Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 24036 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 24036 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 25/06/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato a BENEVENTO il 03/09/1981
COGNOME nato a COGNOME il 17/09/1983
COGNOME NOME nato a COGNOME il 08/07/1989
avverso l’ordinanza del 03/02/2025 del TRIBUNALE di SANTA MARIA CAPUA VETERE
svolta la relazione dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Procuratore generale, in persona del sostituto NOME COGNOME il quale ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, giudicando in sede di rinvio, a seguito di annullamento da parte della Terza Sezione penale di questa Corte di cassazione di precedente provvedimento, ha nuovamente rigettato l’istanza di revoca dell’ordine di demolizione, adottato nella procedura R.E.S.A. n. 10/2016, avente a oggetto un immobile acquistato dai germani COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, odierni ricorrenti, nell’ambito di una procedura esecutiva immobiliare promossa dall’I.NRAGIONE_SOCIALE. contro COGNOME NOME, loro congiunto e soggetto già definitivamente condannato per il reato di abuso edilizio, con riferimento a lavori eseguiti in un immobile in San Felice Cancello (consistititi nell’ampliamento del piano terra e del primo piano del fabbricato, con strutture portanti in c.a. e nella realizzazione di un ulteriore elemento a piano terra nella parte retrostante il citato fabbricato, sempre con pilastri in c.a.).
Ricostruita la vicenda che fa da sfondo all’incidente d’esecuzione in esame, il giudice del merito ha dato atto che i ricorrenti avevano acquistato l’immobile nella procedura esecutiva, avendo chiesto l’annullamento dell’ordine demolitorio sull’assunto che il permesso a costruire n. 82 del 10 maggio 2017 avesse legittimato la situazione illecita posta a fondamento dell’ordine stesso, sanando l’intero abuso, richiesta tuttavia rigettata con il provvedimento oggetto dell’annullamento da parte del giudice di legittimità.
Quanto al tenore di tale decisione, la Suprema Corte, con la sentenza n. 32281 del 05/06/2024, nel disporre il rinvio per nuovo esame della vicenda, ha fissato le coordinate alla stregua delle quali detto riesame andava condotto, rilevando che l’atto di rilascio del permesso in sanatoria, n. 82 del 10.5.2017, sembrava effettivamente emesso nel quadro della disciplina di condono ai sensi della legge n. 236/2003 (cd. terzo condono), innescata con domanda che era stata presentata già dal condannato COGNOME NOME, la reale portata giuridica dell’atto dovendo ricavarsi dalla disciplina di riferimento dello stesso, in uno con i relativi requisiti e domanda. La mancata analisi di tali presupposti ha determinato l’annullamento, avendo il giudice rimettente ritenuto necessaria una nuova verifica di validità dell’atto di condono, come appurato, per escludere la contestata demolizione. Al contempo, quel giudice ha ritenuto correttamente sottolineata nell’atto annullato la necessità che il giudice verifichi la sussistenza di tutti i requisiti legittimanti il condono medesimo: a tal proposito, ha rilevato che, come riferito dagli stessi istanti, il permesso in esame si ricollegava ai manufatti descritti nel capo di imputazione come strutturati in soli pilastri, privi quindi delle tamponature esterne, necessarie per l’ottenimento del condono; che, in ogni caso, andava verificato (attraverso la documentazione prodotta e i relativi allegati tecnici), il rispetto del principio per cui, il concetto di ultimazione dei lavori, rilevante ai fini della condonabilità delle opere edilizie abusive, presuppone, oltre il completamento della copertura, l’esecuzione del
“rustico”, da intendersi come comprensivo della muratura di tamponatura, pur priva di rifiniture; inoltre, sempre alla luce degli atti disponibili siccome allegati, andava anche verificata, con riferimento al “secondo” abuso, oggetto di scia con conseguente demolizione, richiamato dai ricorrenti per sostenere la distinzione tra opera da condonare e opera demolita, la eventuale correlazione temporale, funzionale e/o materiale di tale nuova struttura rispetto a quella oggetto di domanda di condono, alla luce del principio di unitarietà dell’opera da condonare, che non può essere frazionata al fine di rientrare nel rispetto dei requisiti dimensionali, temporali o di legittimazione soggettiva, cosicché il fatto oggetto di condono deve ritenersi unico e non scorporabile in tante frazioni, l’una precedente al 31 marzo 2003, le altre successive, atteso che l’eventuale condono “parziale” riguarderebbe un manufatto non più esistente e inciderebbe sull’unicità del prodotto del reato, la cui natura abusiva e illecita non può essere scissa, né artatamente superata mediante parziali demolizioni, dovendo la sanatoria riguardare l’immobile nella sua interezza, non una sola porzione ormai persa nella (e dalla) novità dell’intero fabbricato. Sotto tale profilo, peraltro, il giudice rimettente ha ricordato che l’art. 35, comma 13, legge n. 47 del 1985 (richiamato dall’art. 32, comma 25, d.l. n. 269 del 2003) espressamente stabiliva che, decorsi centoventi giorni dalla presentazione della domanda di condono e, comunque, dopo il versamento della seconda rata dell’oblazione, l’istante in concessione o autorizzazione in sanatoria poteva completare sotto la propria responsabilità le opere non comprese tra quelle indicate dall’art. 33 come non suscettibili di sanatoria. A tal fine, l’interessato doveva notificare al comune il proprio intendimento, allegando perizia giurata ovvero documentazione avente data certa in ordine allo stato dei lavori abusivi, e poteva iniziare i lavori non prima di trenta giorni dalla data della notificazione. Ma il rispetto della procedura prevista dall’art. 35, comma 13, cit., legittima, secondo il giudice di legittimità, solo gli interventi di completamento funzionale dell’opera per la quale è stata presentata la domanda di sanatoria, così venendo confermato il principio di unitarietà sopra richiamato, per il quale non possono essere effettuati interventi che mutino sostanzialmente l’immobile oggetto del condono, la domanda di sanatoria non potendo costituire lo strumento per legittimare interventi edilizi completamente diversi da quelli condonabili e neppure potendosi alterare la realtà delle cose mediante un sapiente e frazionato uso di interventi demolitori, dovendo sussistere una perfetta coincidenza tra l’opera esistente e ultimata al 31 marzo 2003 (nei termini indicati dall’art. 31, comma 2, legge n. 47 del 1985) e quella effettivamente condonata, coincidenza che non consente di sfruttare il “condono” per sanare edifici totalmente diversi e nei quali la struttura esistente al 31 marzo 2003 abbia perso la sua individualità né tale coincidenza – stante il citato principio di unitarietà che è basilare nella materia edilizia – può essere artatamente ripristinata mediante chirurgiche operazioni, mirate e parziali di frazionamento.
Fatta tale premessa, il giudice dell’esecuzione ha ritenuto che tali, puntuali coordinate ermeneutiche imponessero il rigetto dell’istanza, atteso che la prima verifica, quella cioè inerente allo stato di ultimazione dell’opera fosse negativa, essendo incontestato che il primo abuso consisteva nella realizzazione di pilastri in cemento armato senza tompagnatura, l’immobile non essendo neppure a livello di ‘rustico’, essendo le murature perimetrali necessarie per verificare la volumetria dell’opera e la sua sagoma esterna. Né, a tal fine, rileverebbe, per quel giudice, l’assunto, opposto a difesa, che si trattava in partenza di un porticato, atteso che, in tal caso l’opera non rientrava nel condono del 2003.
Anche la seconda verifica, ispirata al rispetto del principio di unitarietà come sopra richiamato, doveva ritenersi negativa: il secondo abuso non poteva considerarsi autonomo rispetto al primo, nella specie trattandosi di un fabbricato eretto nel terreno retrostante all’evidente scopo di ampliare quello originario, sussistendo, pertanto, la correlazione temporale, funzionale e materiale da valutarsi ai presenti fini, secondo il dictum della Corte di cassazione.
Infine, sotto diverso profilo, il giudice dell’esecuzione ha affermato che il provvedimento demolitorio rispettava il principio di proporzionalità, di matrice sovranazionale, non sussistendo un affidamento legittimo in capo ai fratelli COGNOME i quali avevano acquistato il bene immobile nell’ambito di una procedura esecutiva in danno di un parente, conoscendone il carattere di abusività allo scopo di non far fuoriuscire detto bene dal compendio familiare, nel decreto di trasferimento essendo evidenziata l’assenza del permesso a costruire, da costoro richiesto solo dopo l’attivazione della procedura di demolizione, cosicché essi non potrebbero legittimamente opporre un diritto all’abitazione con valenza preminente rispetto alla pretesa demolitoria statuale.
La difesa dei citati COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME ha proposto ricorsi avverso il provvedimento di rigetto, formulando un motivo unico, con il quale ha dedotto violazione di legge e vizio di mancanza e illogicità della motivazione, anche per travisamento probatorio e del fatto, in relazione alle due verifiche imposte dal giudice rimettente e alla buona fede degli acquirenti.
Quanto al primo punto (completamento dell’opera), ha ritenuto che in maniera lapidaria il giudice dell’esecuzione avrebbe negato che il bene non era completo, atteso che l’assenza della tompagnatura riguardava solo la parte del porticato e del terrazzo, come ricavabile dalla perizia del tecnico dagli stessi incaricato, con evidente travisamento della prova.
Quanto al secondo punto, invece, ha ritenuto che l’immobile demolito non aveva nulla a che vedere con quello oggetto del condono, trattandosi di un vano dotato di
servizi igienici ubicato nel cortile e realizzato in maniera autonoma nel 2016, a distanza di circa un anno rispetto al sopralluogo del marzo 2017, finalizzato a necessità culinarie temporanee nella stagione estiva, ancora una volta agitando un travisamento delle risultanze.
Infine, quanto alla buona fede degli acquirenti, ha rilevato che i predetti conoscevano sì la mancanza del titolo abilitativo, ma anche la richiesta di condono tempestivamente presentata dal padre COGNOME NOME nel 2004, cosicché era concreta la possibilità della sanatoria.
Il Procuratore generale, in persona del sostituto NOME COGNOME ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
I ricorsi sono inammissibili per manifesta infondatezza del motivo.
Il Tribunale, giudice del rinvio, richiamato il percorso valutativo delineato dalla Corte rimettente, ha motivato il rigetto in maniera del tutto coerente alle coordinate ivi tracciate, il thema decidendum essendo circoscritto alla verifica della congruità del ragionamento in forza del quale è stata ritenuta la non ultimazione, neppure a livello di ‘rustico’ dell’opera e la non autonomia di quella demolita rispetto a quella oggetto del condono.
Intanto, il tenore delle censure che attingono il percorso giustificativo seguito dal giudice dell’esecuzione impone di precisare che l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’art. 606, comma 1, lett e) cod. proc. pen., è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi , in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, COGNOME, Rv. 226074 – 01). Trattasi di principio fissato da un diritto vivente attuale [quanto alla nuova formulazione dell’art. 606, comma primo lett. e) cod. proc. pen., dettata dalla l. 20 febbraio 2006 n. 46, cfr. Sez. 6, n. 10951 del 15/03/2006, COGNOME, Rv. 233708 – 01; Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, COGNOME, Rv. 234364 – 01, in cui si è precisato che la novella non ha mutato la natura del sindacato di legittimità, che non può mai risolversi nella rivisitazione dell’iter ricostruttivo del fatto e che, invece, deve limitarsi alla mera constatazione dell’eventuale travisamento della prova, che consiste nell’utilizzazione di una prova inesistente o nell’utilizzazione di un risultato di prova
incontrovertibilmente diverso, nella sua oggettività, da quello effettivo; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, COGNOME, Rv. 238215 – 01].
Pertanto, restano non deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali a imporre diversa conclusione del processo, con inammissibilità di tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, COGNOME, Rv. 280747 – 01).
Inoltre, quanto allo specifico vizio della motivazione per travisamento della prova, un ricorso con cui si lamenti detto vizio non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente o adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece, a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085 – 01; n. 36512 del 16/10/2020, COGNOME, Rv. 280117 – 01).
Resta, in ogni caso, non deducibile la mera illogicità della motivazione (Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, Chen, Rv. 284556 – 01) e il travisamento del fatto . Da ciò deriva che la cognizione della Corte di cassazione è funzionale a verificare la compatibilità della motivazione della decisione con il senso comune e con i limiti di un apprezzamento plausibile, non rientrando tra le sue competenze lo stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione dei fatti, né condividerne la giustificazione (Sez. 1, n. 45331
del 17/02/2023, Rezzuto, Rv. 285504 – 01; Sez. 5, n. 44914 del 06/10/2009, COGNOME, Rv. 245103 – 01), essendo a questo giudice precluse sia la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, che l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, COGNOME, Rv. 265482 – 01; n. 5465 del 04/11/2020, F., Rv. 280601 – 01).
5. Le censure articolate da parte ricorrente non prospettano errores in iudicando o in procedendo , ma costituiscono soltanto una critica al ragionamento esplicativo contenuto nel provvedimento impugnato, tuttavia non rispondenti ai requisiti di cui all’art. 606 lett. e), cod. proc. pen., sia in quanto non preceduti da un effettivo confronto con i motivi della decisione che si è censurata, ma in parte anche perché generici e manifestamente infondati. In questa sede, invero, sono stati riproposti argomenti che il giudice del rinvio ha valutato alla stregua delle coordinate in diritto poste da quello rimettente.
La difesa ha opposto una diversa lettura delle risultanze, valorizzando stralci di una consulenza di parte alla luce della quale sarebbe dimostrato che la mancata tampognatura aveva riguardato solo le parti destinate a porticato e terrazzo, tuttavia omettendo di considerare quanto precisato dal Tribunale in ordine alla natura dell’opera nel suo complesso, essendo in discussione la condonabilità dell’abuso come descritto nella imputazione recepita nel giudicato penale di condanna.
Sotto altro profilo, poi, la difesa ha proposto una diversa valutazione del compendio probatorio, dalla quale ha preteso di ricavare un concetto di autonomia del secondo manufatto abusivo smentita, invero, dalle stesse affermazioni contenute in ricorso, avendo ammesso che il corpo di fabbrica oggetto della demolizione era destinato a svolgervi nella stagione estiva attività ‘culinaria’, con ciò prospettandosi, con disarmante evidenza, la funzionalità dell’oera a servizio del corpo di fabbrica maggiore.
Infine, del tutto congruo è il ragionamento inerente alla c.d. buona fede degli acquirenti: la difesa non ha smentito che costoro conoscevano la condizione di abusività dell’opera (ciò che, invero, sarebbe incoerente con la natura dell’acquisto, in seno a una procedura esecutiva immobiliare e al contenuto del relativo decreto di trasferimento), ma preteso di ricavarla da un’intima convinzione di sanabilità di tale situazione, riconducendola al fatto che i figli erano al corrente della domanda di condono formulata dal padre con riferimento proprio a quell’immobile. Trattasi, a ben vedere, di una ricostruzione che la difesa ha ritenuto maggiormente plausibile o dotata di una migliore capacità esplicativa che, tuttavia, il giudice del merito ha ritenuto infondata, valorizzando la consapevolezza della situazione nella quale versava l’immobile per inferirne, con ragionamento che non palesa alcuna
contraddittorietà, né tantomeno manifesta illogicità, l’assenza del requisito soggettivo di che trattasi.
Alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. n. 186/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
Deciso il 25 giugno 2025.
La Consigliera est. NOME COGNOME
Il Presidente NOME COGNOME