Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 44475 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 1 Num. 44475 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a CAMPI SALENTINA il 03/01/1960
avverso la sentenza del 19/10/2023 del GIUDICE COGNOME PRELIMINARE di LECCE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso con riferimento al primo motivo e per il resto la trasmissione degli atti alla Corte di Appello di LECCE.
udito il difensore:
L’avvocato NOME COGNOME del foro di LECCE, in difesa di NOME COGNOME conclude chiedendo la conversione in appello del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza emessa in data 19 ottobre 2023 il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce ha condannato NOME COGNOME alla pena di anni trenta di reclusione, oltre alle sanzioni accessorie e al risarcimento del danno in favore delle parti civili, per il reato di cui agli artt. 575, 577 cod. pen. e 416-bis.1 cod. pen., per avere nel giugno 1990, quale mandante, cagionato la morte di NOME COGNOME con premeditazione e per motivi abietti, quali l’avere la vittima violato le regole dell’associazione mafiosa a cui entrambi appartenevano.
Il giudice, respinta una eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori NOME COGNOME e NOME COGNOME formulata perché le stesse non sono rinnovabili in dibattimento, essendo i dichiaranti deceduti, e perché, essendo state rese prima dell’entrata in vigore della legge n. 63/2001, non sono state assunte con la forma prevista dall’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., ha ritenuto provata la responsabilità dell’imputato dalla rilettura, combinata da tra loro, delle dichiarazioni rese da molti collaboratori di giustizia nel “maxi processo” contro la Sacra Corona Unita, relative alla guerra di mafia svoltasi negli anni ’90 nel territorio salentino, dalla dichiarazione della teste NOME COGNOME e da quella di NOME COGNOME e soprattutto da una intercettazione ambientale risalente al 23/08/1992.
Avverso la sentenza NOME COGNOME ha proposto un atto di impugnazione, denominato «ricorso», per mezzo del suo glifensore avv. NOME COGNOME articolando un unico, complesso motivo, con il quale deduce l’illegalità della pena dell’ergastolo, la inutilizzabilità delle dichiarazioni de predetti collaboratori, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 415-bis cod. proc. pen., e chiede l’assoluzione nel merito.
2.1. Il ricorrente ripete l’eccezione relativa alla illegalità della pena dell’ergastolo, sostenendo che la norma da applicare al caso di specie sia quella successiva più favorevole, cioè la legge n. 479/1999 che consentiva di procedere con il rito abbreviato anche nel caso di un delitto punito con l’ergastolo, pena che, in caso di condanna, deve essere sostituita con quella di trenta anni di reclusione.
2.2. Il ricorrente ripete altresì le ragioni della asserita inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai due predetti collaboratori di giustizia. Essi sono stati ascoltati prima dell’anno 2001, epoca di entrata in vigore della legge n. 63/2001
che ha imposto, a pena di inutilizzabilità, gli avvisi previsti dall’art. 64 cod. proc. pen., ma, essendo stato il procedimento a carico del ricorrente iscritto nel 2003 ed essendo i due soggetti deceduti solo in epoca successiva, il pubblico ministero, per utilizzare le dichiarazioni da loro rese a carico del ricorrente, avrebbe dovuto rinnovare gli interrogatori, facendoli precedere dall’avviso previsto dalla nuova normativa. L’eccezione è formulabile anche nel presente procedimento, celebrato secondo il rito abbreviato, perché trattasi di violazione di un divieto probatorio e cioè di una nullità genetica, ai sensi dell’art. 438, comma 6, cod. proc. pen., essendo violata una norma posta a tutela del giusto processo e cioè di un diritto riconosciuto a livello costituzionale.
2.3. Sussiste la nullità della sentenza, per essere stato violato l’art. 415-bis cod. proc. pen. L’imputazione è stata formulata a seguito di imposizione del g.i.p., che accolse l’opposizione, presentata dalla sorella dell’ucciso, alla richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero. Il pubblico ministero ha eseguito quanto disposto, ma non ha notificato al ricorrente l’avviso di conclusione delle indagini ai sensi dell’art. 415-bis cod. proc. pen., omissione che deve ritenersi impeditiva dell’esercizio del diritto di difesa, anche se la Corte costituzionale, con la sentenza n. 286/2016, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità proposta relativamente alla mancata previsione dell’obbligo di tale avviso, in caso di imputazione coatta.
2.4. Nel merito, poi, la sentenza è errata perché motiva la condanna attraverso le dichiarazioni di vari collaboratori, che nell’atto di impugnazione vengono dettagliatamente riesaminate al fine di evidenziarne la intrinseca incongruenza e contraddittorietà e la loro reciproca incompatibilità, e attraverso l’intercettazione ambientale del 23/08/1992, che è stata però male interpretata, dal momento che in essa gli interlocutori fanno solo delle ipotesi circa i motivi dell’omicidio di NOME COGNOME che attribuiscono con certezza ai fratelli COGNOME ma non se ne attribuiscono la responsabilità.
Con memoria depositata in data 07/10/2024 il ricorrente ha, però, precisato di avere predisposto un atto di appello, erroneamente qualificato come «ricorso per cassazione» e perciò erroneamente trasmesso dall’ufficio competente al giudice di legittimità, e ha chiesto, ai sensi dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen., la sua qualificazione come appello e la sua trasmissione «alla Corte di appello di Lecce», ribadendo tale richiesta nella discussione orale.
Il Procuratore generale, nella discussione orale, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso, non essendo, per il motivo proposto, convertibile in appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
La richiesta di conversione dell’impugnazione in appello, avanzata dal ricorrente, è fondata e deve essere accolta.
L’art. 568, comma 5, cod. proc. pen. stabilisce che «l’impugnazione è ammissibile indipendentemente dalla qualificazione a essa data dalla parte che l’ha proposta», e che se essa è proposta ad un giudice incompetente, questi deve trasmetterla al giudice competente, previa la sua corretta qualificazione. Nel particolare caso del ricorso immediato per cassazione, poi, l’art. 569, comma 3, cod. proc. pen. stabilisce che esso non è consentito «nei casi previsti dall’art. 606, comma 1, lett. d) ed e)», e che, quando esso sia proposto per tali motivi, «il ricorso eventualmente proposto si converte in appello».
Questa Corte, oltre a ribadire l’obbligo di conversione in appello di un ricorso proposto per saltum che contenga, tra i motivi, la censura di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. (Sez. 4, n. 1189 del 10/10/2018, dep.2019, Rv. 274834; Sez. 6, n. 26350 del 31/05/2007, Rv. 236860), ha stabilito che «Qualora l’impugnazione proposta sia noi1 quella ordinaria ma quella eccezionale del ricorso per saltum, la Corte di cassazione deve interpretare la volontà della parte, per stabilire di quale mezzo abbia realmente inteso avvalersi ed, in caso di dubbio, privilegiare il tipo ordinario di gravame, talché, ove vi sia una formale denuncia di difetto e manifesta illogicità della motivazione ed il contenuto delle censure, che letteralmente deducono anche violazione di legge, le riveli, invece, come dirette avverso la valutazione delle prove in ordine ad una questione di mero fatto, il ricorso andrà convertito in appello» (Sez. 2, n. 1848 del 17/12/2013, dep. 2014, Rv. 258193). Tale principio deve essere confermato, trattandosi di una diretta applicazione del favor impugnationis da sempre ritenuto presente, nel nostro ordinamento, dalla giurisprudenza di legittimità (vedi Sez. U, n. 45371 del 30/10/2001, Rv. 220221).
La decisione circa la convertibilità del ricorso impone, però, una attenta valutazione della effettiva volontà della parte, dal momento che «Il ricorso diretto per cassazione non è convertibile in appello, con conseguente inammissibilità del gravame, quando, attraverso la ricerca dell’effettiva volontà del ricorrente, si accerti che lo stesso abbia voluto deliberatamente impugnare il
provvedimento con un mezzo o per motivi diversi da quelli consentiti, con la consapevolezza sia della improponibilità del mezzo strumentalmente prescelto e dichiarato, quanto della esistenza di altro ed unico rimedio processuale, appositamente predisposto dal sistema e dallo stesso ricorrente rifiutato» (Sez. 6, n. 1108 del 06/12/2022, dep.2023, Rv. 284333; Sez. 1, n. 51610 del 23/04/2018, Rv. 275664).
Nel presente caso la definizione dell’atto di impugnazione come «ricorso» è contenuta solo nella pagina iniziale, che indirizza l’atto stesso alla «Ecc.ma Corte di Cassazione». Nel corso dell’atto, invece, non vi è alcuna menzione della violazione dell’art. 606 cod. proc. pen., ed i motivi di impugnazione sono distinti in motivi «in diritto» e «nel merito»: nei primi sono comprese le eccezioni processuali, formulabili sia al giudice di appello, sia al giudice di legittimità, mentre i secondi consistono in una ampia contestazione dell’interpretazione delle singole prove contenuta nella sentenza di primo grado, in particolare di quelle dichiarative, richiedendone una diversa valutazione. L’atto stesso si conclude con la richiesta di mandare l’imputato «assolto per non aver commesso il fatto o, a tutto voler concedere, ex art. 530 cpv. cpp».
Il contenuto dell’atto in questione, quindi, evidenzia che la reale volontà dell’impugnante era quella di contestare la fondatezza della motivazione della sentenza di primo grado, al fine di ottenerne la riforma previa una rivalutazione delle prove poste a fondamento della condanna. Al di là delle eccezioni processuali formulate nella parte iniziale dell’atto, i motivi proposti «nel merito» attengono, palesemente, ad una asserita violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., violazione che, ai sensi dell’art. 569, comma 3, cod. proc. pen., non è proponibile con ricorso per saltum ed impone la sua conversione in appello.
L’attenta lettura dell’intero atto non consente di ritenere che l’errore nella presentazione dell’impugnazione nella forma del ricorso per cassazione sia fittizio o simulato, e cioè costituisca, in realtà, una consapevole surrettizia prospettazione di doglianze dirette solo a ritardare artificiosamente la definitività della sentenza mediante l’introduzione dilatoria di più gradi di giudizio non consentiti. L’errore commesso appare essere un effettivo “errore ostativo” o “errore vizio”, cioè un errore, in buona fede, nella individuazione del mezzo di impugnazione da utilizzare.
Per i motivi indicati, pertanto, l’atto di impugnazione proposto a questa Corte deve essere convertito in appello, ai sensi dell’art. 569, comma 3, cod.
proc. pen., e trasmesso alla Corte di assise di appello di Lecce, competente in ragione del titolo di reato contestato.
P.Q.M.
Qualificato il ricorso come appello, ‘dispone trasmettersi gli atti alla Corte di assise di appello di Lecce.
Così deciso il 25 ottobre 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente