Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 8263 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 8263 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 10/12/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME COGNOME nato a Ferrara il 29/10/1968, avverso la sentenza del 20/11/2023 della Corte di appello di Bologna; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni rassegnate dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità
del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 22 gennaio 2019, il Tribunale di Ferrara condannava NOME COGNOME alla pena di mesi otto di reclusione, in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74/2000, con riferimento alla condotta di omessa dichiarazione relativa all’IRES per l’anno di imposta 2015, applicando le pene accessorie di legge e concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena principale e delle pene accessorie, oltre che il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Con sentenza del 20 novembre 2023, la Corte di appello di Bologna confermava la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna, NOME COGNOME tramite il difensore, ha proposto ricorso per cassazione, sollevando cinque motivi.
2.1 Con il primo motivo, la difesa deduce violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. per manifesta illogicità della motivazione in punto di metodo di calcolo utilizzato per il computo dell’imposta IRES evasa.
In sintesi, la difesa deduce che la Corte di merito, dopo aver assunto di aver utilizzato il metodo R.A.D.A.R. per il computo dell’IRES asseritamente evasa, contraddice la premessa, non applicando, per l’anno di imposta 2015, il metodo menzionato che avrebbe dovuto far giungere ad un risultato diverso, ovverosia inferiore alla soglia di euro 50.000,00 penalmente rilevante.
2.2 Con il secondo motivo, la difesa deduce violazione dell’art 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., per mancanza di motivazione sulle ragioni del mancato utilizzo, per il 2015, del metodo di calcolo RADAR, già utilizzato per il 2014.
Lamenta la difesa che la Corte bolognese non ha motivato le ragioni per le quali ha ritenuto di non applicare il metodo di calcolo R.A.D.A.R., già utilizzato per il 2014, anche per l’anno di imposta 2015, ed il cui utilizzo avrebbe determinato un computo dell’IRES inferiore al limite di 50.000,00 euro.
2.3 Con il terzo motivo, la difesa deduce violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. per manifesta illogicità della motivazione in punto di mancato computo dei costi effettivi non documentati ai fini dell’accertamento del reddito d’impresa e conseguente calcolo dell’imposta ai fini IRES con riferimento alla sua rilevanza penale.
Lamenta la difesa che la Corte di merito, dopo aver calcolato il reddito imponibile, ha detratto come costi i soli importi portati dalle fatture passive deducibili, senza considerare tutti i costi sostenuti dall’azienda risultanti da processo verbale di constatazione, in particolare da 28 assegni bancari per un totale di 260.413,71 euro relativi a costi sostenuti dalla società per forniture a terzi.
2.4 Con il quarto motivo, la difesa deduce violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. per erronea applicazione della normativa fiscale (art. 86 T.U.I.R.) dovuta al mancato calcolo della plusvalenza del valore dell’azienda ceduta ai fini del calcolo della base imponibile.
Lamenta la difesa che, essendo stata considerata tra i ricavi la fattura di euro 155.327,09, relativa alla cessione ad altra società di attrezzature, beni mobili, prodotti finiti e materiale vario, considerata come una vera e propria cessione d’azienda, ai sensi dell’art. 86 T.U.I.R. l’importo da valorizzare tra gli elementi attivi ai fini della determinazione del reddito d’impresa sarebbe stato quello corrispondente alla plusvalenza (o minusvalenza) risultante dalla differenza tra il corrispettivo in parola (valore realizzato con la cessione) ed i costo non ancora ammortizzato dei beni facenti parte dell’azienda ceduta.
2.5 Con il quinto motivo, la difesa deduce violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. per erronea applicazione delle pene accessorie ex art. 12 d.lgs. n. 74/2000, dopo aver concesso la sospensione condizionale della pena.
Lamenta la difesa che la statuizione riguardante l’applicazione delle pene accessorie è nulla, stante l’estensione ex lege della sospensione condizionale della pena principale alle pene accessorie ai sensi dell’art. 166, comma 1, cod. pen., non sussistendo le condizioni ostative di cui all’art. 12, comma 2-bis, d.lgs. n. 74/2000.
E’ pervenuta memoria dell’avv. NOME COGNOME difensore di fiducia del ricorrente, con la quale si insiste nei motivi articolati nel ricorso, in particol nel mancato utilizzo del metodo RADAR per l’anno 2015, con conseguente errato computo della base imponibile e dell’imposta IRES asseritamente evasa, nonché nell’aver ignorato il dato relativo ai costi ulteriori, rispetto alle fatture pas deducibili, ricavabili dalle 28 copie degli assegni bancari risultanti nel processo verbale di constatazione.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I primi due motivi, congiuntamente esaminati perché connessi, sono fondati.
Premette la Corte territoriale che, non avendo il ricorrente esibito alcun libro, registro o scrittura contabile, la ricostruzione della base imponibile ai fi fiscali era stata effettuata utilizzando informazioni ricavate dalla banca dati dell’Agenzia delle Entrate denominata R.A.D.A.R., precisando che, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, era stata considerata la redditività media riferita all’attività economica prevalente svolta dalla RAGIONE_SOCIALE, pari al 43,51%. Prosegue, poi, la Corte di merito, affermando l’erroneità della tesi difensiva che assume che il calcolo dell’imposta sarebbe stato effettuato sui ricavi e non sui redditi, precisando che, ai fini della determinazione dei costi, erano state considerate le fatture passive elencate nel processo verbale di constatazione, pari ad euro 47.810,71, mentre, ai fini della determinazione dei ricavi non dichiarati, erano state utilizzate le fatture attive esibite dalla parte, pari ad e 256.595,69, pervenendo alla base imponibile di euro 208.784,98. Su quest’ultimo importo l’applicazione dell’aliquota del 27,5% consentiva di determinare un’imposta evasa pari ad euro 77.215,87, con superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000.
Tanto premesso, il ragionamento dei giudici di secondo grado presta il fianco alle critiche mosse dal ricorrente circa il metodo seguìto per determinare la base imponibile e, quindi, l’importo sottratto a tassazione ai fini della verifica d superamento o meno della soglia di punibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 74 del 2000. Infatti, è all’evidenza contraddittorio affermare che la ricostruzione del reddito d’impresa è stata eseguita utilizzando le informazioni ricavate dalla banca dati in uso all’Agenzia delle Entrate e la redditività media prevista nel territorio d operatività per l’attività economica prevalente svolta dalla società, per poi calcolare concretamente il reddito d’impresa e l’imposta dovuta attraverso le fatture attive e passive, come esibite dalla parte ed elencate nel processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza. Ed è altresì erroneo e manifestamente illogico l’ulteriore sviluppo argomentativo della sentenza impugnata costituito dalla determinazione dell’imposta evasa di euro 77.215,87, cui si perviene, con evidente errore di calcolo, applicando l’aliquota del 27,5% sulla base imponibile di euro 208.784,98.
Si impone, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna che chiarisca le incongruenze segnalate ai fini della verifica del superamento o meno della soglia di punibilità prevista dal reato contestato.
Il terzo, il quarto e il quinto motivo del ricorso sono inammissibili perché nuovi.
La giurisprudenza di legittimità, infatti, è ferma nel ritenere non esser deducibili con il ricorso per cassazione questioni che non abbiano costituito oggetto di motivi di gravame, dovendosi evitare il rischio che in sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad un punto della decisione che è stato intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello, con conseguente inconfigurabilità di un vizio di motivazione (Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, COGNOME, Rv. 280306; Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, COGNOME, Rv. 270316).
Coerentemente, va ricordato, a questo proposito, che, ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., il ricorso è inammissibile se proposto per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello se si richiedono valutazioni di fatto su cui è necessario il previo vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito (Sez. 6, n. 18889 del 28/02/2017, COGNOME, Rv. 269891; Sez. 6, n. 21877 del 24/05/2011, C., Rv. 250263).
Del resto, se così non fosse, come segnalato da Sez. 5, n. 38597 del 05/06/2024, si darebbe sfogo a censure certamente sempre fondate almeno per carenze motivazionali, non essendo state oggetto di appello. Tanto è stato evidenziato autorevolmente da Sez. U, Sentenza n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794, secondo cui «Il combinato disposto delle due norme (artt. 609, comma 1, e 606, comma 3, cod. proc. pen.) impedisce la proponibilità in cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello, e … costituisce un rimedio contro il rischio concreto di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello: in questo caso, infatti, è facilmente diagnostica bile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della relativa sentenza con riguardo al punto dedotto con il ricorso, proprio perché mai investito della verifica giurisdizionale».
In ogni caso, sul quinto motivo deve essere ricordato il principio, derivante peraltro dalla letterale formulazione della norma, secondo il quale la sospensione condizionale delle pene accessorie, a seguito della modificazione dell’art. 166 cod. pen., introdotta dall’art. 4, legge 7 febbraio 1990 n. 19, è un effetto della sospensione condizionale della pena principale e si realizza automaticamente senza necessità di un provvedimento che faccia esplicito riferimento alle pene accessorie (Sez. 3, n. 27113 del 19/02/2015, COGNOME, Rv. 264019; Sez. 5, n. 2131 del 09/01/1992, COGNOME, Rv. 189560; cfr. sul punto anche Sez. 3, n. 763 del 28/10/2009, COGNOME, Rv. 245898). La concessione del beneficio della sospensione condizionale, tuttavia, non preclude l’applicazione delle sanzioni
(comprese quelle accessorie), ma ne sospende l’esecuzione e solo se sono rispettate le condizioni richieste dagli artt. 163 ss. cod. pen.; diversamente il beneficio può essere revocato e dovranno essere poste in esecuzione le pene (principale ed accessorie) in precedenza sospese.
In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna che tenga conto di quanto sopra indicato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna.
Così deciso il 10/12/2024.