Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 14975 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 14975 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di COGNOME NOME, nato a Napoli il DATA_NASCITA, contro l’ordinanza del Tribunale di Napoli del 15.12.2023;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME:a;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore Generale NOME COGNOME, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 15.12.2023 il Tribunale di Napoli ha respinto l’appello proposto nell’interesse di NOME COGNOME contro il provvedimento con cui il GIP aveva a sua volta rigettato l’istanza diretta ad ottenere la declaratoria di inefficacia
della misura della custodia cautelare in carcere disposta con provvedimento del 2.2.2018 in relazione a fatti di tentata estorsione aggravata anche ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen.;
ricorre per cassazione l’COGNOME a mezzo del difensore che deduce:
2.1 inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale con riguardo, in particolare, all’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen.: riassunti i principi in materia di contestazione “a catena” rileva che, in data 7.11.2023, è stata eseguita, nei confronti dell’COGNOME, la misura della custodia in carcere per fatti di associazione a delinquere di stampo mafioso e di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, con condotta tenuta sino al febbraio del 2018; aggiunge che, in data 2.7.2018, all’esito del giudizio abbreviato, era stata emessa nei suoi confronti una sentenza di condanna alla pena di anni 6 e mesi 8 di reclusione per fatti di tentata estorsione in concorso aggravata anche ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen. in danno del RAGIONE_SOCIALE e per i quali era stata adottata una prima misura custodiale in data 2.2.2018; segnala che, dallo stesso tenore dell’ordinanza del 2023, emerge che gli elementi indiziari ivi valorizzati sono in realtà i medesimi già valutati nella vicenda precedente e che, con l’atto di appello, la difesa aveva evidenziato come, alla data di ammissione del rito abbreviato nel procedimento 9190/2018, fossero state già acquisite nove chiamate in correità da parte dei collaboratori di giustizia riferite a condotte d partecipazione al sodalizio oggetto della provvisoria incolpazione, dato con cui il Tribunale ha sostanzialmente omesso di confrontarsi; osserva, ancora, che le dichiarazioni del COGNOME e dello Tuono non potevano nemmeno considerarsi puntualmente riferite al ricorrente mentre il riferimento alle intercettazioni dei mesi di marzo, maggio, giugno e luglio del 2018 sono persino estranee alla contestazione che è temporalmente delimitata al febbraio del 2018; Corte di RAGIONE_SOCIALEzione – copia non ufficiale
la Procura Generale ha trasmesso la requisitoria scritta ai sensi dell’art. 23, comma 8, del DL 127 del 2020, concludendo per l’inammissibilità del ricorso: rileva, infatti, che, rispetto al tema della retrodatazione correlato alla desumibilità dei fatti di associazione di stampo camorristico già al tempo della definizione del procedimento avente ad oggetto il delitto di estorsione (maggio 2018) tanto il GIP, quanto il Tribunale del Riesame hanno motivato in termini immuni da profili di manifesta illogicità, con puntuale richiamo alle risultanze investigative ed in linea con i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza; sottolinea pertanto il carattere meramente reiterativo dell’eccezione sollevata dalla difesa e che, in particolare, il Tribunale si è specificamente soffermato sul presupposto applicativo dell’invocata normativa, ovvero l’esistenza di una connessione tra i reati, in merito
al quale tuttavia il ricorso è rimasto del tutto silente, con conseguente inammissibilità del ricorso per difetto di interesse;
la difesa ha a sua volta trasmesso una memoria in replica alle considerazioni del PG rispetto alle quali osserva che l’appello cautelare è un mezzo di impugnazione parzialmente devolutivo che segue le stesse regole dell’appello sul merito e che, nel caso in esame, il Tribunale del Riesame, nel rigettare l’impugnazione, è partito dalla premessa della insussistenza del nesso per continuazione o teleologico, in tal modo, tuttavia, andando oltre quanto devoluto, poiché il GIP, nell’ordinanza di rigetto aveva invece ritenuto sussistente il nesso teleologico e tale argomentazione non era stata oggetto di impugnazione poiché il primo giudice aveva concentrato l’attenzione sul profilo della desumibilità degli indizi dagli atti già disponibili che, invero, e contrariamente a quanto addotto dal PG, rappresenta l’effettiva e reale ratio della decisione adottata dai giudici dell’appello cautelare.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché articolato su censure manifestamente infondate.
1. L’art. 297 comma terzo cod. proc. pen., concernente le contestazioni c.d. “a catena”, ha codificato la regula iurís, frutto della giurisprudenza formatasi sotto la vigenza del codice previgente, con la quale era stata individuata una deroga al principio della decorrenza autonoma dei termini di durata massima della custodia in relazione a ciascun titolo cautelare, all’evidente fine di evitare il fenomeno della dilatazione dei tempi della “carcerazione provvisoria” mediante l’emissione, in momenti diversi, nei confronti della stessa persona, di più provvedimenti coercitivi concernenti il medesimo fatto, diversamente qualificato o circostanziato, ovvero riguardanti fatti di reato diversi ma connessi tra loro.
Nel testo originario l’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., stabiliva che la decorrenza del termine di durata massima della custodia cautelare si sarebbe dovuta retrodatare al momento dell’esecuzione di altra precedente ordinanza cautelare, laddove i due provvedimenti avessero riguardato lo stesso fatto ovvero più fatti in concorso formale tra loro, oppure integranti ipotesi di aberratío delicti o di aberratío ictus pluríoffensíva.
Nella versione successiva, introdotta nel 1995 con la legge 332, l’operatività del meccanismo di retrodatazione era stata prevista esclusivamente
per i casi di connessione qualificata ai sensi dell’art. 12 cod. proc. pen., lett. b (concorso formale e continuazione tra i reati) e c) limitatamente all’ipotesi di reati connessi per eseguire gli altri (connessione teleologia); si è, poi, introdotta una regola generale di retrodatazione “automatica” (“se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura.., i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave”) non operante in questi termini laddove la seconda ordinanza cautelare fosse stata adottata dopo il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza (“la disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma”).
L’ambito di operatività della previsione normativa si è ampliato per effetto della sentenza additiva n. 408 del 2005, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato la illegittimità dell’art. 297, comma terzo, cod. proc. pen., nella parte in cui “non si applica anche a fatti diversi non connessi, quando risulti che gli elementi per emettere la nuova ordinanza erano già desumibili dagli atti al momento dell’emissione della precedente ordinanza” ed inoltre ulteriormente precisata dalla sentenza n. 233 del 2011, che ha dichiarato la illegittimità dello stesso art. 297, comma 3, nella parte in cui, con riferimento alle ordinanze che dispongono misure cautelari per fatti diversi, non prevede che la regola in tema di decorrenza dei termini in esso stabilita si applichi anche quando, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.
In definitiva, la disposizione in esame, secondo uno schema ricostruttivo che risulta puntualmente e chiaramente delineato da Sez. n. 10788 del 29.1.2016 n. 10.788, Rao, tratteggia tre diverse ipotesi di “retrodatazione” caratterizzate, peraltro, dal presupposto comune rappresentato dal fatto che i delitti oggetto della ordinanza cautelare cronologicamente posteriore siano stati commessi antecedentemente alla data emissione della ordinanza cautelare cronologicamente anteriore.
La prima ipotesi è quella in cui le due (o più) ordinanze applicative di misure cautelari personali abbiano ad oggetto fatti – reato legati tra loro da un rapporto di concorso formale, continuazione o da connessione teleologia (casi di connessione qualificata) ed in cui, per le imputazioni oggetto del primo provvedimento coercitivo, non sia ancora intervenuto il rinvio a giudizio.
In questo caso trova applicazione la disposizione dettata dal primo periodo dell’art. 297 comma tero, cod. proc. pen., secondo cui la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata della misura o RAGIONE_SOCIALE misure applicate
successivamente alla prima opera automaticamente e, dunque – come affermato dalle Sezioni unite di questa Corte – “indipendentemente dalla possibilità, al momento della emissione della prima ordinanza, di desumere dagli atti l’esistenza dei fatti oggetto RAGIONE_SOCIALE ordinanze successive e, a maggior ragione, indipendentemente dalla possibilità di desumere dagli atti l’esistenza degli elementi idonei a giustificare le relative misure” (cfr., Cass. SS.UU., 19.12.2006, Librato); detto automatismo risponde, infatti, all’esigenza “di mantenere la durata della custodia cautelare nei limiti stabiliti dalla legge, anche quando nel corso RAGIONE_SOCIALE indagini emergono fatti diversi legati da connessione qualificata” (cfr., C. Cost., 28 marzo 1996, n. 89) ed opera solo se le ordinanze siano state emesse nello stesso procedimento penale.
La seconda ipotesi, come si è detto, rappresenta una variante della prima e riposa comunque sull’accertata esistenza, tra i fatti oggetto RAGIONE_SOCIALE distinte ordinanze cautelari, di una RAGIONE_SOCIALE tre forme di connessione qualificata sopra indicate, ma è caratterizzata dall’intervenuta emissione del decreto di rinvio a giudizio per i fatti oggetto del primo provvedimento coercitivo; essa presuppone, inoltre, che le due o più ordinanze siano state emesse in distinti procedimenti essendo peraltro irrilevante il fatto che essi siano frutto della “gemmazione” da un unico procedimento, vale a dire siano la conseguenza di una separazione RAGIONE_SOCIALE indagini per taluni fatti, oppure che i due procedimenti abbiano avuto autonome origini.
In tal caso risulta applicabile la regola dettata dal secondo periodo dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., sicché la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima RAGIONE_SOCIALE misure applicate con la successiva o le successive ordinanze opera solo se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano desumibili dagli atti già prima del momento in cui è intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza.
La terza ipotesi è, infine, quella in cui tra i fatti oggetto dei du provvedimenti cautelari non esista alcuna connessione ovvero sia configurabile una forma di connessione “non qualificata”; si tratta, infatti, della ipotesi frutt dell’intervento manipolativo della Corte Costituzionale con la sentenza n. 408 del 2005 per effetto del quale la retrodatazione della decorrenza del termine di durata massima della misura cautelare si applica “in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l’autorità giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l’adozione RAGIONE_SOCIALE singole ordinanze”; in tal caso il giudice deve, perciò, verificare se al momento dell’emissione della prima ordinanza cautelare, non fossero desumibili, dagli atti a disposizione, gli elementi per emettere la successiva
ordinanza cautelare; con l’ulteriore precisazione secondo cui tale regola opera solo se le due ordinanze siano state emesse in uno stesso procedimento penale, perché se i provvedimenti cautelari sono stati adottati in procedimenti formalmente differenti, occorre verificare che al momento della emissione della prima ordinanza vi fossero gli elementi idonei a giustificare l’applicazione della misura disposta con la seconda ordinanza e che i due procedimenti siano in corso dinanzi alla stessa autorità giudiziaria e che la separazione possa essere stata il frutto di una scelta del pubblico ministero (cfr., SS.UU. “Librato”; Sez. 1, n. 22681 del 27.5.2008, Caniello).
2. Tanto premesso in via generale, nel caso di specie,, come risulta dal provvedimento impugnato e dagli atti ivi richiamati, è accaduto che il GIP di Napoli, in data 2.2.20218, aveva adottato, nei confronti dell’COGNOME, una prima misura cautelare richiesta dal PM nel procedimento 9190/18 per fatti di tentata estorsione aggravata anche ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen. commessi nell’aprile del 2016; nei riguardi del ricorrente, poi, è stata emessa una nuova misura custodiale, adottata in data 13.9.2023, in relazione a fatti di associazione a delinquere di stampo mafioso e di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti (con contestazione della condotta sino al febbraio del 2018 quando era intervenuta la prima ordinanza).
Nel primo procedimento l’COGNOME, per i fatti ivi contestati e per i quali era stato sottoposto a misura cautelare nel 2018, è stato condannato nel maggio di quello stesso con sentenza definitiva in data 24.1.2021 alla pena di anni 4, mesi 5 e giorni 10 di reclusione; la richiesta di rinvio a giudizio era stata del 12.4.2018 con rito abbreviato ammesso in data 24.5.2018.
Il GIP, nel respingere l’istanza di “retrodatazione” (alla data di adozione della prima) della seconda ordinanza custodiale, aveva spiegato che, pur essendovi connessione tra i fatti oggetto della prima ordinanza con quelli relativi alla partecipazione al sodalizio di cui all’art. 416-bis cod. pen. (ma non già, al contrario, per quelli di cui all’art. 74 DPR :309 del 1990), gli elementi per giustificare la seconda ordinanza non erano tutti disponibili all’atto della adozione del primo provvedimento, avendo a tal fine richiamato una serie di conversazioni intercettate nei mesi di marzo, maggio e giugno del 2018 e le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia COGNOME, acquisite nel 2021.
Il Tribunale, nel ritenere infondato il gravame difensivo, ha in primo luogo inquadrato la vicenda concreta nell’ambito dell’ipotesi di cui al comma terzo dell’art. 297 cod. proc. pen. che fa riferimento alla necessità dell’esistenza di un rapporto di connessione qualificata ed alla presenza, al momento della adozione del rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza, degli elementi
investigativi fondanti la seconda ed ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte circa la insussistenza, in astratto, di un vincolo teleologico tra reato associativo e reati fine.
Ha spiegato che doveva escludersi un nesso teleologico o di continuazione (ovvero di profili di connessione qualificata rilevante ai sensi dell’art. 297 comma terzo cod. proc. pen. nella versione originaria) tra il delitto di associazione finalizzata al traffico degli stupefacenti (oggetto della seconda ordinanza) ed il reato di estorsione oggetto del primo provvedimento di custodia cautelare in carcere ma, invero, anche con il reato associativo cod. pen. non essendovi prova che, all’atto della affiliazione, l’indagato avesse già programmato le condotte estorsive oggetto del primo provvedimento di custodia cautelare.
In secondo luogo, ed in via (a giudizio del collegio comunque assorbente), ha spiegato che, in ogni caso, gli elementi fondanti la seconda ordinanza non erano per un verso disponibili e, per altro verso, non ne fosse stata vagliata la intera portata probatoria; ha chiarito che il GIP aveva giudicato decisive sia le ulteriori dichiarazioni rese dallo Tuono nel corso del 2020 che l’attività di intercettazione avente ad oggetto le conversazioni captate a partire dal marzo del 2018 laddove la richiesta di rinvio a giudizio per il primo procedimento è del maggio di quello stesso anno.
Va chiarito, a questo punto, che, partendo da premesse diverse per pervenire ad un approdo simile a quello cui era pervenuto il GIP, il Tribunale non ha certamente travalicato i limiti fissati dall’atto di impugnazione e dal principio devolutivo: più volte questa Corte ha spiegato che la cognizione del giudice d’appello cautelare è limitata ai punti cui si riferiscono i motivi di gravame e a quelli ad essi strettamente connessi, ma non è condizionata dalle deduzioni in fatto e dalle argomentazioni in diritto poste a base della decisione impugnata a sostegno del proprio assunto (cfr., in tal senso, Sez. 2, n. 18057 del 01/04/2014, Campana, Rv. 259712 – 01 resa in una fattispecie identica a quella che ci occupa ed in cui la Corte ha ritenuto che legittimamente il tribunale, pronunciandosi su appello dell’indagato, aveva confermato la decisione di rigetto di istanza di scarcerazione per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare, proposta per asserita violazione RAGIONE_SOCIALE regole dettate in tema di contestazione a catena, osservando, in difformità di quanto affermato dal primo giudice, che doveva ritenersi insussistente il presupposto della connessione qualificata, e sussistente, invece, quello della “desumibilità degli atti”: conf., sempre in un caso di “contestazione a catena”, Sez. U, n. 8 del 25/06/1997, COGNOME, Rv. 208313 01).
Per altro verso, ed altrettanto correttamente, il Tribunale ha anche spiegato che, oltre alla loro “materiale” acquisizione, ai fini della “desumibilità” rileva attività di trascrizione e “sistemazione” RAGIONE_SOCIALE conversazioni intercettate che consenta di apprezzarne appieno la portata indiziaria; in tal modo, il Tribunale, pertanto, ha fatto corretta applicazione del principio per cui, in tema di retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, la nozione di anteriore “desumibilità”, dagli atti inerenti alla prima ordinanza cautelare, RAGIONE_SOCIALE fonti indiziarie poste a fondamento dell’ordinanza cautelare successiva, consiste non nella mera conoscibilità storica di determinate evenienze fattuali, ma nella condizione di conoscenza derivata da un determinato compendio documentale o dichiarativo che consenta al pubblico ministero di esprimere un meditato apprezzamento prognostico della concludenza e gravità degli indizi, suscettibile di dare luogo, in presenza di concrete esigenze cautelari, alla richiesta e alla adozione di una nuova misura cautelare (cfr., in tal senso, Sez. 3, n. 48034 del 25/10/2019, Rv. 277351 – 02, resa in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione del tribunale che aveva escluso la retrodatazione in quanto l’informativa finale relativa ai fatti per i quali era stato emesso il secondo titolo cautelare era stata depositata due mesi dopo l’applicazione della prima ordinanza, intervenuta a seguito di arresto in flagranza, quando non sussisteva altro elemento per ipotizzare il coinvolgimento dei ricorrenti negli episodi, quantunque commessi in precedenza, contestati con la seconda ordinanza; conf., Sez. 6, n. 11807 del 11/02/2013, COGNOME, Rv. 255722 – 01 e, più recentemente, tra le non massimate, anche, Sez. 2, n. 38037 dell’8.9.2023, COGNOME).
L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., della somma – che si stima equa – di euro 3.000 in favore della RAGIONE_SOCIALE, non ravvisandosi ragione alcuna d’esonero.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e della somma di euro tremila in favore della RAGIONE_SOCIALE.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter disp. att. cod. proc. pen..
Così deciso in Roma, il 15.3.2024