Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 33047 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 33047 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 16/07/2024
SENTENZA
sul conflitto di competenza sollevato da:
G.I.P. del TRIBUNALE di NAPOLI NORD
nei confronti di:
TRIBUNALE di NAPOLI NORD, SEZIONE CIVILE
con l’ordinanza del 30/05/2024 del G.I.P. del TRIBUNALE di NAPOLI NORD
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
lette le conclusioni del PG, NOME COGNOME, che ha chiesto dichiararsi l’insussistenza del conflitto.
Ritenuto in fatto
Con decreto del 27 ottobre 2023 il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord ha disposto la restituzione a NOME COGNOME, originaria proprietaria dell’autovettura di cui erano state successivamente contraffatte le targhe ed il telaio, di una Jeep Renegade sequestrata nel corso del procedimento penale n 531944/20 R.G.N.R. mod. 44.
Con atto di opposizione al g.i.p. ex art. 263, comma 5, cod. proc. pen., NOME COGNOME ha chiesto che l’autovettura fosse restituita a lei, deducendo di averla acquistata in buona fede.
Con ordinanza del 26 gennaio 2024 il g.i.p. del Tribunale di Napoli Nord ha rimesso al giudice civile la risoluzione della controversia sulla proprietà delle cose sequestrate.
Con ordinanza del 10 febbraio 2024 il giudice civile del Tribunale di Napoli Nord ha declinato la propria competenza a provvedere restituendo gli atti al g.i.p., sostenendo che l’art. 263, comma 5, cod. proc. pen. si appl cherebbe soltanto nel caso in cui sia già pendente controversia davanti al giudice civile sulla proprietà delle cose sequestrate, mentre nel caso in esame la controversia non era pendente né al momento del provvedimento del g.i.p. né successivamente ad essa, perché nessuna delle parti private ha incardinato un giudizio civile per l’accertamento della proprietà dell’autoveicolo.
A seguito del provvedimento di restituzione del g.i.p. del 5 marzo 2024, il presidente coordinatore del settore civile del Tribunale di Napoli Nord, con provvedimento del 15 maggio 2024, rilevato che il giudice civile è chiamato a decidere la controversia sulla proprietà delle cose sequestrate insorta dinanzi al giudice penale, anche quando quest’ultima non sia ancora pendente, ha preso atto della competenza del giudice civile, ma ha disposto che l’ufficio del ruolo generale non procedesse all’iscrizione di alcun procedimento e ha confermato la restituzione degli atti al g.i.p. In particolare, nel provvedimento del 15 maggio 2024 si è sottolineato che, in ogni caso, l’attivazione del procedimento dinanzi al giudice civile non può avvenire per effetto della trasmissione degli atti da parte del giudice penale, ma richiede l’iniziativa di una delle parti litiganti.
Con ordinanza del 30 maggio 2024 il g.i.p. del Tribunale di Napoli Nord ha sollevato conflitto negativo di competenza ex artt. 28 e 30 cod. proc. pen., evidenziando che per la rimessione al giudice civile della risoluzione della questione sulla proprietà di un bene in sequestro penale è sufficiente che vi sia una “contestazione” sulla proprietà, non necessariamente un giudizio civile già in essere, e che, quindi, il giudice competente a decidere sulla proprietà del bene in sequestro deve essere individuato nel giudice civile.
Con requisitoria scritta il Procuratore Generale, AVV_NOTAIO, ha concluso per l’insussistenza del conflitto.
Considerato in diritto
Il conflitto negativo di competenza deve essere dichiarato insussistente.
Perché sussista conflitto negativo occorre, infatti, una situazione di stasi processuale tra i giudici del merito non superabile senza l’intervento risolutore
della Corte di cassazione (Sez. 1, n. 3836 del 12/09/2017, dep. 2018, Confl. comp. in proc. S., Rv. 272290).
Nel caso in esame, nei provvedimenti assunti dai due giudici in conflitto, non vi è una situazione di stasi processuale non superabile senza l’intervento della Corte regolatrice, come risulta evidente ricostruendo il sistema della ripartizione dei poteri decisionali tra giudice penale e giudice civile di cui all’art. 263, comma 3, cod. proc. pen., nella lettura che la giurisprudenza di legittimità ha dato di questa norma.
L’art. 263, comma 3, cod. proc. pen. è una norma che prevede l’attribuzione agli organi giurisdizionali di due poteri (l’attribuzione al giudi penale del potere di rimettere le parti al giudice civile e l’attribuzione al giudi civile del potere di decidere la controversia) ma che non descrive la procedura attraverso cui devono coordinarsi questi due poteri, né, se non con una espressione succinta, le condizioni in presenza delle quali sono attribuiti questi due poteri, perché si limita ad affermare soltanto che “in caso di controversia sulla proprietà delle cose sequestrate, il giudice ne rimette la risoluzione al giudice civile del luogo competente in primo grado, mantenendo nel frattempo il sequestro”.
La norma non precisa espressamente, in particolare, né cosa si debba intendere per “controversia”, né quale sia la procedura attraverso cui deve essere incardinato il giudizio civile, limitandosi a regolare quella che si svolge davanti a giudice penale, o – in indagini preliminari – davanti al pubblico ministero ed al g.i.p., in caso di eventuale opposizione.
Pur tuttavia, nella giurisprudenza di legittimità esistono ormai alcuni punti fermi attraverso cui il sistema processuale dell’art. 263, comma 3, cod. proc. pen. può essere compiutamente ricostruito.
2.1. Il primo punto fermo è che, agli effetti di questa norma, per “controversia” si deve intendere una “contestazione” sulla proprietà delle cose sequestrate, non essendo necessario che sia già pendente un giudizio civile (Sez. 1, n. 23333 del 16/04/2014, COGNOME, Rv. 259917; conformi Sez. 2, n. 44960 del 30/09/2014, COGNOME, Rv. 260318; Sez. 2, n. 38418 del 08/07/2015, COGNOME, Rv. 264532; Sez. 2, n. 49530 del 24/10/2019, COGNOME, Rv. 277935).
In mancanza della formale pendenza della lite, per rimettere la soluzione della questione al giudice civile, il giudice penale deve limitarsi a dare atto con adeguata motivazione della serietà della potenziale controversia (Sez. 3, n. 6562 del 26/09/2023, dep. 2024, Lo Rillo, Rv. 285949). E quest’ultima puntualizzazione appare di particolare rilievo perché attribuisce al giudice penale, che resta investito
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della richiesta di restituzione, il controllo della procedura, in ragione della genes del vincolo cautelare e degli interessi pubblicistici che sono sottesi allo stesso.
2.2. Il secondo punto fermo è che ciò che si svolge davanti al giudice civile è vero e proprio giudizio civile, che si conclude con una decisione soggetta ad impugnazione, secondo le regole del processo civile (Sez. 1, n. 28447 del 27/04/2012, COGNOME, Rv. 253077; conforme Sez. 2, n. 29811 del 20/10/2020, COGNOME, Rv. 279820). Le forme della decisione del giudice civile sono, pertanto, quelle del processo civile.
2.3. Il terzo punto fermo è che, per incardinare il giudizio civile, non sufficiente il provvedimento del giudice penale di cui all’art. 263, comma 3, cod. proc. pen. che gli rimette la soluzione della questione, ma occorra anche un atto propulsivo di parte presentato secondo le regole del giudizio civile (Sez. 2, n. 44960 del 30/09/2014, COGNOME, Rv. 260318; Sez. 2, n. 26914 del 06/06/2013, COGNOME, Rv. 255747; Sez. 5, n. 1414 del 06/03/1998, COGNOME, Rv. 211268).
2.4. La circostanza che occorra un atto propulsivo di parte presentato secondo le regole del giudizio civile comporta, però, la nascita di una ulteriore questione a valle, ovvero cosa accada quando alla ordinanza del giudice penale che rimette la questione al giudice civile ex art. 263, comma 3, cod. proc. pen., non segua l’atto propulsivo di una parte, secondo le regole del giudizio civile.
La giurisprudenza della Corte non è ancora pervenuta a dare una risposta univoca a tale questione, su cui si registrano diversi orientamenti.
La pronuncia COGNOME sopra citata, infatti, ritiene che “nel caso in cui non sia instaurata una lite davanti al giudice civile, potrebbe profilarsi una concreta ed irrisolvibile situazione di impasse processuale, ove nessuna delle parti promuova la causa civile, con la conseguenza che il bene rischierebbe di rimanere confinato in una sorta di anomalo limbo processuale che non è né quello penale né quello civile”, per poi concludere – con orientamento minoritario che, come si è visto, non ha avuto continuità nella giurisprudenza della Corte – che l’unico modo per evitare l’impasse è ritenere che il meccanismo di cui all’art. 263, comma 3, cod. proc. pen. possa operare soltanto se una controversia civile sia già pendente.
La pronuncia COGNOME, invece, ritiene che la questione dell’inerzia delle parti nel dare seguito al provvedimento del giudice penale possa essere risolta con un atto di impulso dello stesso giudice civile (“nel procedimento dinanzi al giudice ( civile la questione si porrà eventualmente in termini di partecipazione al giudizio, anche iussu iudicis).
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Anche questo orientamento, però, non ha avuto continuità nella giurisprudenza della Corte. Infatti, se nel codice di procedura civile esistono norme che consentono al giudice di ordinare la chiamata in causa di un terzo interessato al giudizio non coinvolto dalle parti costituite (art. 107 cod. proc. civ; art. 270 co proc. civ.), non esistono, però, norme che consentano al giudice di imporre ad un soggetto di iniziare un giudizio civile contro la sua volontà.
Ne consegue la difficoltà ad ipotizzare che l’impasse generata dalla ordinanza del giudice penale ex art. 263, comma 3, cod. proc. pen., possa essere superata da un potere di iniziativa del giudice civile, che dovrebbe essere costruito in modo atipico, senza una norma di riferimento ed anche in modo poco coerente con i principi generali del processo civile.
In tempi più recenti, nella giurisprudenza della Corte è emerso, pertanto, un ulteriore orientamento, cui il collegio ritiene di dare continuità, che ha ritenuto ch la eventuale inerzia delle parti nell’incardinare il giudizio davanti al giudice civ individuato nella ordinanza ex art. 263, comma 3, cod. proc. pen., comporti la riespansione piena dei poteri decisori del giudice penale (Sez. 2, n. 38418 del 08/07/2015, COGNOME, Rv. 264532).
In particolare, nella pronuncia COGNOME si sostiene che “deve essere tenuta in considerazione la struttura del processo civile che è ad impulso di parte e non risulta attivabile d’ufficio dal giudice penale. Deve inoltre essere considerato che incombe sul giudice penale l’obbligo di decidere ogni questione nell’ambito della cognizione a lui devoluta (art. 2 cod. peri.). Si tratta di un collegamento tr giurisdizioni che presuppone la collaborazione delle parti finalizzata alla valorizzazione della specializzazione del processo civile nella definizione delle controversie sulla proprietà insorte nell’ambito del procedimento penale. Il vincolo penale assume natura ancillare rispetto alla causa civile. L’ipotesi in cui le part non attivino il procedimento civile che garantisce la risoluzione della controversia sulla proprietà del bene, come osservato da parte della giurisprudenza potrebbe condurre al mantenimento di un vincolo in sede penale non sostenuto da una adeguata ragione giustificatrice. Se il processo dovesse concludersi senza che sia stata attivato il procedimento civile al giudice penale non resta che decidere sulla destinazione del bene in sequestro sulla base degli elementi disponibili”.
La soluzione della riespansione del potere decisionale in capo al giudice penale sposata dalla sentenza COGNOME è coerente con l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che ritiene che il potere di provvedere in ordine alla custodia delle cose in sequestro resti in capo al giudice penale fino alla sentenza definitiva del giudice civile (Sez. 6, n. 3118 del 20/09/1995, COGNOME, Rv. 202725; conformi Sez. 2, n. 29811 del 20/10/2020, COGNOME, Rv. 279820; Sez.
1, n. 28447 del 27/4/2012, COGNOME, Rv. 253077; Sez. 1, n. 11271 del 21/02/2008, COGNOME, Rv. 239144; Sez. 1, n. 15036 del 15/02/2005, COGNOME, Rv. 231435).
Come ha evidenziato in motivazione la sentenza COGNOME, “l’insorgere della controversia sulla proprietà delle cose sequestrate, delle quali è stata ordinata la restituzione, di per sè non fa venir meno del tutto la competenza del giudice penale”. Il giudice penale resta, pertanto, il dominus del bene in sequestro finanche nel periodo di vigenza del giudizio civile cui ha rimesso la decisione sulla proprietà del bene sequestrato.
La soluzione del ritorno del potere decisionale in capo al giudice penale è anche l’unica ipotesi ricostruttiva possibile nel momento in cui si ritiene che il giudice civile abbia bisogno di un atto di impulso delle parti per poter incardinare la decisione dinanzi a sé, come confermato dal rilievo che le parti , tenendo certi comportamenti, possono far venire meno il potere del giudice di decidere (art. 181 cod. proc. civ.; art. 309 cod. proc. civ.), laddove il processo penale, per la presenza, come detto, di interessi pubblicistici, non tollera che la procedura di restituzione del bene in sequestro si concluda senza una decisione.
La decisione del giudice penale di cui all’art. 263, comma 3, cod. proc. pen., può essere soltanto interlocutoria e ordinatoria (Sez. 2, n. 51692 del 02/11/2023, COGNOME, Rv. 285677, che ritiene, infatti, il provvedimento non impugnabile; conformi Sez. 1, n. 6769 del 03/12/2018, dep. 2019, Filippi, Rv. 27480; Sez. 1, n. 31088 del 25/06/2018, COGNOME, Rv. 273487), ma non può essere l’esito conclusivo della subprocedura di restituzione.
Il ritorno del potere decisionale in capo al giudice penale non riporta, peraltro, le parti al punto di partenza, rendendo defatigante e foriera di inutile perdita di tempo, in contrasto con la ragionevole durata del processo e con la tutela del diritto civile di proprietà, questa particolare interferenza tra giudizio penale giudizio civile prevista dall’art. 263, comma 3, cod. proc. pen.
Ed, infatti, la soluzione è coerente, per un verso, con la centralità del giudice penale, in ragione degli interessi pubblicistici sottesi alla previsione del vincolo, e per altro verso, con il rilievo che, difettando l’iniziativa processuale delle par necessaria a sollecitare il giudice civile a risolvere la controversia dominicale, viene ad emergere un disinteresse delle stesse che rifluisce sullo stesso requisito della serietà della controversia medesima.
Rinunciando ad adire il giudice civile, le parti perdono la disponibilità della prova che caratterizza il giudizio civile (art. 115 cod. proc. civ.) e accettano l interferenza tra diritto alla prova e potere di accertamento d’ufficio del fatto che caratterizza il processo penale e il ruolo che alle parti spetta nelle procedure di cui all’art. 127 cod. proc. pen. attraverso cui avviene la decisione sulla restituzione del bene in sequestro.
Rinunciando ad adire il giudice civile, le parti perdono anche la possibilità che la decisione sulla proprietà del bene in sequestro avvenga secondo lo standard civilistico del “più probabile che non” e accettano che la decisione del giudice penale, reintegrato nel potere di decidere della sorte del bene in sequestro dall’inerzia delle parti, possa essere anche quella di non disporre la restituzione in favore di nessuna delle parti, applicando il principio di diritto secondo cui “ai fi della restituzione della cosa sequestrata e non confiscata, è necessaria la prova rigorosa di un diritto legittimo e giuridicamente apprezzabile su di essa, non potendo ipotizzarsi, in questa materia, un favor possessionis che prescinda dal jus possidendi (Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, COGNOME, Rv. 202268).
Come si spiega nella motivazione della pronuncia COGNOME, infatti, la soluzione “rappresenta la puntuale applicazione della disciplina posta dall’art. 262, comma 1, cod. proc. pen., che, attraverso il testuale riferimento alla persona che “ne abbia diritto”, prescrive, ai fini della restituzione delle cose sequestrate e non confiscate la prova rigorosa di un diritto legittimo e giuridicamente apprezzabile”.
A differenza del processo civile che impone al giudice di decidere in favore di una delle parti processuali secondo lo standard di valutazione del “più probabile che non”, il sistema del processo penale, infatti, ha una norma di chiusura che permette al giudice di disporre in ogni caso del bene in sequestro anche quando manchi la “prova rigorosa” – per usare l’espressione della pronuncia COGNOME dello ius possidendi, e non sia possibile determinare chi sia l’avente diritto alla restituzione, prevedendo l’art. 151, comma 1, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, che “se l’avente diritto alla restituzione delle cose affidate in custodia a terzi, ovve alla cancelleria, è ignoto o irreperibile, il cancelliere presenta gli atti al magistr il quale ordina la vendita delle cose sequestrate da eseguirsi non oltre sessanta giorni dalla data del provvedimento”.
Come detto, dalla mancata iniziativa delle parti nell’incardinare il giudizio civile, il giudice penale può ricavare anche, a seconda delle circostanze del caso di specie e del valore venale del bene in sequestro, la conclusione dell’esistenza di un difetto di interesse delle parti ad ottenere la restituzione del bene, in conformità ai principi generali del processo penale secondo cui, per presentare un’impugnazione (e l’opposizione al g.i.p. contro il decreto del pubblico ministero che dispone la restituzione è ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità una forma di impugnazione, v. Sez. 1, n. 51192 del 22/05/2018, Commisso, Rv. 274480), occorre un interesse a ricorrere (Sez. U, n. 28911 del 28/03/2019, COGNOME, Rv. 275953; per una applicazione in una fattispecie di ricorso per cassazione per ottenere la restituzione di un ombrello ed un cappuccio, v. Sez. 1, n. 4245 del 13/12/2022, dep. 2023, Caso, n.m.). Ne discende che diviene, altresì, possibile chiudere la procedura di restituzione del bene in sequestro con la devoluzione alla
Cassa delle ammende di quanto ricavato dalla vendita dello stesso, prevista dalle norme di chiusura degli artt. 153 e 154 d.P.R. n. 115 del 2002.
2.5. La soluzione del ritorno del potere decisionale in capo al giudice penale comporta, però, un ulteriore problema interpretativo a valle, in quanto impone anche l’individuazione di un termine entro il quale le parti devono incardinare la controversia davanti al giudice civile, pena il ritorno della competenza a decidere in capo al giudice penale, nonché di uno strumento processuale attraverso cui il giudice penale viene ad essere nuovamente investito della decisione.
Si tratta di temi, decisivi per la soluzione del conflitto proposto dal g.i.p. d Tribunale di Napoli Nord, e non ancora sufficientemente esplorati nella giurisprudenza della Corte.
Quanto al termine, in assenza di indicazioni nella norma, la coerenza del sistema processuale impone che esso sia da un lato effettivo, dall’altro ragionevole, ovvero non sia talmente breve da frustrare il diritto delle parti ad incardinare in modo ponderato e corretto il giudizio davanti al giudice civile ed, al tempo stesso, non sia talmente lungo da lasciare in sospeso la decisione per tempi non compatibili con la tutela di un diritto, in particolare quello di proprietà.
Nell’ordinamento si rinviene una norma in cui questo bilanciamento tra aspetti diversi della tutela giurisdizionale dei diritti è effettuato direttamente d legislatore, che è l’art. 50, primo comma, cod. proc. civ., che dispone che “se la riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato nella ordinanza dal giudice e, in mancanza, in quello di tre mesi dalla comunicazione dell’ordinanza di regolamento o dell’ordinanza che dichiara l’incompetenza del giudice adito, il processo continua davanti al nuovo giudice”.
Si tratta di una norma che in sé non è direttamente applicabile al caso in esame, per le profonde differenze che sussistono tra il trasferimento di un giudizio davanti ad un diverso giudice civile e l’interferenza tra giudizio penale e giudizio civile, che consegue alla procedura di cui all’art. 263, comma 3, cod. proc. pen. E, al riguardo, basti pensare all’impossibilità, già evidenziata, che la procedura si concluda, in caso di inerzia delle parti, con l’estinzione del giudizio di cui al comma 2 del citato art. 50 cod. proc. civ..
Però, pur non essendo direttamente applicabile al caso in esame, occorre riconoscere che l’art. 50 cod. proc. civ. disegna un modello procedimentale generale che può essere assunto come riferimento anche per i casi di translatio iudicii non espressamente regolamentati da una norma, quale, per l’appunto, quello in esame.
Ne consegue che, applicando questo schema, dovrà essere il giudice penale, nella ordinanza con cui rimette le parti davanti al giudice civile ex art. 263, comma
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3, cod. proc. pen., a stabilire il termine entro cui le stesse dovranno incardinare la controversia davanti al giudice civile; in difetto, il mancato rispetto del termine d tre mesi dalla comunicazione dell’ordinanza potrà, in linea generale, essere assunto ragionevolmente dal giudice penale come indice dell’assenza di interesse delle parti, ossia della non serietà della controversia. Scaduto tale termine, che rappresenta, quindi, un parametro di riferimento per valutare la serietà della controversia, sollevata ma non ancora introdotta davanti al giudice competente, il potere di decidere sulla destinazione del bene in sequestro tornerà al giudice penale.
Quanto allo strumento processuale attraverso cui dovrà essere investito nuovamente il giudice penale, ritiene il collegio che, nel difetto nella norma dell’art. 50 cod. proc. civ. di previsioni compatibili con il processo penale, il sistema debba essere ricostruito nel senso che, scaduto il termine, competerà allo stesso giudice penale – che continua ad essere il dominus del bene in sequestro finanche nel periodo di eventuale pendenza del giudizio civile, secondo l’orientamento delle sentenze COGNOME, COGNOME, COGNOME, COGNOME, COGNOME sopra citate, e cui compete, per effetto dell’art. 263, comma 3, cod. proc. pen. un dovere di “protezione” degli interessi civilistici (Sez. 1, n. 23333 del 16/04/2014, COGNOME, rv. 259917) – fissare udienza davanti a sé ex art. 127 cod. proc. pen. per verificare, sollecitando sul punto gli interessati o esercitando i poteri d accertamento d’ufficio, se le parti hanno incardinato il giudizio davanti al giudice civile o se, invece, sono rimaste inerti, ed assumere le decisioni consequenziali.
Ricostruito in questo modo il sistema, occorre concludere, per tornare al caso in esame, che il conflitto è, in realtà, insussistente.
Nella ordinanza ex art. 263, comma 3, cod. proc. pen. il g.i.p. del Tribunale di Napoli Nord, infatti, non ha seguito lo schema della rimessione della soluzione della questione al giudice civile entro un termine entro cui incardinare la controversia, ma si è limitato a spogliarsi del potere decisionale.
A sua volta, il giudice civile non ha negato di essere competente a decidere per effetto della ordinanza ex art. 263, comma 3, citata, ma si è limitato a sostenere di non potere affrontare la controversia finché le parti non assumono le necessarie iniziative processuali.
Ne consegue che non esiste un conflitto sulla competenza, posto che il giudice civile non ha posto in discussione l’attribuzione del potere di risolvere la controversia, né si verifica una situazione di stallo processuale, poiché la mancata instaurazione della controversia dinanzi al giudice civile determina una situazione risolvibile dal giudice penale mediante l’applicazione dello schema procedimentale disegnato nei paragrafi precedenti di questa sentenza.
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Il conflitto negativo dedotto deve essere, pertanto, risolto, dichiarando la insussistenza del conflitto, e disponendo la restituzione degli atti al g.i.p. d Tribunale di Napoli Nord per quanto di competenza.
L’estratto della sentenza è immediatamente comunicato ai giudici in conflitto e al pubblico ministero presso i medesimi giudici ed è notificato alle parti private.
P.Q.M.
Dichiara insussistente il conflitto e dispone la restituzione degli atti al g.i. del Tribunale di Napoli Nord per quanto di competenza.
Così deciso il 16 luglio 2024.