Concordato in Appello: I Limiti del Ricorso in Cassazione
Il concordato in appello, disciplinato dall’articolo 599-bis del codice di procedura penale, rappresenta uno strumento deflattivo che consente alle parti di accordarsi sulla pena in secondo grado, rinunciando a specifici motivi di impugnazione. Tuttavia, quali sono i limiti per contestare tale accordo davanti alla Corte di Cassazione? Un’ordinanza recente ha fornito chiarimenti cruciali, dichiarando inammissibile un ricorso che contestava il mero calcolo della pena concordata.
I Fatti del Caso: Una Pena Contestata
Nel caso di specie, un imputato, condannato per estorsione continuata e cessione di sostanze stupefacenti, aveva raggiunto un accordo con la Procura Generale presso la Corte di Appello. Quest’ultima, in riforma della sentenza di primo grado, aveva rideterminato la pena in tre anni e dieci mesi di reclusione e 900 euro di multa.
Nonostante l’accordo, la difesa ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che la pena fosse stata calcolata erroneamente. Secondo il ricorrente, partendo da una pena base di cinque anni e applicando le attenuanti generiche e la riduzione per la continuazione interna, la sanzione finale corretta avrebbe dovuto essere di tre anni e otto mesi. Si trattava, quindi, di una doglianza focalizzata esclusivamente sul quantum della pena, ritenuto superiore a quello che sarebbe dovuto scaturire da un calcolo ‘corretto’.
La Decisione della Suprema Corte e il Concordato in Appello
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, dichiarandolo inammissibile. La decisione si fonda su un principio consolidato in giurisprudenza riguardo i limiti all’impugnazione delle sentenze emesse a seguito di concordato in appello. La Suprema Corte ha ricordato che tale tipo di sentenza può essere impugnata solo per motivi molto specifici, che non includono una semplice rinegoziazione del calcolo della pena già accettata dalle parti.
I Motivi Ammessi per il Ricorso
Il ricorso è ammissibile solo se si lamentano:
1. Vizi nella formazione della volontà della parte di accedere all’accordo.
2. Problemi relativi al consenso del pubblico ministero.
3. Una pronuncia del giudice difforme rispetto all’accordo raggiunto.
4. L’applicazione di una pena illegale, ovvero una sanzione non prevista dalla legge, al di fuori dei limiti edittali o di specie diversa da quella legale.
Al di fuori di queste ipotesi, il ricorso è precluso.
Le Motivazioni
La Corte ha spiegato che la doglianza del ricorrente non rientrava in nessuna delle categorie ammissibili. L’imputato, infatti, non contestava la legalità della pena, né un vizio del consenso, ma auspicava un risultato sanzionatorio più favorevole basato su un calcolo alternativo. Tuttavia, la pena di tre anni e dieci mesi era esattamente quella oggetto dell’accordo tra le parti, come risultava dagli atti processuali e dalla richiesta depositata in appello, a cui il Procuratore Generale aveva prestato consenso. Di conseguenza, contestare il calcolo a posteriori equivale a rimettere in discussione il merito di un accordo già perfezionato e ratificato dal giudice, un’operazione non consentita in sede di legittimità. Accettare l’accordo significa accettare la pena finale che ne deriva, anche se teoricamente un calcolo diverso avrebbe potuto portare a un esito marginalmente differente.
Le Conclusioni
Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale: il concordato in appello è un patto processuale che, una volta raggiunto, cristallizza la pena. Non è possibile utilizzarlo come una base di partenza per poi tentare di ottenere uno ‘sconto’ ulteriore in Cassazione attraverso la contestazione dei criteri di calcolo. La stabilità degli accordi processuali è un valore che l’ordinamento tutela, limitando le impugnazioni a vizi genetici dell’accordo stesso o a palesi illegalità della sanzione. Per gli operatori del diritto, ciò significa che l’adesione a un concordato deve essere ponderata attentamente, poiché preclude successive contestazioni sul merito della quantificazione della pena.
È possibile impugnare in Cassazione una sentenza di “concordato in appello” per un presunto errore di calcolo della pena?
No, la Corte di Cassazione ha stabilito che non è ammissibile un ricorso basato su vizi attinenti alla determinazione della pena, a meno che la sanzione non sia illegale (cioè non prevista dalla legge o fuori dai limiti edittali). Un semplice disaccordo sul calcolo, se la pena rientra in quella concordata, non costituisce un motivo valido.
Quali sono i motivi validi per ricorrere in Cassazione contro una sentenza emessa ai sensi dell’art. 599-bis c.p.p.?
I motivi ammissibili sono limitati a questioni relative alla formazione della volontà delle parti di accedere al concordato, al consenso del pubblico ministero, a una pronuncia del giudice difforme da quanto concordato, o all’illegalità della pena inflitta.
Cosa succede se il ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
Come previsto dall’art. 616 c.p.p., il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende, che in questo caso è stata fissata in tremila euro.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 32551 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 2 Num. 32551 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 26/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da: COGNOME, nato a CASORIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 17/03/2025 della CORTE APPELLO di ANCONA
visti gli atti, letto il ricorso dell’AVV_NOTAIO; udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
Ricorso trattato de plano.
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RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
NOME, a mezzo del difensore di fiducia, ricorre avverso la sentenza del 17 marzo 2025 della Corte di appello di Ancona che, in riforma della sentenza del Tribunale di Napoli e ai sensi dell’art. 599-bis cod. proc. pen., ha rideterminato in anni tre e mesi dieci di reclusione ed euro 900,00 di multa la pena inflitta all’imputato in ordine ai reati di estorsione continuata (esclusa l’aggravante di cui al comma 2 e la recidiva) e di cessione continuata di sostanze stupefacenti esclusa l’aggravante di cui all’art. 80 d.P.R. n. 309/90.
Con un unico motivo la difesa deduce la violazione dell’art. 599-bis cod. proc. pen., assumendo (pag. 2 del ricorso) che la pena è stata “erroneamente fissata in anni 3 mesi 10 di reclusione, ed invero, la pena base di anni 5 di reclusione doveva essere determinata, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen., e tale pena doveva essere ridotta ad anni 3 e mesi 8 di reclusione per effetto della continuazione interna”.
Tanto premesso, rileva il Collegio che il ricorso è inammissibile poiché non consentito in sede di legittimità.
In tema di concordato in appello è, infatti, ammissibile il ricorso in cassazione avverso la sentenza emessa ex art. 599-bis cod. proc. pen. che deduca motivi relativi alla formazione della volontà della parte di accedere al concordato, al consenso del pubblico ministero sulla richiesta ed al contenuto difforme della pronuncia del giudice, mentre sono inammissibili le doglianze relative a motivi rinunciati, alla mancata valutazione delle condizioni di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. e, altresì, a vizi attinenti alla determinazione della pena che non si siano trasfusi nella illegalità della sanzione inflitta, in quanto non rientrante nei limiti edittali ovvero diversa da quella prevista dalla legge (Sez. 1, n. 944 del 23/10/2019, dep. 2020, M., Rv. 278170 – 01).
Nessuna delle ipotesi consentite ricorre nel caso in esame. Invero, il ricorrente adduce a sostegno della doglianza un risultato in termini sanzionatori più favorevole all’imputato (nella specie una pena finale di anni 3 e mesi 8 di reclusione a fronte di anni 3 e mesi 10 di reclusione) che non corrisponde a quello oggetto del concordato, per come si ricava sia dal calcolo riportato dalla Corte di appello che dall’esame della relativa richiesta depositata in atti per l’udienza del 17 marzo 2025, richiamata nella sentenza impugnata e in relazione alla quale è stato prestato il consenso del P.G.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente fissata in ragione dei profili di inammissibilità
rilevati.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso, il 26 settembre 2025.