Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 30653 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 30653 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/06/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME nato il DATA_NASCITA a Cerignola; nel procedimento a carico del medesimo; avverso la sentenza del 19/01/2023 della Corte di appello di Bari; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria del AVV_NOTAIO che ha chiesto l’annullamento senza rinvio; udite le conclusioni del difensore dell’imputato, AVV_NOTAIO che ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza di cui in epigrafe, la Corte di appello di Bari confermava la sentenza del 1 ottobre 2020 del tribunale di Foggia con cui COGNOME NOME era stato condannato in ordine al reato di cui all’art. 173 comma 1 lett. a) e b) del Dlgs. 42/04.
Avverso la sentenza suindicata COGNOME NOME, mediante il proprio difensore ha proposto ricorso per cassazione deducendo due motivi di impugnazione.
Con il primo, rappresenta la violazione dell’art. 173 del Dlgs. 42/04 siccome abrogato con L. del 9 marzo 2022 n. 22, oltre a vizi di motivazione atteso che i reperti archeologici in contestazione sarebbero gli stessi oggetto di un processo per ricettazione celebrato a carico del ricorrente e conclusosi nel 1996 con assoluzione del COGNOME e restituzione al medesimo dei reperti stessi. A fronte di ciò la Corte non avrebbe risposto in ordine alla doglianza relativa al tema dell’obbligo di deposito presso la Soprintendenza della dichiarazione di possesso, già nella disponibilità della Soprintendenza dal 1994, e a quella relativa alla individuazione della data di eventuale cessione dei reperti archeologici in sequestro in funzione della individuazione, quale norma di riferimento, di quella contestata.
Con il secondo motivo deduce che la Corte non avrebbe risposto al rilievo difensivo per cui, in assenza del procedimento amministrativo di cui agli artt. 13, 14, 15, 16 del Dlgs. 42/04, i beni contestati avrebbero potuto assumere la qualificazione di beni culturali.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato. La legge del 9 marzo 2022, n. 22 recante “Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale” ha introdotto tr gli altri il reato di cui all’art. 518-novies (Violazioni in materia di alienazion beni culturali) ai sensi del quale:
“E’ punito con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da euro 2.000 a euro 80.000:
chiunque, senza la prescritta autorizzazione, aliena o immette sul mercato beni culturali;
chiunque, essendovi tenuto, non presenta, nel termine di trenta giorni, la denuncia degli atti di trasferimento della proprietà o della detenzione di beni culturali;
l’alienante di un bene culturale soggetto a prelazione che effettua la consegna della cosa in pendenza del termine di sessanta giorni dalla data di ricezione della denuncia di trasferimento”.
Si tratta di disposizione in stretta continuità normativa con l’art. 173 del Dlgs. 42/04, ripercorrendone la medesima struttura e oggetto tutelato, atteso che quest’ultimo disponeva che : “È punito con la reclusione fino ad un anno e la multa da euro 1.549,50 a euro 77,469:
chiunque, senza la prescritta autorizzazione, aliena i beni culturali indicati negli articoli 55 e 56;
GLYPH
L
b) chiunque, essendovi tenuto, non presenta, nel termine indicato all’articolo 59, comma 2, la denuncia degli atti di trasferimento della proprietà o della detenzione di beni culturali;
c) l’alienante di un bene culturale soggetto a diritto di prelazione che effettua la consegna della cosa in pendenza del termine previsto dall’articolo 61, comma 1.” Nel caso in esame la condanna ha riguardato la omessa denunzia di atti di trasferimento nei termini di cui all’art. 59 comma 2 del Dgs. 42/04 e la omessa denuncia di alienazione di detti beni.
Deve quindi preliminarmente escludersi la dedotta non punibilità sopravvenuta del ricorrente in ordine ai fatti ascrittigli e di cui in sentenza.
In proposito, occorre ricordare, per completezza, che la riforma in oggetto si è limitata a riprodurre nel codice penale, in ossequio al principio della riserva di codice, con coevo inasprimento delle previsioni edittali, i delitti del patrimonio culturale già ospitati in seno al codice di settore – ove ora restano allocate le sole contravvenzioni – contestualmente abrogati all’art. 5, comma 2, lettera b), dalla stessa legge n. 22 del 2022. Limitatamente alle nuove sanzioni abbinate a questo gruppo di reati – ora codificati – vale perciò il principio di irretroatti della pena di cui agli artt. 25, secondo comma, Cost., 7 CEDU e 1 cod. pen., per il resto versandosi per lo più in ipotesi di abrogatio sine abolitione con conseguente continuità normativa del tipo di illecito, già punito secondo la legge previgente e che conserva rilevanza penale anche sotto la nuova disciplina codicistica (cfr. Sez. 3 – n. 36265 del 15/06/2023 Rv. 284907 – 01).
Quanto alle restanti censure del primo motivo, la prima si fonda su una mera asserzione, priva di ogni necessaria allegazione, quale il già avvenuto deposito della dichiarazione di possesso da parte del ricorrente. La seconda non supera la corretta rilevazione per cui, a fronte di un obbligo persistente di denunzia di possesso e di denunzia di alienazione, trattandosi di omissioni permanenti (cfr. da ultimo Sez. 3, n. 30062 del 16/05/2018 non massimata), la data di consumazione del reato è riconducibile alla data dell’accesso negativo degli operanti.
Anche il secondo motivo è inammissibile, atteso il principio – valevole anche per la fattispecie in esame riguardante beni del privato -, per cui quando si tratti di beni quali i beni archeologici, non si richiede l’accertamento de cosiddetto interesse culturale nè che i medesimi siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo, essendo sufficiente che la “culturalità” sia desumibile dalle caratteristiche del bene. (Fattispecie relativa all’illecit impossessamento di due unguentari, riconosciuti di interesse archeologico) (cfr., seppur con riferimento al caso, comunque analogo a quello in esame, relativo all’art. 176 del Dlgs. 42/04, Sez. 3, n. 41070 del 07/07/2011
Ud. (dep. 11/11/2011 ) Rv. 251295 – 01). Per meglio illustrare le ragioni di tale impostazione occorre evidenziare come la legge n. 22 del 2022 abbia introdotto nel codice sostanziale gli artt. 518-bis e ssgg. od. pen. quale strumento attuativo della Convenzione del RAGIONE_SOCIALE‘Europa sulle infrazioni relative ai beni culturali sottoscritta a Nicosia il 19 maggio 2017 (che ha sostituito la precedente Convenzione di Delfi mai entrata in vigore), avendo il nostro paese, già in seno al RAGIONE_SOCIALE d’Europa, assunto l’impegno ad emanare (e far rispettare, con pene “effettive, proporzionate e dissuasive”) norme che attribuissero una gravità specifica ai reati commessi in danno dei beni culturali ed adottare una normativa “volta a prevenire e combattere il traffico illecito e la distruzione di ben culturali”, nel quadro dell’azione dell’organizzazione per la lotta contro i terrorismo e la criminalità organizzata.
Con la citata Convenzione, con l’art. 2 è stata elaborata una specifica definizione di “beni culturali”, mutuata dalla Convenzione UNESCO del 1970, di cui occorre tener conto nella applicazione delle nuove fattispecie incriminatrici e che comprende, tra l’altro, i “prodotti di scavi archeologici (sia quelli che regolari ch clandestini) o di scoperte archeologiche”, gli “elementi di monumenti artistici o storici o siti archeologici che sono stati smembrati”, !e “antichità che hanno più di cento anni, come le iscrizioni, le monete e le incisioni”.
Il legislatore italiano, da parte sua, nel dare attuazione agli impegni internazionali con l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, non ha tuttavia egualmente proceduto alla formulazione di una definizione altrettanto specifica di “beni culturali” preferendo rimettere all’interprete il compito d “perimetrare” il bene culturale penalisticamente rilevante, quale elemento costitutivo delle incriminazioni in parola.
Di qui, la persistente necessità di far riferimento alla nozione di bene culturale fissata “a fini amministrativi” dall’art. 2 cod. beni cult., da sempre utilizza anche in ambito penale.
Egualmente è rimasta irrisolta la questione della natura “formale” o “sostanziale” della nozione di bene culturale perché non è intervenuta una scelta di sistema tra la tutela penale del (solo) patrimonio culturale dichiarato, circoscritta cioè a beni il cui valore culturale sia stato oggetto di previa dichiarazione, e la tutel penale (anche) del patrimonio culturale “reale”, che si estende ai beni dotati di “intrinseco” valore culturale anche a prescindere dall’intervento di un accertamento e di una dichiarazione ad opera delle autorità competenti.
Al riguardo, allora, deve rilevarsi come la giurisprudenza di legittimità, abbia da sempre adottato un approccio sostanziale (cfr. in proposito Sez. 2, n. 21965 del 2024 non massimata) affermando che non è richiesto, in particolare quando si tratti di beni appartenenti allo Stato – ma si tratta di regola che per il s significato, teso a dare rilievo al peculiare e intrinseco valore di taluni beni d
rilevanza culturale, deve ritenersi valevole anche ai casi in cui essi appartengano ovvero siano nella disponibilità di privati (in tal senso cfr, Sez. 3, n. 30062 de 16/05/2018 non massinnata, sulla rilevanza dell’accertamento probatorio del bene “culturale” al di là di formale dichiarazione di interesse) -, l’accertamento dell’interesse culturale, né che i medesimi presentino un particolare pregio o siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo, reputando sufficiente che la “culturalità” sia desumibile dalle caratteristiche oggettive dei beni (cfr., ex plurimis, Sez. 3, n. 24988 del 16/7/2020, COGNOME, Rv, 27975601; conf. Sez. 3, n. 24344 del 15/5/2014, COGNOME, Rv. 259305-01; SeZ . 2, n. 36111 del 18/7/2014, COGNOME, Rv. 260366-01; Sez. 3, n. 41070 del 7/7/2011, COGNOME e altro, Rv. 251295-01), quali la tipologia, la localizzazione, la rarità o altri analoghi criteri.
Ancor più specifiche e di interesse, per il caso in esame, sono le decisioni con cui questa Suprema Corte ha stabilito che il trasferimento di beni culturali appartenenti a privati non deve essere denunciato soltanto nelle ipotesi in cui sia già intervenuta la dichiarazione di interesse culturale di cui all’art. 13 ma anche qualora detta dichiarazione manchi (Sez. III del 8.6.2005 n. 23400 sez. III 18/10/2012 n. 45841).
Si è in proposito rappresentato, con riferimento alla fattispecie ex art. 173 cit. qui in esame, che il D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 173, lett. b), sanziona quale delitto la condotta di chiunque, essendovi tenuto, non presenta, nel termine indicato dall’art. 59, comma 2, la denuncia degli atti di trasferimento della proprietà o della detenzione di beni culturali e che il cit. decreto, con l’art. comma 2 dispone che sono beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli artt. 10 e 11, presentano interesse artistico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà. Il riferimento alle altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà è da ritenere che costituisca una formula di chiusura, che consente di ravvisare il bene giuridico protetto dalle disposizioni sui beni culturali e ambientali non soltanto nel patrimonio storico-artisticoambientale dichiarato (beni la cui valenza culturale è oggetto di previa dichiarazione), bensì anche in quello reale, cioè di quei beni protetti, ab origine, in virtù del valore intrinseco degli stessi, indipendentemente dal previo riconoscimento di esso da parte delle autorità competenti (Cass. 15/2/2005, n. 21400).
Va rilevato che il D.Lgs. n. 42 del 2004 ha delineato un sistema misto, sia per i beni di appartenenza pubblica, che per quelli di proprietà privata, rivolto ad apprestare una prima forma di tutela al patrimonio culturale reale e, quindi, una protezione successiva alla effettiva utilizzazione del patrimonio culturale
dichiarato. L’obbligo di denuncia, prescritto dall’art. 59 e sanzionato dall’art. 173 del D.Lgs. n. 42/2004, si correla già soltanto alla mera detenzione delle “cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”, mentre, dopo la formale dichiarazione dell’interesse culturale (di cui agli artt. 13 e segg.), altre disposizioni puniscono le violazioni alle modalità di conformazione dell’uso del bene, come specificamente regolamentate dalla P. A.. Solo attraverso un’interpretazione siffatta può ricevere tutela ed attuazione effettiva l’interesse dello Stato alla conoscenza dell’esistenza e della circolazione dei beni culturali (in particolare dei beni mobili).
La pubblica Amministrazione, infatti, deve essere posta in condizione di venire a conoscenza dell’esistenza del bene e la violazione dell’obbligo di denuncia – come già evidenziato da Cass., Sez. 3^, 17.6.1997, n. 993, P.G. in proc. Leonelli – si configura quale reato di pericolo volto a tutelare non solo la preservazione del patrimonio archeologico, storico ed artistico, ma anche l’interesse alla individuazione delle cose appartenenti a detto patrimonio. Nè la possibilità, per lo Stato, di conoscere che il bene esiste può seriamente riconnettersi al mero esercizio del potere ispettivo da parte delle Soprintendenze.
Le previsioni sanzionatorie dell’art. 173 si correlano a quelle dell’art. 59 ed il comma dell’art. 59 – che disciplina il contenuto “necessario” della denuncia – non reca alcun riferimento alla dichiarazione prevista dall’art. 13: da ciò si ricava un’ulteriore conferma che il trasferimento di “beni culturali” appartenenti a privati non deve essere denunziato soltanto nelle ipotesi in cui sia già intervenuta la dichiarazione di interesse culturale di cui all’art. 13.
Quanto poi alla dizione finale di cui all’art. 2 citato, relativa alla individuazi concreta delle “cose” che costituiscono “testimonianze aventi valore di civiltà”, che, se non operata direttamente dalla legge, deve essere “dedotta in base alla legge”, si è altresì osservato da questa Suprema Corte che “civiltà”, secondo l’interpretazione comune, è il complesso degli aspetti culturali, spontanei ed organizzati, relativi ad una collettività in una determinata epoca. L’attitudine a “testimoniare” aspetti siffatti è agevolmente desumibile dalle caratteristiche della “res”, dal suo valore comunicativo spirituale, dai requisiti peculiari attinenti al tipologia, alla localizzazione, alla rarità, etc. (vedi Cass., Sez, 3^, 24.12.2001, n. 45814, COGNOME) ed il trasferimento di tutte le cose per le quali sia riscontrabi tale attitudine deve ritenersi assoggettato all’obbligo di denunzia. Non deve comunque dimenticarsi, in proposito, che il reato di cui all’art. 173, quale delitto, richiede la sussistenza del dolo e questo deve investire, oltre la condotta omissiva, anche la percettibilità della nota di valore della cosa, che nel caso di specie, al di là della non avvenuta rappresentazione come motivo di impugnazione, non appare esclusa dalla vicenda complessiva che ha visto
,(
l’interesse costante della pubblica autorità per i beni di rilievo archeologico in questione.
La verifica dell’effettiva sussistenza dell’interesse artistico, storico, archeologic o etnoantropologico della cosa denunziata non riguarda, è bene sottolinearlo, il momento prodromico della denunzia di trasferimento: essa è demandata, infatti, dalla legge ad un momento successivo e dovrà essere effettuata dalla P.A. sulla base di indirizzi di carattere generale uniformi. Si è infatti osservato che la prova di tale ultimo dato può desumersi o dalla testimonianza di organi della P.A. o da una perizia disposta dall’autorità giudiziaria (cfr., ancora, Sez. 3, n. 35226 del 28/6/2007, COGNOME, Rv. 237403-01).
Si tratta di impostazione che la giurisprudenza di legittimità ha, per quanto sinora osservato, più volte condiviso e che qui è opportuno ribadire, nonostante l’orientamento dottrinario contrario a detta interpretazione normativa, secondo il quale il bene giuridico protetto dall’art. 173, citato decreto, non riconnprenderebbe anche l’interesse dello Stato ad individuare cose di interesse culturale non ancora note, considerando che il termine “bene culturale”, a cui si riferisce l’obbligo di denuncia deve ritenersi quello inteso in senso proprio, e che i beni delle persone fisiche private, presi in considerazioni ai fini della tutel sarebbero solo quelli oggetto di una precedente dichiarazione di “culturalità”, notificata ai sensi dell’art. 13 del codice Urbani.
Da esso si dissente in giurisprudenza anche per le seguenti ulteriori osservazioni: con la notifica dell’atto di dichiarazione, prevista dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 15, si comunica al privato il provvedimento di vincolo culturale a cui è sottoposta la res dallo stesso detenuta, ma tale notifica non ha natura di atto perfezionativo del vincolo stesso, perché il provvedimento impositivo è da ritenersi già perfetto, indipendentemente dalla sua comunicazione; la detta notifica ha, quindi, natura dichiarativa perché preordinata esclusivamente a creare nel proprietario o possessore o detentore della cosa, la conoscenza degli obblighi sullo stesso incombenti (Cons. Stato 12/12/1992, n. 1055; Cons. Stato 7/10/1987, n. 802). Da ciò deriva che la tutela del bene e la applicazione della relativa normativa di riferimento, di cui al D.P.R. n. 42 del 2004 e alla correlata attuale disciplina codicistica, va esercitata indipendentemente dal provvedimento di dichiarazione di importanza culturale, in dipendenza della genetica natura del bene, tale da sottoporlo alla tutela ex lege prevista.
Analogamente si è sostenuto, con riguardo alla fattispecie di illecita esportazione di cose di interesse artistico (art. 174 cod. beni cult., ora rifluito nell’art. undecies cod. pen.), che è stata applicata non solo al patrimonio culturale “dichiarato”, ma anche a quello “reale”, reputando sufficiente che il bene stesso presenti un oggettivo interesse culturale (cfr., Sez. 3, n. 10468 del 17/10/2017, Lo Giudice, Rv. 272623-01).
t
Alla luce del citato indirizzo “sostanzialistico” questa Corte ( Sez. 3, n. 21400 del 15/2/2005, Rv. 231638-01, cit. conf. Sez. 3, n. 45841 del 18/10/2012, COGNOME, Rv. 253998-01 ), ha anche dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 173 citato con riferimento agli art 25, comma secondo, e 27, comma primo, Cost. Si tratta di eccezione manifestamente infondata, in quanto, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale;
la legge, nel delineare i fatti che costituiscono reato, può ricorrere a locuzioni di uso comune o a termini il cui significato può essere ricavato da nozioni non giuridiche, purché sia comprensibile e sufficientemente determinata la condotta punita con sanzioni penali (sentenze n. 312/1996 e n. 414/1995);
“il principio di tassatività della fattispecie penale … deve considerarsi rispetta anche se il legislatore, nel descrivere il fatto-reato, usi non già termini d significato rigorosamente determinato ma anche espressioni meramente indicative o di rinvio alla pratica diffusa nella collettività in cui l’interprete o spettando a quest’ultimo di determinarne il significato attraverso il procedimento ermeneutico di cui all’art. 12, comma 1, delle Preleggi” (ordinanza n. 169/1983). La “determinatezze: (in funzione di garanzia della libertà o in funzione di tutela dell’uguaglianza) è un modo di essere delle norme (e dei loro elementi) come risultano non soltanto dagli enunciati legislativi, ma anche dall’interpretazione dei medesimi e dal loro precisarsi attraverso l’applicazione.
Deve essere pertanto di guida, nella relativa indagine, il criterio, reiteratamente affermato dalla Corte Costituzionale, secondo il quale la verifica del rispetto del principio di determinatezza va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisc L’inclusione, nella formula descrittiva dell’illecito penale, di espression sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di concetti “elastici”, non comporta un vulnus del parametro costituzionale in esame, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato del singolo elemento, mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, da un fondamento ermeneutico controllabile, e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5 del 2004; n. 34 del 1995; n. 31 del 1995; n. 122 del 1993; n. 247 del 1989). Alla stregua delle considerazioni dianzi svolte relativamente all’interpretazione del disposto legislativo censurato,
(
la nozione di “beni culturali”, richiamata dall’art. 173 del D.Lgs. n, 42/2004 e ricostruita alla stregua delle previsioni del precedente art. 2, con particolare riguardo al riferimento a “le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà”, viene ad assumere, tenuto conto delle norme specifiche di settore e dell’evoluzione storico-scientifica della configurazione dell’interesse culturale, un’accezione peculiare, che la rende precisa e per nulla indeterminata.
Per completezza, quanto ai riferimenti costituzionali della disciplina in parola, va anche osservato che il riferimento della omessa denunzia di detenzione e di alienazione, da parte di chi via sia tenuto nel quadro dell’art. 59 comma 2 del Dlgs. 42/04, rimanda alla tutela dei beni culturali nel quadro della necessaria conformazione del diritto di proprietà alla luce della peculiarità della natura dei predetti beni; con attuazione quindi, da una parte, oltre che dell’art. 9 anche dell’art. 42 comma 2 della Costituzione, quanto alla necessaria funzionalizzazione sociale della proprietà (“la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”) e, dall’altra, dell’art. 3 Cost., nel senso della insussistenza – a fronte di situazioni diverse e in particolare di beni ontologicamente diversi quanto all’interesse che li accompagna, con particolare riferimento alla stringente peculiarità di quelli culturali – di qualsivoglia disparità di trattamento. Viene in rilievo, secondo i dibattito dottrinale e giurisprudenziale (cfr. Cass. Civ. Sez. I 7.4.1992 n. 4260) in materia, anche l’art. 33 comma 1 Cost., nel senso che le norme di riferimento della fattispecie penale in esame integrano un sistema di controlli e strumenti pubblici per la conservazione, integrità e sicurezza dei beni culturali, funzionali alla necessaria agevolazione della libera fruizione dell’arte, pur senza necessariamente avocarne la proprietà nella mano pubblica. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
E’ questa la complessiva cornice giuridica in cui deve ritenersi innestata la sentenza impugnata, per cui la natura dei beni di cui si discute è stata correttamente valorizzata attraverso l’attestazione fornita dal AVV_NOTAIO quanto alla natura di beni di interesse archeologico. Pertanto più che adeguata è la motivazione fornita sul punto.,
Sulla base delle considerazioni che precedono, la Corte ritiene pertanto che il ricorso debba essere rigettato, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento.
t
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 05/6/2024.