Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 21925 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 21925 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME COGNOME NOME, nato in Tunisia il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 5 aprile 2023 emessa dalla Corte di appello di Milano;
visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO generale NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso;
lette le conclusioni dell’AVV_NOTAIO, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il Tribunale di Monza, con sentenza resa in data 17 dicembre 2021 all’esito del giudizio abbreviato, ha condannato NOME COGNOME alla pena di
quattro anni e sei mesi di reclusione per i delitti di cui agli artt. 110 e 61 n. 2 cod pen., 12 d.lgs. 286 del 1998 (capo 1) e di cui agli artt. 391-110-321 cod. pen., entrambi commessi in Sesto San Giovanni (INDIRIZZO) e Lampedusa tra il 25 e il 26 settembre 2017.
Secondo l’ipotesi di accusa l’imputato avrebbe offerto al Carabiniere NOME COGNOME, tramite la fidanzata di quest’ultimo NOME COGNOME NOME, la somma di 600 euro perché confezionasse due false denunce di smarrimento dei documenti di identità, che avrebbero dovuto essere utilizzati da due suoi parenti, NOME e NOME, per consentire loro di allontanarsi dal Centro di prima accoglienza di Lampedusa e recarsi in Francia. Il disegno criminoso, tuttavia, non sarebbe stato realizzato; nel corso dei controlli aeroportuali sarebbe, infatti, emersa la reale identità dei cittadini tunisini, in quanto le false denunce confezionate dal COGNOME presso la Stazione dei Carabinieri di Sesto san Giovanni il giorno prima della propria partenza per Lampedusa, riguardavano documenti di identità di persone rumene. Il COGNOME, pur avendo rappresentato falsamente agli agenti della polizia aeroportuale che si trattava di parenti della sua compagna, veniva inviato a non interferire negli accertamenti e ad allontanarsi.
La Corte di appello, con la sentenza impugnata, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha assolto l’imputato dal reato contestato al capo a) perché il fatto non sussiste e ha rideterminato la pena in due anni e otto mesi di reclusione.
1 L’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, difensore dell’imputato, ricorre avverso tale sentenza e ne chiede l’annullamento, deducendo tre motivi di ricorso.
3.1. Con il primo motivo, il difensore deduce l’assenza nella fattispecie concreta degli elementi oggettivi del delitto di cui all’art. 319 cod. pen.
La Corte di Appello avrebbe, infatti, ritenuto provato l’accordo corruttivo in assenza del necessario rapporto sinallagmatico tra la presunta promessa di denaro e l’atto contrario ai doveri del proprio ufficio posto in essere dal pubblico ufficiale atto peraltro ideato e attuato su unilaterale iniziativa dello stesso pubblico ufficiale, travalicando gli intenti e le richieste dell’imputato.
Ad avviso del difensore, infatti, la promessa della remunerazione, nella specie, sarebbe priva di collegamento con l’atto infedele del pubblico ufficiale.
Nel caso di specie il presunto corruttore si sarebbe semplicemente dichiarato disponibile a ricompensare il pubblico ufficiale per il proprio generico l’interessamento e questi si sarebbe adoperato ben oltre il richiesto, senza la previa sollecitazione dell’imputato.
Il tenore letterale delle conversazioni richiamate dalla sentenza impugnata dimostrerebbe solo che la somma che l’imputato si sarebbe dichiarato disponibile a riconoscere (non di propria iniziativa, ma in accettazione della richiesta della fidanzata del COGNOME) sarebbe stata promessa solo in cambio dell’assistenza a Lampedusa del pubblico ufficiale.
Mancherebbe, dunque, la prova dell’accordo illecito oltre ogni ragionevole dubbio e l’individuazione dell’atto contrario ai doveri di ufficio.
3.2. Con il secondo motivo, il difensore censura l’errata interpretazione delle conversazioni telefoniche intercettate.
Secondo il difensore, infatti, sarebbe del tutto illogico far discendere dalle stesse la prova del patto illecito, posto che le intercettazioni sono chiaramente dimostrative del fatto che la ricompensa promessa era collegata invece alla eventuale mera spendita della qualifica di pubblico ufficiale e al ruolo di supporto qualificato che questi avrebbe dovuto espletare per agevolare l’operazione che l’imputato aveva in mente.
Il viaggio a Lampedusa non sarebbe in rapporto causale con l’atto infedele, bensì con la sola richiesta iniziale dell’imputato, volta ad ottenere un aiuto da un soggetto maggiormente qualificato per comprendere la situazione dei due clandestini nell’hotspot di Lampedusa.
L’imputato confidava che la semplice presenza del COGNOME avrebbe facilitato il piano (anche solo mostrando il tesserino), ma non aveva organizzato o suggerito al carabiniere di spingersi sino a confezionare documenti falsi.
Parimenti non sarebbe possibile ritenere che il confezionamento del documento falso sia stato eseguito dal pubblico ufficiale su esplicita richiesta dell’imputato.
3.3. Con il terzo motivo il ricorrente censura l’omissione della motivazione in ordine alla richiesta di ricondurre il fatto-reato all’ipotesi di cui all’art. 318 c pen.
La sentenza di appello, infatti, non avrebbe motivato sul punto e non avrebbe dimostrato il nesso finalistico tra la promessa di danaro e il comportamento antidoveroso, rendendo applicabile la fattispecie di cui all’art. 318 cod. pen.
Non essendo stata richiesta la trattazione orale del procedimento, il ricorso è stato trattato con procedura scritta.
Con la requisitoria e le conclusioni scritte depositate in data 29 dicembre 2023, il AVV_NOTAIO generale, nella persona della AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, ha chiesto il rigetto del ricorso.
Con le conclusioni depositate in data 25 gennaio 2024 l’AVV_NOTAIO COGNOME ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso deve essere rigettato, in quanto i motivi proposti sono infondati.
Con il primo motivo, il difensore deduce l’assenza nella fattispecie concreta degli elementi oggettivi del delitto di cui all’art. 319 cod. pen., in quanto la Corte di Appello avrebbe ritenuto provato l’accordo corruttivo in assenza del necessario rapporto sinallagmatico tra la presunta promessa di denaro e l’atto contrario ai doveri del proprio ufficio posto in essere dal pubblico ufficiale.
Il motivo è inammissibile, in quanto non si confronta con la motivazione bensì con le prove esaminate dal giudice di merito, sollecitandone una diversa lettura.
Il motivo si risolve, dunque, nell’inammissibile proposizione di una ricostruzione alternativa dei fatti accertati nei giudizi di merito, già motivatamente disattesa dalla sentenza impugnata.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, del resto, esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Sez. U, n. 6402 del 2/07/1997, Dessinnone, Rv. 207944).
Sono, infatti, precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi d fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 5456 del 4/11/2020, F., Rv. 280601-1; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482).
La Corte di appello ha, peraltro, non certo illogicamente disatteso il motivo di appello relativo alla mancata prova del patto illecito, richiamandosi alla motivazione della sentenza di primo grado e alle intercettazioni nella stessa richiamate.
La Corte di appello, infatti, richiamandosi alle precise statuizioni della sentenza di primo grado, ha rilevato che emerge esplicitamente dal contenuto delle conversazioni intercettate la richiesta di intercessione rivolta dall’imputato alla fidanzata del COGNOME perché questi fornisse aiuto ai due connazionali bloccati nel centro di prima assistenza e l’accettazione da parte dell’imputato della
corresponsione della somma di seicento euro per remunerare il COGNOME per il proprio interessamento.
La Corte di appello ha, inoltre, ritenuto, non certo incongruamente sulla base del tenore delle intercettazioni telefoniche riportate dalla sentenza di primo grado, che il COGNOME fosse a conoscenza delle false denunce predisposte dal COGNOME.
Nella sentenza di primo grado, sulla base del contenuto delle successive conversazioni captate tra il NOME e la fidanzata del ricorrente, peraltro, si precisa come sia stato proprio quest’ultimo a suggerire al militare l’espediente delle false denunce di smarrimento dei documenti per consentire l’uscita dei connazionali dall’hotspot di Lampedusa.
Con il secondo motivo, il difensore censura l’errata lettura delle conversazioni telefoniche captate, allo scopo di evidenziare come sia del tutto illogico far discendere dalle stesse la prova del patto illecito, posto che le intercettazioni sono chiaramente dimostrative del fatto che la ricompensa promessa era collegata invece alla eventuale mera spendita della qualifica di pubblico ufficiale e al ruolo di supporto qualificato che questi avrebbe dovuto espletare per agevolare l’operazione che l’imputato aveva in mente.
Il motivo è inammissibile, in quanto si risolve in un’inammissibile rilettura delle risultanze delle intercettazioni telefoniche, non censurabile in sede di legittimità, a fronte di una ricostruzione lineare e non manifestamente illogica del loro contenuto
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, infatti, l’interpretazione del linguaggio adoperato dagli interlocutori nei dialoghi intercettati, quand’anche criptico o cifrato, costituisce una questione di fatto rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715),
L’interpretazione del contenuto delle conversazioni non può essere sindacata in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite, ipotesi che nella specie non ricorre.
Con il terzo motivo il ricorrente censura l’omissione della motivazione in ordine alla richiesta di ricondurre il fatto-reato all’ipotesi di cui all’art. 318 c pen.
7. Il motivo è infondato.
Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi realizzato attraverso l’impegno permanente a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato d cui all’art. 318 cod. pen. e non il più grave reato di corruzione propria di cui all’art. 319 cod. pen., salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio (Sez. 6, n. 4486 del 11/12/2018 (deo. 2019), COGNOME, Rv. 274984 – 01, in motivazione, la Corte ha precisato che nel caso della corruzione per l’esercizio della funzione la dazione indebita pone in pericolo il corretto svolgimento dei pubblici poteri, mentre ove la dazione è sinallagmaticamente connessa al compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio si realizza la concreta lesione del bene giuridico protetto; Sez. 6, n. 32401 del 20/06/2019, Monaco, Rv. 276801-01, fattispecie in cui risultava la dazione di denaro, in favore di un appartenente alla Guardia di Finanza, da parte di soggetti interessati ad avere informazioni circa gli accertamenti fiscali svolti a carico delle proprie società, ma non anche l’effettivo compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio).
Integra, infatti, il reato di corruzione di cui all’art. 318 cod. pen. la promessa o dazione indebita di somme di danaro o di altre utilità in favore del pubblico ufficiale che sia sinallagmaticamente connessa all’esercizio della funzione, a prescindere dal compimento di uno specifico atto e della sua contrarietà o meno ai doveri del pubblico agente (Sez. 6, n. 33828 del 26/04/2019, Massobrio, Rv. 276783 – 01, fattispecie relativa alla occasionale dazione in favore di militari della guardia di finanza della somma di 750,00 euro ciascuno e di altre regalie da parte di imprenditori soggetti a periodiche verifiche ispettive).
In tema di corruzione, la mera accettazione da parte del pubblico agente di un’indebita utilità a fronte del compimento di un atto discrezionale non integra necessariamente il reato di corruzione propria, dovendosi verificare, in concreto, se l’esercizio dell’attività sia stata condizionata dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare, ovvero se l’interesse perseguito sia ugualmente sussumibile nell’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, nel qual caso la condotta integra il meno grave reato di corruzione per l’esercizio della funzione (Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019 (dep. 12/06/2020), Bolla, Rv. 279555 – 05; conf. (Sez. 6, n. 44142 del 24/05/2023, COGNOME, Rv. 285366 – 02; Sez. 6, n. 44142 del 24/05/2023, COGNOME, Rv. 285366 – 02).
La Corte di appello di Milano ha, tuttavia, fatto buon governo di tali principi, ritenendo corretta la qualificazione della condotta dell’imputato ai sensi degli artt.
319, 321 cod. pen., in quanto il COGNOME, in qualità di pubblico ufficiale, su richiesta dell’imputato e dietro la promessa della corresponsione della somma di 600 euro, ha compiuto un atto contrario ai propri doveri di ufficio nel falsificare le denunce di smarrimento dei documenti dei connazionali dell’imputato.
La redazione di tali atti presso la stazione dei Carabinieri di Sesto San Giovanni rientrava nell’esercizio delle funzioni del COGNOME, che, tuttavia, ne ha falsificato il contenuto, nell’interesse dei connazionali dell’imputato, apponendo sui modelli di cui era in possesso in ragione del proprio ufficio la propria qualifica e le proprie generalità.
Alla stregua di tali rilievi il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell’art. 616, comma 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 07/02/2024.