Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 24335 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 24335 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 01/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME nata in Uzbekistan il 27/11/1970
avverso la sentenza del 13/01/2025 della Corte di appello di Messina;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Messina ha confermato la condanna di NOME COGNOME per il delitto di cui all’art. 316-ter, cod. pen., perché, mediante la presentazione di due istanze mendaci, rispettivamente a luglio del 2020 ed a maggio del 2021, con le quali attestava di esercitare un’attività d’impresa, quando invece la stessa era già cessata, otteneva indebitamente l’erogazione di contributi a fondo perduto, a norma dell’art. 25, comma 2, dl. n.
34 del 2020, e dell’art. 1, comma 2, d.l. n. 41 del 2021, per il rispettivo importo di 4.764 e 10.155 euro.
Il ricorso, proposto per il tramite del suo difensore, consta di tre motivi.
2.1. Il primo denuncia vizi della motivazione, nella parte in cui è stato ritenuto che l’imputata avesse già cessato la propria attività d’impresa all’atto della presentazione delle istanze.
Si deduce, in proposito: a) che la comunicazione di cessazione dell’attività da lei inviata al Comune a giugno del 2020 riguardava il bar-pasticceria, non il ristorante, cui si riferivano le richieste di contributo; b) che la circostanza della mancata emissione di fatture attive da maggio del 2020, valorizzata in sentenza, è erronea – perché ne risultano due emesse ad ottobre 2021 – e comunque è fuorviante, poiché i vari d.P.C.M. all’epoca susseguitisi per l’emergenza pandemica avevano imposto la chiusura degli esercizi di ristorazione e successivamente misure fortemente restrittive; c) che, fino ad ottobre del 2021, la ricorrente, sulla base di un accordo con i nuovi gestori dell’attività, aveva di fatto continuato a svolgere la stessa, risultando altrimenti illogico che avesse continuato a mantenere fino ad allora la proprietà dei beni strumentali ed a tenere aperta la partita i.v.a., con i correlati costi.
2.2. Il secondo motivo consiste nella violazione dei predetti artt. 25, comma 2, d.l. n. 34 del 2020, ed 1, comma 2, d.l. n. 41 del 2021, deducendosi che la cessazione dell’attività d’impresa, ivi indicata quale circostanza ostativa all’accesso ai contributi, debba intendersi riferita alla dichiarazione di cessazione di attività, prevista dall’art. 35, d.P.R. n. 633 del 1972, presentata dalla ricorrente soltanto a dicembre del 2021.
Di tanto darebbe conferma il successivo dl. n. 73 del 2021, che, nel prevedere ulteriori contributi analoghi a sostegno delle imprese penalizzate dall’emergenza pandemica, all’art. 1 ha eliminato il riferimento testuale alla cessazione dell’attività, mantenendo soltanto quello alla titolarità di una partita i.v.a. attiva.
Il riferimento a redditi e ricavi prodotti dall’attività, contenuto nei commi successivi dei citati articoli 25 ed 1, delinea soltanto i parametri per la quantificazione del contributo, non offrendo una conferma logica della necessità di un effettivo esercizio dell’attività d’impresa quale titolo per ottenerne l’erogazione, come invece erroneamente ritenuto dai giudici di merito.
Infine, la condotta dell’imputata è stata coerente con gli obiettivi di tale normativa emergenziale, poiché, mediante l’accordo con i successivi gestori, ha evitato la chiusura del locale e conservato ai propri dipendenti l’occupazione lavorativa.
2.3. Il terzo motivo di ricorso denuncia l’omessa motivazione sull’applicazione, prospettata con l’atto d’appello, dell’art. 47, terzo comma, cod. pen., poiché le dichiarazioni non veridiche dell’imputata sarebbero state determinate dall’erronea convinzione di aver diritto a quei contributi in base agli anzidetti decreti-legge e, quindi, da un errore su legge extra-penale che ha determinato un errore sul fatto.
Ha depositato requisitoria scritta la Procura generale, chiedendo di rigettare il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Nessuno dei motivi di ricorso può essere ammesso.
I primi due sono manifestamente infondati e generici, perché si risolvono nella reiterazione di doglianze già proposte con l’atto d’appello, alle quali la sentenza impugnata risponde in modo puntuale e convincente, sulla base del nitido testo normativo della disciplina emergenziale.
L’art. 25, comma 1, dl. n. 34 del 2020, prevedeva, infatti, che i contributi venissero riconosciuti «a favore dei soggetti esercenti attività d’impresa e di lavoro autonomo e di reddito agrario, titolari di partita IVA», aggiungendo, al successivo comma 2, che detta erogazione «non spetta, in ogni caso, ai soggetti la cui attività risulti cessata alla data di presentazione dell’istanza».
Analogamente, l’art. 1, comma 1, d.l. n. 41 del 2021, disponeva che il contributo fosse riconosciuto «a favore dei soggetti titolari di partita IVA (…) che svolgono attività d’impresa», precisando, anche in questo caso, che esso «non spetta, in ogni caso, ai soggetti la cui attività risulti cessata alla data di entrata i vigore del presente decreto».
Risulta, dunque, di solare evidenza che, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, la possibilità di accedere a quei contributi presupponesse tanto il requisito formale della titolarità di partita i.v.a., quanto quello sostanziale dell’effettivo esercizio di un’attività d’impresa, non avendo altrimenti alcuna ragion d’essere un sostegno economico a fondo perduto, quale quello disposto da tali interventi normativi e giustificato dalla situazione emergenziale.
3. Analoghi limiti presenta il terzo motivo di ricorso.
Premesso che, se i fatti fossero andati come sostiene la difesa, si sarebbe comunque in presenza di un errore di diritto – sull’interpretazione, cioè, della norma integratrice del precetto penale – e non sul fatto, non potendosi perciò escludere il dolo, v’è che, in realtà, l’ipotesi dell’errore è stata in maniera
convincente esclusa già dalla sentenza di primo grado (pagg. 8 s.), richiamata in generale da quella d’appello in esordio (pag. 3). In questo senso, infatti,
concordemente depongono l’evidenziato tenore perspicuo del dato normativo e la già perfezionata cessione a terzi dell’azienda da parte dell’imputata, attestata non
soltanto dall’invio al Comune della comunicazione di cessazione dell’attività a giugno 2020, ma soprattutto dal sopralluogo condotto dalla Guardia di finanza nel
successivo mese di luglio del 2020, che aveva permesso di rilevare come, nei relativi locali, già operasse un nuovo soggetto economico, il cui “accordo di fatto”
con la ricorrente – in base al quale quest’ultima avrebbe continuato a svolgere la sua attività d’impresa – risulta un semplice asserto difensivo, privo di qualsiasi
sostegno probatorio.
4. L’inammissibilità del ricorso comporta obbligatoriamente – ai sensi dell’art.
616, cod. proc. pen. – la condanna della proponente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende, non
ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 10 aprile 2025.