Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 15145 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 15145 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 06/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nata in ROMANIA il 31/05/1990; avverso la sentenza del 21/10/2024 della Corte d’appello di Roma; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore, Generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio limitatamente alla richiesta di pena sostitutiva e la declaratoria di inammissibilità nel resto.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’Appello di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Civitavecchia che ha condannato, a seguito di giudizio abbreviato, NOME per il reato di bancarotta documentale semplice, quale amministratrice dal 18/6/2014 alla data del fallimento (19/10/2017) della “RAGIONE_SOCIALE“. La Corte territoriale ha ritenuto la NOME, consapevole del suo ruolo di amministratrice, responsabile della mancata tenuta della contabilità. La Corte d’appello ha, infine, rigettato la richiesta di sostituzione della pena detentiva con lavori di pubblica utilità, ritenendo la prima l’unico strumento idoneo a prevenire
la reiterazione del reato e ad un’efficace rieducazione.
Avverso il detto provvedimento ha proposto ricorso per. Cassazione l’imputata, lamentando vizi di motivazione.
2.1. Col primo motivo, la difesa afferma che la COGNOME ignorava di esser divenuta amministratrice della fallita, pensando solo di esserne diventata socia, carica peraltro assunta a fronte della falsa promessa di lavoro da parte di NOME NOME. Ad ogni modo, le scritture contabili non le erano mai state consegnate e la medesima era all’oscuro dell’attività societaria ed era stata l’unica, fra gli imputati, a non aver operato mai sui conti societari.
La Corte d’appello aveva ritenuto erroneamente che la COGNOME avesse assunto consapevolmente la carica di amministratrice, senza tener conto che dall’istruttoria di primo grado era emerso che ella fosse stata raggirata dal COGNOME, avendo la Guardia di Finanza acclarato l’estraneità dell’imputata alla gestione della società e la natura fittizia dell’acquisizione delle quote da parte sua.
In ogni caso, la colpa, rinvenuta nella sentenza d’appello “nella negligenza/leggerezza” con la quale l’imputata aveva “accettato la carica di amministratrice da parte del Signor COGNOME“, avrebbe dovuto, più fondatamente, esser correlata alla mancata, irregolare o incompleta tenuta dei libri e delle scritture contabili, così come indicato nella norma penale. Colpa, per giunta, da escludere in ragione della scarsa conoscenza, da parte sua, della lingua italiana, oltre che della legge del nostro Stato, ignorando la normativa civilistica sull’obbligo di tenuta delle scritture, errore da ritenersi scusabile.
Parte ricorrente evidenzia il contrasto tra la presente pronuncia e quella dibattimentale, che era pervenuta all’assoluzione dei precedenti amministratori della fallita, essendosi in tale sede individuati in COGNOME NOME e COGNOME NOME i real amministratori della stessa e, dunque, gli unici responsabili dei reati contestati. In particolare, la sentenza assolutoria dei coimputati aveva aderito all’orientamento giurisprudenziale secondo cui il prestanome che sia amministratore di diritto risponde di bancarotta fraudolenta documentale solo se vi sia la dimostrazione dell’effettiva consapevolezza dello stato delle scritture, prova nella specie non fornita.
2.2. Col secondo motivo, parte ricorrente lamenta il rigetto della richiesta di sostituzione della pena detentiva con i lavori di pubblica utilità, richiesta respinta in base a supposizioni prive di sostegno fattuale, solo in ragione dell’incapacità dimostrata dall’imputata di rispettare le leggi, desunta da un unico precedente penale per il reato di cui all’art. 73, comma 1-bis, d.P.R. 309/1990, senza considerare, ex art. 133 cod. pen., la complessiva gravità del reato: rendendo, in
tal modo, una motivazione non congrua, rispetto ai «fondati motivi» ora necessari per il rigetto di siffatta istanza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo è infondato.
1.1. La motivazione della sentenza d’appello sull’affermazione di responsabilità dell’imputata è logica, non contraddittoria e completa.
In particolare, in essa si rileva che:
era stata proprio la COGNOME a dire alla Guardia di Finanza che il COGNOME le avesse offerto “il posto di amministratore”, e non di mera socia, specificando che tanto era accaduto poiché la società si sarebbe trasferita in Romania;
NOME NOME, precedente amministratore, aveva confermato il passaggio di consegne nei riguardi della Dunca;
era irrilevante che si trattasse di una persona in difficoltà, con precedenti penali in materia di traffico di stupefacenti;
non era stata palesata dall’imputata alcuna difficoltà linguistica, per giunta da escludere considerando la sua presenza in Italia almeno dal 2010, anno di commissione di un pregresso reato;
la mancanza di prova del passaggio della contabilità tra il precedente amministratore e la COGNOME era del tutto irrilevante, essendo il primo un prestanome, così come lo erano stati i precedenti amministratori, ciò che non toglieva, però, la responsabilità della ricorrente, se non per il reato di bancarotta fraudolenta documentale – mancando la dimostrazione della consapevolezza dello stato delle scritture e che esso foss tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari -, per l’inadempimento all’obbligo, gravante sull’amministratore, di ricostruire la contabilità societaria e, dunque, per bancarotta documentale semplice;
nessuna contraddizione v’era tra la conferma della condanna dell’imputata e la sentenza di assoluzione degli altri tre amministratori formali (di cui non era provata l’irrevocabilità), in quanto sia costoro che la COGNOME erano stati assolti dalla bancarotta patrimoniale fraudolenta e dalla bancarotta documentale fraudolenta, essendo la COGNOME stata ritenuta responsabile solo di bancarotta documentale semplice, in quanto, quale amministratrice in carica al momento del fallimento, era a lei ascrivibile (e non certo alle precedenti teste di legno) la mancata tenuta della contabilità.
Dunque, la Corte d’appello con motivazione adeguata e conforme ai principi di diritto oltre richiamati, ha chiarito per quale ragione non fosse credibile che
l’imputata non sapesse di essere amministratrice della società fallita, avendo la stessa ammesso di avere acquisito tale carica (come confermato dal pregresso amministratore formale), conoscesse perfettamente la lingua italiana, fosse estranea ai reati di bancarotta fraudolenta, così come gli altri amministratori di diritto che l’avevano preceduta, e fosse, tuttavia, obbligata alla redazione e corretta tenuta delle scritture contabili, quale amministratrice della società al momento in cui ne era stato dichiarato il fallimento.
Come appena detto, tale interpretazione è conforme al consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, secondo cui il reato di bancarotta semplice documentale è punibile anche solo per colpa, non richiedendo, l’art. 217, comma 2, r.d. 267/1942, la deliberata volontà di violare le disposizioni vigenti in materia o arrecare pregiudizio ai creditori (Sez. 5, n. 53210 del 19/10/2018, Rv. 27513302; Sez.5, n.38598 del 09/07/2009, Rv. 244823-01; Sez. 5, n. 27515 del 04/02/2004, Rv. 228701-01). Infatti, consuma il reato di bancarotta documentale semplice l’amministratore che, ancorché estraneo alla gestione dell’azienda esclusivamente riconducibile all’amministratore di fatto – abbia omesso, anche per colpa, di esercitare il controllo sulla regolare tenuta dei libri e delle scrittu contabili, poiché l’accettazione della carica di amministratore, anche quando si tratti di mero prestanome, comporta l’assunzione dei doveri di vigilanza e di controllo di cui all’art. 2392 cod. civ. (Sez. 5, n. 4791 del 29/10/2015, Rv. 26580201; Sez. 5, n. 31885 del 23/06/2009, Rv. 244497-01; Sez.5, n. 48523 del 06/10/2011, Rv. 251709-01).
Del resto, non si vede come avrebbero potuto rispondere, gli altri amministratori formali, di un reato inerente – come reca la disposizione incriminatrice – la contabilità mal tenuta, o non tenuta, «durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento», allorché pacificamente è stata in carica la sola COGNOME
Infine, il Collegio ribadisce il tradizionale orientamento secondo cui le norme di diritto civile, che disciplinano lo “status” di imprenditore commerciale dichiarato fallito e l’obbligo correlativo della tenuta delle scritture e dei libri contabili, s norme integrative dell’art. 217 legge fallimentare, che incrimina la bancarotta semplice per omessa o irregolare tenuta di tali libri e scritture. Pertanto, l’errore sulla qualità di imprenditore commerciale e sull’obbligo della tenuta dei libri non può essere invocato nel giudizio di bancarotta semplice come errore di fatto che possa escludere la punibilità ai sensi dell’art. 47 cod. pen., risolvendosi nella ignoranza della legge penale, come tale inescusabile (Sez. 5, n. 5404 del 07/03/1984, COGNOME, Rv. 164729-01; confronta, negli stessi termini: Sez. 5, n. 437 del 21/10/1981, dep. 1982, COGNOME, Rv. 151638-01, nonché, più
recentemente, Sez. 5, Sentenza n. 29473 del 15/6/2006, la quale, in motivazione, specifica che «si verterebbe in ipotesi di ignoranza della legge civile costituente il
presupposto di quella penale, ignoranza pertanto priva di effetti»).
1.2. Anche il secondo motivo è infondato.
Il giudice d’appello ha spiegato in modo approfondito e assolutamente congruo quali siano, nel caso in esame, i «fondati motivi» per i quali ha ritenuto
di non dover accordare la sanzione sostitutiva.
In particolare, ha evidenziato “la incapacità dimostrata dall’imputata di rispettare le leggi e astenersi dal commettere reati”, tale da far presumere che la
stessa non si sarebbe attenuta alle prescrizioni che le sarebbero state imposte.
Richiamando i criteri di cui all’art. 133 cod. pen., la Corte d’appello ha rilevato non solo la gravità confermata dalla non esigua pena in concreto irrogata, ma
anche la circostanza che l’imputata, pur dopo aver subito un lungo periodo di carcerazione e detenzione domiciliare per una condanna a tre anni per traffico di
sostanze stupefacenti, appena scontata la pena nel marzo 2013, già a giugno 2014
aveva accettato l’incarico in questione, facendo da prestanome per una società poi condotta al fallimento, che aveva provocato danni rilevanti ai creditori: ritenendo,
in definitiva, significativo della sua refrattarietà all’osservanza di leggi prescrizioni, al di là dell’oggettiva gravità del precedente, il breve lasso temporale trascorso dalla fine della pena per il reato precedente alla ripresa di una condotta criminosa, per giunta in un contesto diverso.
Su tali basi, in modo niente affatto carente e men che meno manifestamente illogico, la Corte territoriale ha concluso nel senso di pronunciare uno sfavorevole giudizio sulla capacità di autodisciplina della Dunca, confermando la pena detentiva quale unico strumento di prevenzione del pericolo di reiterazione del reato e di efficace rieducazione.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., alla declaratoria di rigetto segue la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così è deciso, 06/03/2025
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