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Detenzione telefono in carcere: quando è reato?

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna di un detenuto trovato in possesso di un telefono cellulare. Secondo la Suprema Corte, la semplice detenzione telefono in carcere è sufficiente a integrare il reato previsto dall’art. 391-ter del codice penale, poiché il possesso del dispositivo presuppone la sua precedente ‘ricezione’, una delle condotte punite dalla norma, non essendo necessario dimostrarne l’effettivo utilizzo per le comunicazioni.

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Pubblicato il 25 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Detenzione Telefono in Carcere: Per la Cassazione è Reato Anche Senza Utilizzo

L’introduzione e l’uso di dispositivi di comunicazione all’interno degli istituti penitenziari rappresentano una sfida costante per la sicurezza e l’ordine. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito un punto fondamentale: la semplice detenzione telefono in carcere da parte di un recluso è sufficiente per configurare il reato, senza che sia necessario provarne l’effettivo utilizzo. Analizziamo questa importante decisione.

I Fatti del Caso

Il caso ha origine dalla condanna, confermata in appello, di un detenuto trovato in possesso di un microtelefono cellulare, che aveva occultato nella propria cavità anale. La difesa del detenuto ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo un’interpretazione restrittiva della norma incriminatrice. Secondo il ricorrente, il reato di cui all’art. 391-ter del codice penale non si configurerebbe con la mera detenzione del dispositivo, ma richiederebbe una condotta attiva di ‘ricezione’ o ‘utilizzazione’ dello stesso, che l’accusa non avrebbe provato.

La Questione Giuridica sulla Detenzione Telefono in Carcere

Il fulcro della questione legale era stabilire se la fattispecie prevista per il detenuto (terzo comma dell’art. 391-ter c.p.) punisse il semplice possesso di un cellulare o richiedesse qualcosa di più. La norma sanziona il detenuto che ‘indebitamente riceve o utilizza’ un apparecchio telefonico. La difesa argomentava che, non essendo stato visto né nell’atto di ricevere né in quello di utilizzare il telefono, il proprio assistito non potesse essere condannato. Si contestava, in sostanza, che il ritrovamento del dispositivo potesse, da solo, costituire prova del reato.

L’Articolo 391-ter del Codice Penale

Introdotto per contrastare il fenomeno endemico dell’uso di cellulari in prigione, l’articolo 391-ter c.p. mira a tutelare l’effettività della pena e a impedire che i detenuti possano continuare a gestire attività illecite o comunicare indebitamente con l’esterno. La norma distingue due reati:
1. Quello commesso da ‘chiunque’ procuri, consenta l’uso o introduca un telefono in carcere (primo comma).
2. Quello, ‘proprio’ del detenuto, che ‘riceve o utilizza’ tali dispositivi (terzo comma).

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendolo infondato. Gli Ermellini hanno fornito una chiara interpretazione della norma, smontando la tesi difensiva. Il ragionamento della Corte si basa su due pilastri fondamentali.

In primo luogo, si sottolinea il valore della congiunzione disgiuntiva ‘o’ presente nel testo di legge (‘riceve o utilizza’). Questo significa che le due condotte sono alternative e che è sufficiente realizzarne anche solo una per integrare il reato. Non è quindi necessario che il detenuto utilizzi il dispositivo; basta che lo abbia ricevuto.

In secondo luogo, la Corte ha validato la deduzione logica operata dai giudici di merito. Il rinvenimento del telefono cellulare in possesso del detenuto, per di più occultato sul suo corpo, presuppone necessariamente una sua precedente e indebita ‘ricezione’. Considerato lo status di detenuto, che di norma non può acquisire beni se non ricevendoli, il possesso diventa la prova regina della ricezione. Non si tratta, quindi, di una mera congettura, ma di un’inferenza logica basata sull’esperienza comune e sulla situazione specifica.

Le Conclusioni

Con questa sentenza, la Cassazione stabilisce un principio di diritto molto chiaro: la prova della detenzione telefono in carcere è sufficiente per affermare la responsabilità penale del detenuto ai sensi dell’art. 391-ter, comma 3, del codice penale. Il possesso del dispositivo è considerato prova logica del compimento della condotta di ‘ricezione’ punita dalla norma. Questa decisione rafforza gli strumenti di contrasto a un fenomeno che mina la sicurezza penitenziaria e l’autorità delle decisioni giudiziarie, confermando che la lotta all’uso illecito di cellulari dietro le sbarre passa anche attraverso una rigorosa interpretazione della legge.

La semplice detenzione di un telefono in carcere è reato?
Sì. Secondo la Corte di Cassazione, il ritrovamento di un telefono cellulare in possesso di un detenuto è prova sufficiente della sua precedente ‘ricezione’, una delle condotte alternative punite dall’art. 391-ter, comma 3, del codice penale.

Per essere condannati, è necessario aver usato il telefono per chiamare o inviare messaggi?
No. La norma punisce il detenuto che ‘riceve o utilizza’ un dispositivo idoneo alle comunicazioni. La presenza della congiunzione ‘o’ rende le due azioni (ricevere/utilizzare) alternative. Pertanto, è sufficiente aver ricevuto il telefono, anche senza averlo mai usato, per commettere il reato.

Come si prova che un detenuto ha ‘ricevuto’ un telefono?
La Corte ha stabilito che il possesso stesso del dispositivo da parte del detenuto costituisce la prova logica della sua precedente ricezione. Considerato lo stato di detenzione, non è ipotizzabile che il soggetto possa aver acquisito il bene in un modo diverso dalla ricezione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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