Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 8894 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 8894 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 24/01/2025
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nato a Messina il 18/07/1960
avverso la sentenza emessa il 20/05/2024 dalla Corte d’Appello di Messina visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso; udito il difensore del ricorrente, avv. NOME COGNOME che ha concluso insiste per l’accoglimento dei motivi di ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 20/05/2024, la Corte d’Appello di Messina ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Messina, in data 19/05/2023, con la quale COGNOME NOME era stato condannato alla pena di giustizia in relazione al delitto di dichiarazione fraudolenta a lui ascritto, quale rappresentante omonima ditta individuale, con riferimento agli elementi passivi fittizi indicati, dichiarazione relativa all’anno 2013, avvalendosi della nota di credito emessa confronti della RAGIONE_SOCIALE
Ricorre per cassazione il COGNOME a mezzo del proprio difensore, deducendo:
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all’affermazione di penale responsabilità.
2.1.1. Con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, la difesa – dopo aver ripercorso le risultanze in atti ed aver segnalato che il COGNOME aveva pagato la somma di cui all’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate – evidenzia che non era mai stata accertata la mancata riduzione del compenso del COGNOME, cui si riferiva la nota di credito in contestazione, e che doveva ritenersi irrilevante – a tale specifico proposito – l’inadempimento della COGNOME nell’indicare la nota in questione nelle proprie scritture contabili, come chiarito dalla stessa deposizione del teste COGNOME valorizzata in sentenza. Si osserva altresì che, del resto, la effettività della riduzione del compenso ben poteva desumersi dall’andamento negativo della RAGIONE_SOCIALE (in favore della quale, in forza del proprio accordo con la RAGIONE_SOCIALE, il COGNOME aveva prestato la propria opera professionale).
Sotto altro profilo, la difesa contesta sia la sussistenza della contraddittorietà segnalata dalla Corte territoriale nel proprio atto di appello (non essendosi mai sostenuto che non era stata necessaria la riduzione dei compensi pattuiti), sia la valenza demolitoria della tesi difensiva attribuita, dalla sentenza impugnata, alla deposizione del COGNOME (il quale aveva anzi precisato di ritenere che la riduzione dei compensi del COGNOME venne effettivamente disposta).
2.1.2. Quanto poi all’elemento soggettivo, la difesa censura la motivazione della Corte territoriale in ordine all’evidente sussistenza del dolo specifico costituito dal vantaggio fiscale ricavabile dall’inserimento in dichiarazione della nota di credito, che tra l’altro sarebbe ammontato a Euro 3.801 a fronte di un volume di affari del RUBUANO di circa Euro 200.000: fermo restando che il ricorrente aveva provveduto a pagare quanto dovuto, ritenendo la nota frutto di un errore “derivante dalle fluttuanti situazioni di RAGIONE_SOCIALE e dall’equivoca posizione del commercialista”.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla determinazione della pena. Si censura la motivazione in ordine al diniego delle attenuanti di cui agli artt. 62 n. 4 e 6, 62-bis cod. pen., e all’applicazione dell causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.
Con requisitoria tempestivamente trasmessa, il Procuratore Generale sollecita una declaratoria di inammissibilità del ricorso, ritenendo generiche e comunque manifestamente infondate le censure difensive.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è nel suo complesso infondato e deve essere perciò rigettato.
Per ciò che riguarda i rilievi concernenti l’affermazione di penale responsabilità, è opportuno prendere le mosse da consolidati principi elaborati nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, secondo cui, da un lato, «in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, dell credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento» (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747 – 01).
Altrettanto consolidata, d’altro lato, è l’affermazione per cui «ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa de sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione» (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595. Nello stesso senso, più di recente, cfr. Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 – 01, secondo cui «ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cd. ‘doppia conforme’ quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nel valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale».
In tale condivisibile prospettiva ermeneutica, le censure difensive non superano lo scrutinio di ammissibilità, risolvendosi nella censura del merito delle valutazioni concordemente operate dai giudici di merito, e nella prospettazione di una diversa e più favorevole lettura delle risultanze acquisite, il cui apprezzamento è in questa sede precluso.
2.1. Per ciò che riguarda i rilievi formulati in ordine all’elemento oggettivo del reato, deve osservarsi che le sentenze di primo e di secondo grado hanno entrambe ritenuto il carattere fittizio della nota di credito emessa dal RAGIONE_SOCIALE in data 27/12/2013 nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e l’inesistenza dell’operazione ad essa sottesa, ovvero la riduzione del compenso che il ricorrente, nell’ambito
dell’accordo raggiunto con la RAGIONE_SOCIALE, aveva concordato per lo svolgimento di attività di consulenza nel ramo marketing in favore della RAGIONE_SOCIALE In particolare, a fronte di un compenso già fatturato di 90.000 Euro oltre IVA, la nota di credito regolarmente contabilizzata nelle scritture del RAGIONE_SOCIALE (ma non in quella della RAGIONE_SOCIALE) attestava uno storno di Euro 39.980 (con aliquota IVA del 22%), giustificata con la dicitura “adeguamento corrispettivo per il non raggiungimento degli obiettivi qualitativi anno 2013”.
Nell’ottica difensiva, volta a sostenere la veridicità di quanto esposto nella nota di credito, la riduzione dei compensi spettanti al COGNOME, alla base della nota di credito, era motivata dalla situazione negativa in cui versava la GICAP: in sede di esame, era stato lo stesso COGNOME (cfr. pag. 5 della sentenza di primo grado, nota 2) a chiarire di aver intrapreso delle trattative per poter proseguire il rapporto, concordando la riduzione di cui alla nota di credito, peraltro assai superiore al 10% previsto, nell’accordo con la RAGIONE_SOCIALE, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).
Tale prospettazione è stata disattesa dai giudici di merito con una pluralità di argomenti, non limitati al richiamo del (pur rilevantissimo) discostamento della riduzione rispetto agli accordi contrattuali.
In particolare, è stata evidenziata l’assoluta assenza di documentazione comprovante l’individuazione degli obiettivi della GICAP, il discostamento dagli stessi, le trattative sulla riduzione del compenso previsto per il RUBUANO (cfr. pag. 4 della sentenza di primo grado, che valorizza la deposizione del Funzionario dell’Agenzia delle Entrate relativa alle richieste documentali rivolte all’odierno ricorrente e rimaste inevase).
In secondo luogo, è stata sottolineata (pag. 4 della sentenza di appello) la contraddittorietà insita nell’avere, da un lato, rivendicato la effettivi dell’operazione sottesa alla nota di credito e, dall’altro, sostenuto che la riduzione dei compensi pattuiti non si era rivelata più necessaria. La difesa ha contestato la sussistenza di tale contraddittorietà, che peraltro appare evidente ove si considerino le dichiarazioni del COGNOME, stando al quale il miglioramento dei conti della GICAP aveva appunto reso superfluo l’intervento sui compensi, sicchè egli neppure ne aveva parlato con la CIERRE proprio perché non vi era più necessità di intervenire; aveva invece informato il proprio commercialista COGNOME, precedentemente incaricato di redigere la nota, ma il professionista probabilmente l’aveva già redatta (cfr. pag. 5-6 della sentenza di primo grado).
In terzo luogo, i giudici di merito hanno concordemente evidenziato evidenziata l’ulteriore anomalia costituita dalla utilizzazione della nota di credito nella contabilità del CAPUANO, ma non anche in quella della CIERRE (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata, pag. 6 di quella di primo grado, in cui si sottolinea che nessun beneficio avrebbe potuto avere la GICAP se la nota attestante la riduzione dei compensi non fosse stata annotata nella contabilità della CIERRE).
Il compendio argomentativo sviluppato dai giudici di merito evidenzia una serie convergente di elementi indicativi del carattere fittizio dell’operazione sottesa alla nota di credito: carattere contestato dalla difesa, che peraltro non sembra tenere adeguato conto della diversa ricostruzione del COGNOME, il quale – senza fornire alcun tipo di riscontro documentale – ha parlato di trattative e di un accordo direttamente concluso con la GICAP per la riduzione dei compensi, che peraltro era stato superato dalle successive vicende della predetta società. Egli, peraltro, aveva inspiegabilmente evitato di informare di tale positiva evoluzione la COGNOME, ma solo il proprio commercialista COGNOME il quale ne aveva preso nota: “Sì, sia io gli ho chiesto all’inizio il consiglio e sia di annullarla verbalmente perché non c’è niente di ufficiale né nel dire “Fai la nota credito” e nel dire “Toglila”…a quest punto devo capire che lui forse aveva già redatto questo documento” (pagg. 5 seg. della sentenza impugnata).
In buona sostanza, secondo la prospettazione del COGNOME disattesa dai giudici di merito, egli avrebbe dapprima tenuto trattative e concluso accordi meramente verbali con la GICAP (pur essendo la COGNOME l’interlocutrice di quest’ultima, per la determinazione dei compensi al consulente utilizzato); avrebbe quindi verbalmente incaricato il COGNOME della redazione della nota, e – sempre verbalmente – l’avrebbe successivamente invitato a “toglierla”, perché la GICAP non aveva più bisogno di riduzioni; di tutto ciò non avrebbe peraltro informato la RAGIONE_SOCIALE, né si sarebbe accorto della persistenza della nota di credito nella propria contabilità, grazie alla quale aveva ridotto l’imponibile per l’anno 2013 di quasi 40.000 Euro (cfr. pag. 4 della sentenza impugnata).
2.2. L’assoluta inverosimiglianza delle circostanze riferite dal COGNOME, che non ha bisogno di essere sottolineata, non può che rafforzare ulteriormente la consistenza degli elementi valorizzati dai giudici di merito per sostenere l’inesistenza dell’operazione e il carattere fittizio della nota di credito.
Deve anzi osservarsi che il Tribunale, nel disattendere le censure formulate in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, ha sottolineato come tali macroscopiche anomalie ritrovino coerenza e logicità nell’ottica accusatoria: in particolare, attribuendo il giusto rilievo ai legami personali (la CIERRE era amministrata dalla moglie del COGNOME) e professionali (il COGNOME era il commercialista sia della CIERRE, sia della ditta individuale “COGNOME NOME“) emersi a proposito della nota di credito, “la cui contabilizzazione da parte della sola ditta dell’imputato ha favorito quest’ultima senza pregiudicare la CIERRE (la quale, ove l’avesse contabilizzata, avrebbe visto aumentare i propri ricavi, con conseguente aumento delle relative imposte da pagare)”: cfr. pag. 7 della sentenza di primo grado.
Così ricostruite le vicende della nota di credito, il Tribunale aveva conclusivamente ritenuto che “si sia trattato di un artifizio contabile, dolosamente architettato dalle parti, per conseguire un vantaggio fiscale” (pag. 7 della sentenza di primo grado). Ponendosi nella medesima prospettiva, la Corte d’Appello ha
sottolineato la valenza ingannatoria della nota di credito, grazie alla quale il COGNOME aveva potuto dichiarare un volume d’affari ai fini IVA pari a Euro 140.060, anziché 183.040, sottolineando l’evidente vantaggio fiscale derivante dall’inserimento della nota, che consentiva di ritenere integrato anche l’elemento soggettivo del reato (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata).
Il compendio argomentativo desumibile dalla valutazione congiunta delle sentenze di merito, secondo i già richiamati principi in tema di “doppia conforme”, appare immune da censure deducibili in questa sede, anche alla luce di quanto evidenziato soprattutto dal Tribunale in ordine alla inconsistenza della spiegazione del COGNOME; né tale percorso può ritenersi vulnerato dal riferimento difensivo alla non particolare rilevanza dei vantaggi fiscali ottenuti dall’operazione, proprio per l’insussistenza di verosimili spiegazioni alternative alla condotta nel complesso tenuta dal ricorrente (sul punto, cfr. anche Sez. 3, n. 37131 del 04/07/2024, COGNOME, Rv. 287020 – 01, secondo cui «il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti richiede, sotto il profilo soggettivo, il dolo generico, consistente nella consapevole indicazione, nelle dichiarazioni fiscali relative a imposte sui redditi o sul valore aggiunto, di elementi passivi della cui fittizietà il soggetto agente sia certo o, comunque, accetti l’eventualità, nonché il dolo specifico di evasione, che rappresenta la finalità che deve animare la condotta del predetto, ma il cui concreto conseguimento non è necessario per il perfezionamento del reato»).
Con riferimento alle doglianze relative alla mancata concessione delle attenuanti, appare condivisibile il rilievo della Corte territoriale in ordine all assoluta genericità del corrispondente motivo di appello: la difesa si era invero limitata a sollecitare l’applicazione delle attenuanti di cui ai nn. 4 e 6 dell’art. 6 cod. pen., senza corredare la richiesta da un reale impianto argomentativo (cfr. pag. 15 dell’atto di appello): con ciò rendendo incensurabile, in questa sede, la valutazione di inammissibilità della doglianza da parte della Corte d’Appello.
La doglianza concernente la mancata applicazione dell’art. 131-bis è infondata.
La Corte d’Appello ha invero escluso che i vantaggi fiscali fossero di entità trascurabile al punto da poter essere ricondotti nell’ambito applicativo della causa di non punibilità: si tratta di una valutazione non censurabile in questa sede, avuto riguardo all’entità non irrisoria del risparmio di imposta e del correlativo credito conseguito (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata). Né a diverse conclusioni è possibile pervenire valorizzando i richiami difensivi ad un pagamento che si assume essere stato effettuato, senza peraltro allegare documentazione alcuna a sostegno: nel corso della discussione, è stato fatto riferimento a non meglio precisati smarrimenti della Cancelleria, mentre nel ricorso si è fatto cenno a produzioni effettuate nel corso del giudizio di primo grado; peraltro, il totale difetto di autosufficienza di tali prospettazioni preclude, a questa Suprema Corte,
qualsiasi effettiva valutazione in ordine alla pertinenza e decisività delle iniziative adottate.
Le considerazioni fin qui svolte impongono il rigetto del ricorso, e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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Il Presidente