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Contributi a fondo perduto: attività cessata e reato

La Corte di Cassazione conferma la condanna per indebita percezione di erogazioni pubbliche a carico di un’imprenditrice che aveva richiesto e ottenuto contributi a fondo perduto pur avendo di fatto cessato la propria attività. La sentenza chiarisce che, per accedere a tali aiuti, non è sufficiente il requisito formale della partita IVA attiva, ma è necessario quello sostanziale dell’effettivo esercizio dell’attività d’impresa. L’erronea convinzione di avere diritto ai fondi non esclude il reato, configurandosi come un errore di diritto inescusabile.

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Pubblicato il 24 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Contributi a Fondo Perduto: Attività Cessata ma Partita IVA Attiva? La Cassazione Chiarisce

L’accesso ai contributi a fondo perduto durante l’emergenza pandemica è stato un tema cruciale per molti imprenditori. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha fornito un chiarimento fondamentale: per ottenere legittimamente tali aiuti, non basta mantenere la partita IVA attiva, ma è indispensabile che l’attività d’impresa sia effettivamente operativa. La Corte ha confermato la condanna per indebita percezione di erogazioni pubbliche a carico di un’imprenditrice che aveva richiesto i fondi nonostante la sua attività fosse già di fatto cessata, stabilendo un principio di rigore a tutela delle risorse pubbliche.

I Fatti del Caso: La Richiesta di Aiuti per un’Attività Non Operativa

Il caso riguarda un’imprenditrice condannata nei primi due gradi di giudizio per il reato previsto dall’art. 316-ter del codice penale. L’accusa era di aver ottenuto indebitamente contributi a fondo perduto presentando, nel luglio 2020 e nel maggio 2021, due istanze in cui attestava falsamente di esercitare un’attività d’impresa. In realtà, secondo l’accusa, tale attività era già cessata.

La difesa dell’imputata sosteneva che l’attività non fosse realmente cessata, ma solo sospesa a causa delle restrizioni pandemiche. A supporto di questa tesi, evidenziava che la partita IVA era rimasta aperta fino a dicembre 2021 e che la comunicazione di cessazione inviata al Comune riguardava solo una parte dell’attività (il bar-pasticceria e non il ristorante). Inoltre, l’imputata affermava di aver mantenuto la proprietà dei beni strumentali e di aver stretto accordi con nuovi gestori per preservare l’occupazione, agendo in coerenza con gli obiettivi della normativa emergenziale.

L’Analisi della Corte: il requisito sostanziale per i contributi a fondo perduto

La Corte di Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha respinto categoricamente la linea difensiva. I giudici hanno sottolineato la chiarezza delle norme istitutive dei contributi (D.L. n. 34/2020 e D.L. n. 41/2021). Entrambi i decreti prevedevano che i beneficiari fossero “soggetti esercenti attività d’impresa” e specificavano che il contributo “non spetta, in ogni caso, ai soggetti la cui attività risulti cessata” alla data di presentazione dell’istanza o di entrata in vigore del decreto.

Da questa formulazione, la Corte ha dedotto che il legislatore ha richiesto due requisiti cumulativi:
1. Il requisito formale: la titolarità di una partita IVA attiva.
2. Il requisito sostanziale: l’effettivo esercizio di un’attività d’impresa.

La logica dietro questa duplice condizione è evidente: il sostegno economico era finalizzato ad aiutare le imprese attive a superare la crisi, non a finanziare soggetti la cui attività era già terminata. La sola esistenza formale della partita IVA non era, quindi, sufficiente a giustificare l’erogazione dei fondi.

Le Motivazioni della Decisione

La Suprema Corte ha ritenuto gli argomenti della ricorrente manifestamente infondati. In primo luogo, ha evidenziato come il ricorso fosse una semplice riproposizione di doglianze già esaminate e respinte dalla Corte d’Appello, la quale aveva fornito una risposta puntuale e convincente basata sul nitido testo normativo.

In secondo luogo, è stato smontato l’argomento relativo all’errore sulla legge. La difesa aveva invocato l’art. 47 del codice penale, sostenendo che l’imprenditrice fosse caduta in un errore sul fatto, determinato da un’errata interpretazione della legge extra-penale (i decreti emergenziali). La Cassazione ha chiarito che, in questo caso, non si trattava di un errore sul fatto, ma di un errore di diritto sull’interpretazione della norma che integra il precetto penale. Tale errore, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, non esclude il dolo e, quindi, la responsabilità penale.

Le Conclusioni: Implicazioni per Imprenditori e Professionisti

La decisione della Corte di Cassazione stabilisce un principio di notevole importanza pratica. Dimostra che, nell’accedere ad aiuti pubblici come i contributi a fondo perduto, la sostanza prevale sulla forma. Non è sufficiente adempiere a meri obblighi formali, come mantenere aperta una partita IVA, se l’attività economica a cui si riferiscono è di fatto cessata. Le dichiarazioni rese nelle istanze devono corrispondere alla realtà operativa dell’impresa.

Questa sentenza funge da monito per tutti gli operatori economici: la richiesta di fondi pubblici richiede la massima trasparenza e correttezza. Dichiarare il falso, anche per un’erronea convinzione di averne diritto, espone a gravi conseguenze penali. È pertanto fondamentale comprendere appieno non solo la lettera, ma anche la ratio e lo scopo sostanziale delle norme che regolano gli aiuti di Stato, per evitare di incorrere nel reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche.

È sufficiente avere una partita IVA attiva per richiedere i contributi a fondo perduto previsti per l’emergenza pandemica?
No, la sentenza chiarisce che oltre al requisito formale della titolarità di una partita IVA, era necessario il requisito sostanziale dell’effettivo esercizio di un’attività d’impresa al momento della presentazione della domanda.

Cosa si intende per ‘attività cessata’ ai fini di questi contributi?
Si intende la cessazione di fatto dell’attività imprenditoriale, non la mera dichiarazione formale di cessazione ai fini fiscali. Se l’impresa non è più operativa, non ha diritto ai contributi, anche se la partita IVA è ancora aperta.

Sbagliare a interpretare i requisiti per un contributo pubblico può essere considerato un errore scusabile che esclude il reato?
No. La Corte ha stabilito che un’errata interpretazione della normativa che stabilisce i requisiti per i contributi costituisce un errore di diritto, non un errore sul fatto, e quindi non esclude la responsabilità penale per il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche (art. 316-ter c.p.).

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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