Combustione Illecita di Rifiuti: la Cassazione Conferma la Condanna
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, si è pronunciata su un caso di combustione illecita di rifiuti, ribadendo principi fondamentali in materia di reati ambientali. La vicenda riguarda un soggetto condannato per aver bruciato una notevole quantità di cavi elettrici al fine di recuperarne il rame. La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la decisione dei giudici di merito e fornendo chiarimenti sulla differenza tra illecito penale e amministrativo e sui limiti di applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.
I Fatti del Caso
Un soggetto veniva condannato in primo e secondo grado alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione per il reato di concorso in combustione illecita di rifiuti. Nello specifico, l’imputato era stato sorpreso a bruciare circa 60 kg di cavi di rame per estrarre il metallo prezioso dalla guaina di plastica. L’operazione aveva generato una fitta coltre di fumo nero, con un evidente impatto negativo sull’ambiente circostante.
I Motivi del Ricorso in Cassazione
L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due principali motivi:
1. Errata qualificazione giuridica del fatto: Secondo la difesa, la condotta doveva essere riqualificata come mero illecito amministrativo (previsto dall’art. 255 del D.Lgs. 152/2006) e non come il reato penale di combustione illecita (art. 256-bis dello stesso decreto).
2. Mancata applicazione della causa di non punibilità: In subordine, si chiedeva l’applicazione dell’art. 131-bis del codice penale, sostenendo che il fatto fosse di “particolare tenuità” e quindi non meritevole di sanzione penale.
Le Motivazioni della Cassazione sulla Combustione Illecita di Rifiuti
La Suprema Corte ha respinto entrambi i motivi, dichiarando il ricorso inammissibile. I giudici hanno sottolineato che le argomentazioni della difesa non erano critiche di legittimità, ma mere “doglianze in punto di fatto”, ovvero un tentativo di ottenere una nuova e diversa valutazione delle prove, attività preclusa al giudice di Cassazione.
Nel merito, la Corte ha specificato che la sentenza d’appello aveva correttamente motivato la propria decisione. L’attività di recupero del rame, per essere lecita, deve seguire precise modalità, tra le quali non rientra assolutamente l’abbruciamento a terra della guaina. Questa pratica, citando una precedente sentenza (Cass. n. 50309/2023), è intrinsecamente illegale e dannosa. Inoltre, il quantitativo di materiale bruciato (60 kg) e la densa nube di fumo prodotta sono stati considerati elementi sufficienti per configurare il reato e non un semplice illecito amministrativo.
Anche riguardo al secondo motivo, la Corte ha ritenuto incensurabile la valutazione del giudice d’appello. La non punibilità per particolare tenuità del fatto è stata esclusa a causa del “notevole quantitativo di cavi” e dell'”impatto che l’operazione ha avuto sull’ambiente circostante”. Il fatto, quindi, non poteva essere considerato di lieve entità.
Le Conclusioni della Suprema Corte
Con questa ordinanza, la Corte di Cassazione riafferma un principio cruciale: la combustione illecita di rifiuti è una condotta grave che integra un reato penale, specialmente quando ha un impatto ambientale tangibile. Il tentativo di mascherare tale attività come una lecita operazione di recupero di materiali non trova accoglimento se le modalità utilizzate sono pericolose e non conformi alla legge. La decisione sancisce inoltre che la valutazione sulla gravità del fatto, ai fini dell’applicazione dell’art. 131-bis c.p., deve tenere conto non solo della quantità di rifiuti bruciati ma anche delle conseguenze concrete sull’ambiente. Il ricorso è stato quindi dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria di 3.000 euro.
Bruciare cavi per recuperare il rame è un reato?
Sì, secondo la sentenza in esame, l’abbruciamento a terra di cavi per recuperare il rame costituisce il reato di combustione illecita di rifiuti (art. 256-bis, d.lgs. n. 152 del 2006) e non un semplice illecito amministrativo, in quanto è una modalità di smaltimento non consentita e dannosa per l’ambiente.
Quando un reato ambientale può essere considerato di ‘particolare tenuità’ e quindi non punibile?
La sentenza chiarisce che il fatto non può essere considerato di particolare tenuità quando riguarda un notevole quantitativo di materiale (in questo caso 60 kg di cavi) e ha un impatto significativo sull’ambiente, come la produzione di una fitta coltre di fumo nero. La valutazione dipende quindi dalla concretezza del danno e del pericolo arrecato.
Perché la Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile senza entrare nel merito delle prove?
La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile perché i motivi presentati dall’imputato erano ‘doglianze in punto di fatto’. Il compito della Cassazione non è rivalutare le prove o ricostruire i fatti, ma solo verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione della sentenza impugnata, che in questo caso è stata ritenuta corretta e adeguata.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 5954 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 5954 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 20/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a MESSINA il 14/04/1983
avverso la sentenza del 13/05/2024 della CORTE APPELLO di MESSINA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che NOME NOME, condannato per il reato di cui agli artt. 110 cod. pen. e 256-bis, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, articolando due motivi di ricors deduce, nel primo, violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla mancata riqualificazione del fat nell’illecito amministrativo di cui all’art. 255 d.lgs. n. 152 del 2006, e, nel secondo, violazione di l vizio di motivazione con riguardo al diniego della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen
Considerato che il primo motivo espone censure non consentite dalla legge in sede di legittimità poiché costituite da mere doglianze in punto di fatto riproduttive di deduzioni già adeguatamente vagliate e disattese con corretti argomenti giuridici dal giudice di merito non scanditi da specifica critica con il ri nonché volte a prefigurare una rivalutazione e/o alternativa rilettura delle fonti probatorie, posto ch sentenza impugnata espone analiticamente gli elementi sulla base dei quali ritiene fondata la dichiarazione di penale responsabilità per il reato contestato, evidenziando come l’attività di recupero del rame, pe essere lecita, debba rispettare le modalità di asportazione della guaina indicate dal D.M. 5 febbraio 1998, tra cui certamente non rientra l’abbruciamento a terra della stessa (si veda: Cass., Sez. 3, n. 50309 de 30/11/2023, Savoca), e come, nella specie, l’attività abbia riguardato un apprezzabile quantitativo di materiale, del peso di circa 60 kg., la cui combustione ha determinato una fitta coltre di fumo nero;
Osservato che il secondo motivo espone censure non consentite dalla legge in sede di legittimità poiché costituite da mere doglianze in punto di fatto riproduttive di deduzioni già adeguatamente vagliate e disattese con corretti argomenti giuridici dal giudice di merito non scanditi da specifica critica con il ri nonché volte a prefigurare una rivalutazione e/o alternativa rilettura delle fonti probatorie, in quan Corte d’appello rappresenta incensurabilmente come il fatto non possa ritenersi di particolare tenuità, i particolare per il notevole quantitativo di cavi di rame oggetto di combustione e per l’impatto c l’operazione ha avuto sull’ambiente circostante;
Ritenuto, pertanto, che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000 in favore della Cassa delle Ammende, sussistendo profili di colpa nella determinazione delle cause di inammissibilità;
PQ.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2024.