, sia compatibile con i principi costituzionali. La decisione avrà un impatto significativo, potendo ridefinire i confini del diritto di critica per il personale delle Forze Armate e allineare la normativa sulla diffamazione militare ai più moderni standard di tutela dei diritti fondamentali.

Perché la Cassazione ha sollevato una questione di costituzionalità sulla diffamazione militare?
Perché l’articolo 227 del codice penale militare di pace prevede solo la pena detentiva (reclusione militare) e non anche una pena pecuniaria alternativa. Questa rigidità, secondo la Corte, potrebbe essere sproporzionata e violare il diritto fondamentale alla libertà di espressione, tutelato dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Qual è la principale differenza sanzionatoria tra diffamazione comune e militare evidenziata dall’ordinanza?
La differenza principale risiede nella flessibilità della pena. Per la diffamazione comune aggravata (art. 595, comma 3, c.p.), il giudice può scegliere tra la pena detentiva e quella pecuniaria. Per la diffamazione militare aggravata, invece, il giudice è obbligato ad applicare la sola pena detentiva, senza avere la possibilità di optare per una multa in base alla gravità del caso.

La libertà di espressione vale anche per i militari?
Sì. L’ordinanza, citando la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, afferma esplicitamente che “l’articolo 10 [della CEDU] non si ferma davanti al cancello delle caserme”. Pur potendo essere soggetta a restrizioni per salvaguardare la disciplina e la sicurezza nazionale, tali limitazioni devono essere sempre proporzionate e necessarie in una società democratica.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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