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Bancarotta riparata: quando è esclusa la punibilità?

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per bancarotta fraudolenta patrimoniale a un amministratore, rigettando la tesi difensiva della cosiddetta “bancarotta riparata”. Secondo la Corte, le operazioni compensative poste in essere prima della dichiarazione di fallimento, come la cessione di un credito e l’accollo di debiti da parte di una società collegata, non erano sufficienti a integrare una reintegrazione piena ed efficace del patrimonio sociale, requisito indispensabile per escludere la punibilità.

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Pubblicato il 13 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Bancarotta riparata: non basta un rientro fittizio

L’istituto della bancarotta riparata rappresenta una causa di non punibilità di grande interesse nel diritto penale fallimentare. Esso consente all’amministratore che ha distratto beni sociali di evitare una condanna, a patto di reintegrare completamente il patrimonio dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento. Tuttavia, una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sent. n. 7818/2025) chiarisce che non tutte le operazioni di rientro sono valide a tal fine. La Corte ha stabilito che mere operazioni contabili o compensazioni tra società dello stesso gruppo, prive di un reale effetto liberatorio e di un ripristino della liquidità, non sono sufficienti a escludere il reato.

I Fatti del Caso: La Distrazione di Beni e la Difesa dell’Amministratore

Il caso ha origine dalla condanna di un amministratore di fatto di una S.r.l. per bancarotta fraudolenta patrimoniale. L’accusa era di aver distratto dal patrimonio della società, poi fallita, una somma di circa 500.000 euro e alcuni beni strumentali. Inizialmente condannato anche per bancarotta documentale, veniva poi assolto da quest’ultima accusa in appello, con una rideterminazione della pena a 2 anni di reclusione.

L’amministratore ha proposto ricorso in Cassazione sostenendo la tesi della bancarotta riparata. A suo dire, il depauperamento del patrimonio sociale era stato integralmente annullato prima della sentenza di fallimento attraverso una serie di operazioni finanziarie. Nello specifico, un’altra società da lui gestita aveva:
1. Ceduto alla società fallita un credito di 250.000 euro verso un Ministero.
2. Accollato debiti della fallita per circa 150.000 euro.

Secondo la difesa, queste manovre avrebbero compensato la distrazione, eliminando ogni pregiudizio per i creditori e, di conseguenza, rendendo la condotta non punibile.

La Decisione della Cassazione e le condizioni della bancarotta riparata

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando la condanna. I giudici hanno ribadito i principi consolidati in materia, sottolineando che il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è un reato di pericolo concreto. Ciò significa che il reato si perfeziona nel momento in cui la condotta distrattiva crea un potenziale danno per i creditori, anche se il danno effettivo non si è ancora verificato.

Perché possa operare la bancarotta riparata, è necessario che questa capacità pregiudizievole della condotta venga integralmente eliminata prima dell’apertura della procedura fallimentare. Questo richiede una reintegrazione del patrimonio piena, effettiva e totale, non solo apparente.

Le Motivazioni: Perché la “Bancarotta Riparata” Non Era Applicabile

La Corte ha spiegato nel dettaglio perché le operazioni descritte dalla difesa non integravano una valida “riparazione”.

In primo luogo, l’onere di provare l’esatta corrispondenza tra i beni distratti e i versamenti reintegrativi spetta all’amministratore. Nel caso di specie, non era stata fornita alcuna prova del rientro di una specifica somma di 50.000 euro, parte dell’importo distratto.

In secondo luogo, e in modo ancora più decisivo, le operazioni di cessione del credito e di accollo dei debiti sono state ritenute inefficaci. L’accollo del debito, in particolare, non aveva avuto un effetto liberatorio per la società fallita. Si trattava di un accollo cumulativo, in cui il nuovo debitore si affianca a quello originario senza liberarlo. Di conseguenza, la società fallita rimaneva comunque obbligata verso i suoi creditori, e il suo patrimonio non risultava definitivamente sollevato dalle passività.

I giudici hanno qualificato queste manovre come un semplice “passaggio di posizioni debitorie da un soggetto economico ad un altro” all’interno dello stesso gruppo, senza garanzie di pagamento e senza apportare quella liquidità necessaria a soddisfare nell’immediato i creditori. La reintegrazione, per essere valida, deve essere reale e non un mero artificio contabile.

Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio fondamentale: la bancarotta riparata non è un salvacondotto per operazioni finanziarie opache. Per escludere la punibilità, l’amministratore deve dimostrare, senza ombra di dubbio, di aver posto in essere un’attività di segno contrario a quella distrattiva, capace di ripristinare integralmente e concretamente il patrimonio sociale. Un rientro parziale o fittizio, basato su meccanismi che non liberano la società dai suoi debiti o non le restituiscono liquidità, non è sufficiente a eliminare il pericolo per i creditori e, pertanto, non esclude la responsabilità penale per il reato di bancarotta fraudolenta.

Che cos’è la “bancarotta riparata” e quando esclude il reato?
È un istituto giuridico che esclude la punibilità per il reato di bancarotta fraudolenta se l’amministratore, prima della dichiarazione di fallimento, compie un’attività di segno contrario a quella distrattiva che reintegra in modo pieno, totale ed effettivo il patrimonio dell’impresa, annullando così il potenziale pregiudizio per i creditori.

Perché le operazioni di compensazione, come l’accollo di debiti, non sono state considerate sufficienti a integrare la “bancarotta riparata”?
Perché non avevano un reale effetto liberatorio per la società fallita. L’accollo del debito era di tipo cumulativo, quindi la società rimaneva comunque obbligata a pagare. Queste operazioni sono state viste come un mero spostamento di passività tra società collegate, senza un effettivo e concreto ripristino del patrimonio a garanzia dei creditori.

Su chi ricade l’onere di provare che il patrimonio aziendale è stato reintegrato?
L’onere della prova ricade sull’amministratore che ha commesso gli atti di distrazione. È lui che deve dimostrare l’esatta corrispondenza tra i beni sottratti e i versamenti effettuati per reintegrare il patrimonio, e che tale reintegrazione è stata completa ed efficace prima della dichiarazione di fallimento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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