Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 47619 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 47619 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 17/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a Brescia il 14 maggio 1982;
avverso la sentenza n. 2451/2’23 della Corte di appello di Brescia del 26 otto 2023;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso;
sentito, altresì, per il ricorrente l’avv. NOME COGNOME del foro di Brescia, che insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Brescia, con sentenza del 26 ottobre 2023, ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima città del 3 marzo 2023 con la quale COGNOME era stato dichiarato responsabile del reato di cui all’art. 2 del dlgs n. 74 del 2000 per avere egli, nella qualità di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE indicato, al fine di evadere le imposte, nella dichiarazione dei redditi presentata quanto all’anno fiscale 2014 poste passive documentate con fatture relative a operazioni inesistenti ed era stato, pertanto, condannato alla pena ritenuta di giustizia, la cui esecuzione era stata, peraltro, sottoposta a sospensione condizionale; con la medesima sentenza il Tribunale cidneo aveva anche disposto a carico del COGNOME la confisca del profitto del reato, quantificato nella misura di euri 115.610,00, somma costituita dall’intero importo dell’Iva indicata nella fatture relative ad operazioni inesistenti.
Il Tribunale aveva, peraltro, assolto il prevenuto da una seconda, connessa, imputazione a lui contestata, avente ad oggetto la violazione dell’art. 8 dello stesso dlgs n. 74 del 2000, essendo emersa la insussistenza del fatto a lui contestato, relativo alla ipotizzata emissione, nella citata qualità, al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte, di fatture relative ad operazioni inesistenti intestate ad una società di diritto sloveno denominata RAGIONE_SOCIALE
Avendo, come detto, la Corte territoriale confermato la sentenza di fronte ad essa impugnata, avverso la decisione in tale modo assunta ha interposto ricorso per cassazione, tramite la propria difesa fiduciaria, diversa da quella che aveva patrocinato gli interessi del ricorrente in sede di merito, il COGNOME, articolando 3 motivi di censura.
Con il primo motivo di ricorso la sentenza della Corte bresciana è stata censurata sotto il profilo del vizio di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato.
Con il secondo motivo di ricorso ci si duole sia della entità della pena inflitta, in relazione alla quale non è stata ritenuta la riconoscibilità delle attenuanti generiche, sia della mancata attribuzione del beneficio della non menzione della sentenza di condanna, la cui esclusione è legata ad elementi di fatto non rispondenti al vero tanto che in relazione ad essi il ricorrente è stato mandato assolto già con la sentenza di primo grado.
Infine, il terzo motivo attiene alla entità della somma oggetto di confisca, il quale sarebbe esuberante rispetto all’ammontare del profitto eventualmente conseguito con il reato in relazione al quale è stata affermata la responsabilità penale del COGNOME.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, solo parzialmente fondato, deve essere, pertanto, accolto solo per quanto di ragione.
Chiaramente inammissibile, in quanto non adeguatamente rapportato ai motivi su cui è fondata la sentenza censurata, è il primo motivo di impugnazione.
Con esso, in sintesi, il ricorrente, a fronte del dato incontestato nella sua veridicità storica – considerato altamente sintomatico della fittizietà delle operazioni documentate dalle fatture passive inserite dal ricorrente nelle proprie dichiarazioni fiscali – secondo il quale gli importi in esse indicati a debito della RAGIONE_SOCIALE mai erano stati da questa corrisposti alla impresa emittente, si è limitato ad opporre la considerazione – la cui coerenza logica appare quanto meno problematica, non – e – s – §Rrispondendo ad alcuna massima di esperienza, è che avrebbe richiesto, pertanto, ben altro sforzo argomentativo onde giustificarne la plausibilità in concreto – che “la circostanza che il pagamento (scilicet: delle somme portate dalle fatture in questione, ndr) non sia stato successivamente effettuato può essere causato da innumerevoli fattori: non è certo su tale sola indicazione che può fondarsi una esauriente motivazione in tema di mancanza di buona fede da parte del COGNOME sulla inesistenza soggettiva delle fatture”.
Si tratta di argomento doppiamente inammissibile in sede di legittimità: sia perché con esso si censura una valutazione operata in sede di merito ed assunta, in modo di certo non manifestamente irragionevole, dai giudici del fatto a fondamento della motivazione della loro decisione; sia perché la doglianza articolata dalla ricorrente difesa si limita, in termini di disarmante aspecificità, ad addurre un argomento genericamente oppositivo rispetto alla deduzione operata dai giudici del merito, senza, in realtà, spiegare le ragioni per le quali una prestazione commerciale dovrebbe essere stata fornita in assenza di qualsivoglia corrispettivo in favore di chi la abbia eseguita e senza che questi abbia mai mosso contestazioni in ordine all’inadempimento di controparte e men che meno promosso azioni legali volte a conseguire
quanto, secondo la ricostruzione del ricorrente, gli sarebbe legittimamente spettato.
Fondati, almeno in parte, sono, invece, i due restanti motivi.
Infatti, se non ha pregio il motivo di ricorso avente ad oggetto la dosimetria della pena irrogata, essendo stata questa contenuta nel minimo edittale e non potendo essere preso in considerazione, in quanto non indicato dal ricorrente, il motivo, da quella trascurato, che avrebbe dovuto essere valutato dalla Corte territoriale ai fini dell’attribuzione delle attenuanti generiche, si osserva, quanto alla mancata concessione del beneficio della non menzione, argomento che, secondo quanto riportato nella ricostruzione dei motivi di gravame, aveva formato oggetto di ricorso in appello, che in occasione della redazione della motivazione della sentenza ora impugnata la Corte cidnea aveva ritenuto di non accogliere sul punto il gravame del COGNOME con la seguente argomentazione: “valutato il bene particolare tutelato dalla normativa in questione, attinente non solo la trasparenza e correttezza fiscale, ma visto anche il collegamento dell’imputato dimostrato nella gestione dei debiti fiscali con società terze, situate all’estero”.
Parrebbe, pertanto, avere utilizzato la Corte di merito, onde rigettare la richiesta di riconoscimento del beneficio in questione, una motivazione ancipite; nessuno, però, dei due corni argomentativi da essa schierati in campo è convincente.
Non la valutazione del “bene particolare tutelato dalla normativa in questione”, cioè la ragion fiscale, posto che un tale argomento, la cui valorizzazione sarebbe, peraltro, di esclusiva competenza del legislatore, dovrebbe postulare, cosa che notoriamente non si verifica, che il beneficio in questione non sia ma conferibile ai soggetti per i quali è stata dichiarata la penale responsabilità in materia di reati fiscali; non la esistenza di un “collegamento dell’imputato dimostrato nella gestione dei debiti fiscali, con società terze situate all’estero”, atteso che gli unici rapporti con società aventi sede all’estero di cui si parla nelle sentenze emesse nel procedimento a carico del COGNOME, cioè i rapporti con la società di diritto sloveno RAGIONE_SOCIALE di cui al n. 2 del capo di imputazione elevato a carico dell’attuale ricorrente, sono risultati leciti, tanto che in relazione ad essi il prevenuto è stato mandato assolto già con la sentenza di primo grado.
La sentenza deve, pertanto, essere annullata con rinvio, trattandosi di valutazione che incide su profili di merito esulanti rispetto alla competenza di
questa Corte di legittimità (in tale senso: Corte di cassazione, Sezione III penale, 23 giugno 2017, n. 31349, rv 270639; Corte di cassazione, Sezione III penale, 15 maggio 2014, n. 20264, rv 259667) in ordine alla sussistenza o meno delle ragioni per il riconoscimento del beneficio della non menzione in favore del ricorrente.
Parimenti fondato è il motivo di impugnazione riguardante l’entità della somma confiscata; premesso, infatti, che siffatta entità va rapportata all’importo del profitto conseguito dal prevenuto attraverso la commissione del reato a lui ascritto, va segnalato il fatto, del quale non risulta che i giudici del merito abbiano tenuto conto, che, se è vero che il COGNOME ha indicato nella sua dichiarazione tributaria quale elemento da cui origina un suo credito Iva, utilizzabile in sede di compensazione con le imposte a suo debito, la somma di euri 116.378,00, di cui euri 115.610,00 derivanti dall’Iva indicata a suo debito in talune fatture relative ad operazioni inesistenti, è tuttavia risultato che tale somma sia stata utilizzata dal Bontempi in sede di indebita compensazione, solo per una parte, pari a circa 42.500,00 euri, mentre la restante parte, pari a circa 73.000,00 euri, non solo non è mai stata utilizzata ma è anche risultato che sia stata espunta da una successiva dichiarazione Iva presentata dal COGNOME, di tal che ad oggi la stessa non è più suscettibile di formare oggetto di compensazione.
Ciò posto, si osserva che gli argomenti utilizzati dalla Corte di appello per escludere la riducibilità della somma da confiscare, in quanto costituente il profitto del reato commesso, paiono più fare riferimento alla consumazione del reato – il quale si perfeziona allorché il soggetto indichi nella dichiarazione fiscale da lui presentata dati passivi di reddito fraudolentemente falsificati in quanto riferiti a fatture o altri documenti riguardanti operazioni inesistenti che non al relativo profitto, il cui ammontare (nel caso in cui, così come verificatosi nella fattispecie, si tratti di compensazione fra imposte dovute e crediti invece inesistenti o non spettanti) deve, invece, ritenersi riconducibile non all’importo fittiziamente dichiarato di crediti inesistenti ma a quello che indebitamente sia stato realmente portato in compensazione con l’importo delle imposte dovute.
Nel senso fatto proprio dalla Corte di merito, d’altra parte, appare che si sia espressa in altra occasione anche questa stessa Corte allorché ha affermato che, anche “il credito non portato in detrazione nell’anno di competenza, e così sottratto alla compensazione, modificando l’obbligazione tributaria fuori dei casi previsti dalla legge, è indicativo di un profitto idoneo a
costituire oggetto di una confisca per equivalente” (Corte di cassazione, Sezione IV penale, 17 ottobre 2023, n. 42195, rv 285226).
Ma anche in questo caso parrebbe che siano stati sovrapposti due piani fra loro non necessariamente coincidenti; quello della integrazione del reato (in quel caso si trattava di violazione degli artt. 2 e 8 del dlgs n. 74 del 2000) – che indubbiamente si è perfezionato con la presentazione della dichiarazione contenente dati mendaci, nella attuale occasione costituiti da importi falsamente indicati a credito – con quella della realizzazione del profitto, il quale presuppone che l’imposta dovuta non sia stata pagata essendo ciò avvenuto o perchè ne è stato direttamente omesso il versamento, ovvero perché il relativo importo è stato compensato, come verificatosi nella fattispecie, con crediti tributari inesistenti.
Ora, se è ben vero che al concetto di profitto nei reati tributari è indifferente il fatto che l’imposta evasa non sia stata, in concreto, pagata oppure che la relativa obbligazione di pagamento sia stata oggetto di estinzione per effetto della compensazione dell’importo della imposta con altra somma portata a credito dal contribuente, è tuttavia necessario, affinché il profitto si realizzi anche in questo secondo caso, che la compensazione si sia effettivamente perfezionata; è, in altre parole, necessario che la obbligazione tributaria si sia, almeno formalmente, estinta per effetto della compensazione dell’importo della stessa con l’importo di un credito (falsamente) vantato dal contribuente.
Ora, se un tale meccanismo non è tale da esaurire – ad esempio perché l’importo del debito tributario effettivamente esistente è inferiore all’importo del credito (inesistente) portato (falsamente) in compensazione – il valore di quest’ultimo, il profitto effettivamente realizzato non sarà costituito dalla integralità di tale importo ma solo da quella parte di esso che è stata utilizzata per compensare l’importo della imposta dovuta ed in tal modo non corrisposta dal contribuente.
E, ove il credito residuo non sia stato ulteriormente utilizzato (e, tanto più ove lo stesso non sia più utilizzabile per operare una ulteriore compensazione in quanto esso non è stato più indicato nella successiva dichiarazione fiscale), l’importo del profitto non sarà rapportato a quello delle somme già in precedenza “portate in compensazione” ma a quello della imposta realmente, ancorché indebitamente, “compensata”.
Va detto che una tale indicazione ermeneutica non si pone in contrasto con la definizione di “imposta evasa” offerta dal legislatore all’art. 1, lettera t) del dlgs n. 74 del 2000, ove si precisa che per essa “si intende la differenza fra l’imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione”, atteso che, quale che sia il significato da attribuire alla predetta espressione, il successivo art. 12-bis del dlgs n. 74 del 2000, laddove precisa che, in caso di condanna o di applicazione di pena per uno dei delitti previsti dal citato decreto legislativo, debba sempre essere disposta la confisca, in ossequio ad una risalente tradizione normativa (si veda, infatti, il testo dell’art. 240 cod. pen. che – a differenza del previgente codice del 1889 il quale prevedeva all’art. 36 oltre, come il codice vigente, alla confisca “delle cose che servirono o furtno destinate a commettere il delitto” anche quella “delle cose che ne sono il prodotto” – risulta essere identicamente declinato) precisa che questa deve colpire “i beni che ne costituiscono il profitto od il prezzo”.
Il diverso tenore lessicale esistente fra le due disposizioni legittima il diverso contenuto sostanziale dei significati ad esse attribuibili.
D’altra parte, un ulteriore elemento testuale induce a ritenere che non vi sia identità contenutistica fra l’espressione normativa “imposta evasa” ed il credito illegittimamente esposto nella dichiarazione; esso è fornito dalla indicazione contenuta nella lettera g) del citato art. 1 del dlgs n. 74 del 2000, ove si legge che le soglie di punibilità riferite alla imposta evasa si intendono estese “all’inesistente credito di imposta esposto in dichiarazione”.
Questa precisazione sarebbe del tutto pleonastica laddove si ritenesse che comunque l’imposta evasa (e, pertanto, il vantaggio che l’evasore ha tratto dalla sua condotta) sia sempre (non essendo tale caratteristica sempre ricorrente solo ai fine della verifica dell’avvento superamento della soglia di punibilità) sovrapponibile all’importo del credito inesistente esposto in dichiarazione.
Ferma restando, pertanto, la commissione del reato all’atto della presentazione della dichiarazione tributaria contenente i dati fondati su documentazione attestante operazioni fittizie e riportanti, perciò, crediti non spettanti o inesistenti, l’ammontare del profitto conseguentemente realizzato, suscettibile, pertanto, di confisca, non è necessariamente costituito dalla differenza fra la somma indicata a titolo di imposta (a credito od a debito) e quella che, invece, si sarebbe dovuta indicare ove si fossero utilizzate le sole le poste passive reali, ma è costituito dalla somma relativa all’ammontare della imposta che in concreto è stata evasa, per lo più attraverso il
meccanismo della indebita compensazione fra poste attive e passive (in tale senso, oltre a Corte di cassazione, Sezione III penale 17 gennaio 2014, n. 1820, rv 257918, si veda, in particolare: Corte di cassazione, Sezione III penale, 13 luglio 2021, n. 26575, n. m., in cui è stata annullata la sentenza con la quale era stata disposta la confisca anche di quella parte di credito Iva, fittizio, non oggetto di indebita compensazione).
Non avendo la Corte di Brescia tenuto conto di tale principio, ma avendo, secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata, confermato la confisca dell’intero importo di euri 115.610,00 già disposto dal Tribunale in esito al giudizio di primo grado, avendo ritenuto essere nella sua integralità questo profitto conseguito attraverso la commissione del reato a lui ascritto senza cioè tenere conto di quanto di tale importo fosse stato effettivamente utilizzato dal COGNOME onde evadere le imposte – anche sul punto la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Brescia.
Nel resto il ricorso del COGNOME va dichiarato, come dianzi rilevato, inammissibile.
PQM
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Brescia, limitatamente alla statuizione relativa alla non menzione ed all’entità della confisca.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 17 settembre 2024
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