Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 798 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 798 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 24/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a FIVIZZANO il 08/05/1951 COGNOME NOME nato a CAMPI BISENZIO il 24/07/1961 COGNOME nato a SANTA NOME DEL CEDRO il 29/03/1963 COGNOME NOME COGNOME nato a FIRENZE il 26/09/1938 COGNOME NOME nato a FIRENZE il 25/02/1968
avverso la sentenza del 03/05/2022 della CORTE APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME udito il Sostituto Procuratore generale COGNOME che ha concluso, in riferimento alla posizione di COGNOME MassimoCOGNOME per l’annullamento della sentenza senza rinvio e, in riferimento alla posizione degli altri imputati, per l’annullamento della sentenza senza rinvio, limitatamente al reato di cui al capo a), e per l’inammissibilità dei ricorsi, in relazione al reato di cui al capo c), con conseguente rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Firenze per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio;
udite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME per la parte civile, che ha chiesto d rigettare i ricorsi; udite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME per l’imputato COGNOME MassimoCOGNOME che, associandosi alle richieste del Procuratore generale, ha chiesto di annullare senza rinvio la sentenza impugnata; udite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME per gli imputati COGNOME NOME e COGNOME che si è associato alle richieste del Procuratore generale; udite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME per l’imputato COGNOME che ha chiesto di accogliere il ricorso; udite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME per l’imputato COGNOME NOME
NOMECOGNOME che ha chiesto di accogliere il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. La sentenza impugnata è stata pronunziata il 3 maggio 2022 dalla Corte di appello di Firenze, che ha confermato la sentenza del Tribunale di Firenze, che aveva condannato COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME COGNOME per il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva (capo A) nonché questi ultimi quattro anche per il reato di bancarotta semplice (capo C), in relazione alla “RAGIONE_SOCIALE in liquidazione”, fallita il 5 febbraio 2014.
Secondo l’ipotesi accusatoria, ritenuta fondata dai giudici di merito, COGNOME COGNOME Girolamo (nella qualità di presidente del consiglio di amministrazione della società fallita, dall’Il febbraio 2002 al 29 ottobre 2012), COGNOME NOME COGNOMEnella qualità di consigliere di amministrazione della società fallita, dall’Il febbraio 2002 al 29 ottobre 2012), COGNOME NOME COGNOMEnella qualità consigliere di amministrazione della società fallita, dal 30 giugno 2003, e poi di amministratore delegato, dal 10 ottobre 2007 al 29 ottobre 2012, e, infine, di liquidatore dal 29 ottobre 2012), COGNOME NOME COGNOMEnella qualità di consigliere di amministrazione della società fallita, dal 15 aprile 1998 al 10 aprile 2008, nonché di amministratore di fatto del gruppo societario di fatto “RAGIONE_SOCIALE“, del quale faceva parte anche la società “RAGIONE_SOCIALE“) COGNOME NOME COGNOMEnella qualità di amministratore di fatto e di socio di maggioranza della società fallita nonché di dominus del gruppo societario di fatto “Società
RAGIONE_SOCIALE“, del quale faceva parte anche la società “RAGIONE_SOCIALE“) avrebbero distratto la somma di euro 2.600.000,00, mediante le operazioni collegate alla stipula di un contratto preliminare che obbligava la “RAGIONE_SOCIALE” ad acquistare da COGNOME NOME e COGNOME NOME il 70% delle quote della “RAGIONE_SOCIALE“.; operazioni prive di valide ragioni economiche ed effettuate al solo fine di attribuire al COGNOME e al COGNOME la somma di euro 2.600.000,00.
In particolare, con un contratto preliminare dell’8 settembre 2004, la “RAGIONE_SOCIALE” si obbligava ad acquistare dal COGNOME e dal COGNOME il 70% delle quote della “RAGIONE_SOCIALE” al prezzo di euro 2.800.000,00, da corrispondersi entro la data di stipula del definitivo, fissata per il 30 giugno 2005. L’accordo era stato concluso, nonostante il COGNOME e il COGNOME detenessero soltanto il 20% ciascuno del capitale sociale; nonostante la “RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE si trovasse in uno stato di grave difficoltà economica fin dalla sua costituzione e registrasse nell’anno 2004 una perdita che aveva intaccato il capitale sociale; nonostante la “RAGIONE_SOCIALE” avesse un capitale sociale di soli euro 62.000,00 e il suo ultimo bilancio depositato risalisse all’anno 2001 e registrasse una perdita per lire 660.263.217; nonostante la “RAGIONE_SOCIALE” risultasse in perdita negli anni 2003 e 2004, con un patrimonio netto negativo nel 2004 per euro 839.436,00.
Il 31 gennaio e il 22 febbraio 2005, in data antecedente a quella fissata per la stipula del definitivo, sebbene il contratto preliminare non prevedesse il versamento di acconti prima della stipula del definitivo, la “RAGIONE_SOCIALE” effettuava il pagamento della somma di euro 1.300.000,00 ciascuno in favore del COGNOME e del COGNOME. Il contratto definitivo non veniva poi stipulato la “RAGIONE_SOCIALE” ometteva di intraprendere qualsiasi azione a tutela delle proprie ragioni per poi, il 5 giugno 2009, cedere – al prezzo di euro 260.000.000,00 – il contratto a NOME e COGNOME NOME, soggetti privi di adeguate capacità economiche, che si impegnavano a sottoscrivere un significativo aumento di capitale e versavano in conto prezzo la somma di euro 800.000,00. I cessionari, poi, non effettuavano alcun aumento di capitale né versavano il residuo del prezzo, per il cui pagamento, d’altronde, non avevano fornito alcuna garanzia.
Secondo i giudici di merito, COGNOME NOME COGNOME COGNOME Girolamo, COGNOME NOME e COGNOME NOME COGNOME avrebbero anche aggravato il dissesto della società, non chiedendone il fallimento, nonostante la stessa si trovasse in uno stato di manifesta insolvenza già dal 2009, finendo così per eroderne l’intero capitale (pari a soli euro 18.000,00) e le altre riserve sociali. Il bilancio, particolare, mostrava, già nel 2009, una consistente perdita (pari ad euro
1.036.954,00) – che si cumulava a quella dell’anno precedente (pari ad euro 339.640,00) e che si sarebbe ripetuta anche nell’anno successivo (per euro 1.208.155,00) – nonché una consistente esposizione debitoria verso la “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino” (di cui il COGNOME era presidente) per circa euro 7.600.000,00.
Avverso la sentenza della Corte di appello, tutti gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo dei loro difensori di fiducia.
Il ricorso dell’avv. NOME COGNOME per COGNOME si compone di cinque motivi.
3.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 216 e 223 della legge fall.
3.1.1. Rappresenta che l’imputato, nell’ottobre 2012, circa due anni prima del fallimento, in qualità fideiussore omnibus dei debiti della “RAGIONE_SOCIALE” nei confronti della “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino”, aveva provveduto a estinguere, pagando la somma di euro 3.250.000,00, tutti i debiti che la società fallita aveva nei confronti del menzionato istituto di credito. I giudi di merito, tuttavia, non avevano ritenuto che, a seguito del suddetto pagamento, si fosse configurata la cosiddetta “bancarotta riparata”, fondando la loro decisione sulle seguenti argomentazioni: l’imputato avrebbe pagato, essendovi obbligato in qualità di garante nei confronti dell’istituto di credito; egli, pertanto, avrebbe ag non con la volontà di reintegrare il patrimonio della società fallita, ma al solo fi di evitare azioni di responsabilità connesse alla sua posizione di garante; da un punto di vista oggettivo, l’imputato, con il pagamento in questione, non avrebbe fatto entrare denaro nelle casse della società e, dunque, non avrebbe compiuto un atto idoneo a reintegrare il patrimonio della fallita, in modo tale da far venir meno l’integrale pregiudizio per i creditori; il pagamento era avvenuto a ben otto anni di distanza dall’atto distrattivo e non in prossimità di quest’ultimo.
Tanto premesso, il ricorrente sostiene che la decisione dei giudici di merito sarebbe completamente viziata sia sotto il profilo logico che sotto quello giuridico.
Del tutto infondata, invero, sarebbe la tesi secondo la quale, ai fini dell’integrazione della bancarotta riparata, sarebbe rilevante il fine perseguito dal soggetto che effettua il pagamento “riparativo”, atteso che, per la giurisprudenza di legittimità, sarebbe rilevante la sola oggettiva reintegrazione del patrimonio della società fallita. Non sussisterebbe, inoltre, alcun motivo per ritenere che – nel caso in cui l’autore della distrazione sia un garante della società rispetto a credit vantati da terzi – la “riparazione” non possa essere effettuata anche mediante compensazione con il credito vantato dal fideiussore nei confronti della società
fallita, a seguito del pagamento del debito garantito. Infondata sarebbe anche la tesi secondo la quale sarebbe determinante che il pagamento riparatorio avvenga in prossimità dell’atto distrattivo, quando, invece, per la giurisprudenza di legittimità, rileverebbe solo che la reintegrazione avvenga prima della dichiarazione del fallimento.
La rilevanza del pagamento effettuato dall’imputato, quale atto reintegrativo del patrimonio della fallita, sarebbe pienamente confermata dal fatto che il giudice delegato al fallimento della “RAGIONE_SOCIALE avrebbe ammesso l’imputato allo stato passivo, dichiarando la compensazione tra il credito per euro 2.600.000,00, vantato dalla fallita nei confronti dell’imputato, in relazione all’operazione in questione, e il credito vantato da quest’ultimo, a seguito del pagamento dei debiti che la fallita aveva nei confronti della “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino”.
I giudici di merito, inoltre, secondo il ricorrente, sarebbero incorsi in un «patente travisamento della prova», non dando rilievo alla somma di euro 1.800.000,00, che il COGNOME avrebbe pagato – come sarebbe desumibile dalla nota integrativa al bilancio chiuso il 31 dicembre 2012 – per estinguere i debiti della società nei confronti di fornitori, dipendenti ed erario.
3.1.2. Il ricorrente sostiene, anche, che Ila Corte di appello avrebbe ritenuto che l’operazione descritta nell’imputazione sarebbe priva di valide ragioni economiche, senza, però, valutare adeguatamente taluni elementi emersi nel corso del processo.
In particolare, non avrebbe adeguatamente valutato la relazione redatta dal consulente tecnico di parte, dalla quale risultava che: da un punto di vista economico, la società, a fronte delle operazioni iniziate con la scrittura privata del 2004, aveva iscritto a bilancio un credito per il preliminare, senza che ciò comportasse alcuno squilibrio patrimoniale in danno dei creditori e degli altri soci; l’operazione compiuta nel 2004 aveva in ogni caso trovato una parziale realizzazione nel 2009, attraverso la cessione del contratto a favore della Pau e del COGNOME, con un rientro parziale di liquidità; l’imputato nel 2012 aveva provveduto a liquidare i debiti che la società aveva nei confronti dell’istituto bancario nonché verso terzi creditori.
Non avrebbe neppure adeguatamente valutato la relazione del curatore fallimentare, dalla quale emergerebbe che il dissesto della società non era stato causato dalla presunta operazione distrattiva contestata, bensì da un sequestro disposto dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze e dal conseguente provvedimento con il quale la Presidenza del Consiglio dei ministri aveva interrotto l’elargizione in favore della “RAGIONE_SOCIALE” dei contributi statali per l’editoria.
3.2. Con un secondo motivo, articolato con specifico riferimento al reato di bancarotta semplice, deduce il vizio di motivazione.
Sostiene che, all’esito dell’istruttoria, non sarebbe emersa la prova sufficiente della colpa grave dell’imputato rispetto al reato di bancarotta semplice. Evidenzia al riguardo che, dalla relazione del curatore fallimentare, emergerebbe che le cause del dissesto sarebbero da ricondurre all’esecuzione, nel 2011, del sequestro preventivo nei confronti della società fallita e alla conseguente interruzione dell’erogazione dei contributi stradali da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri. Non si comprenderebbe, pertanto, come l’imputato avrebbe potuto, in epoca anteriore a tali eventi, avere la piena consapevolezza dell’irreversibile crisi economica della società e chiederne conseguentemente il fallimento.
Tale consapevolezza non potrebbe essere desunta con certezza neppure dai dati economici della società, atteso che, dalla documentazione in atti, emergerebbe che, nell’anno 2012, la situazione debitoria era migliorata e la società era passata da una perdita di euro 5.586.071,00 a un utile di euro 110.343,00.
Il ricorrente evidenzia anche che il giudizio di responsabilità dei giudici d merito, in ordine al reato di bancarotta semplice, sarebbe poco coerente anche con la pronuncia di assoluzione relativa all’originario capo B dell’imputazione, nel quale era contestato a COGNOME NOME una presunta distrazione di una somma di danaro, effettuata mediante un bonifico eseguito il 5 febbraio 2010. I giudici di merito, infatti, avevano assolto il COGNOME ritenendo che, nel 2010, non vi potesse essere in capo all’imputato la piena percezione della crisi economica della società. Motivazione palesemente in contraddizione con il giudizio di responsabilità pronunciato con riferimento al reato di bancarotta semplice.
Il ricorrente sostiene che, in ogni caso, il reato di bancarotta semplice – pur considerando il periodo di sospensione del termine per «mesi 5 e giorni 21» (per il rinvio della trattazione dell’appello dal 20 novembre 2020 al 10 giugno 2021) risulterebbe estinto per prescrizione fin dal 26 gennaio 2022 e, dunque, prima della pronuncia della sentenza di appello del 3 maggio 2022.
3.3. Con un terzo motivo, deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 219 della legge falli.
Contesta l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 219, comma 1, legge fall., sostenendo che il patrimonio della fallita, dopo essere stato depauperato nel 2005, sarebbe stato comunque ampiamente reintegrato con le azioni riparatorie poste in essere dall’imputato nel 2012, in epoca antecedente alla dichiarazione del fallimento. Pertanto, anche se si volesse ritenere che l’azione riparatoria dell’imputato non fosse stata sufficiente a elidere la natura distrattiva dell condotta tenuta nel 2005, essa andrebbe, comunque, valutata ai fini della non
configurabilità dell’aggravante in questione, avendo essa fatto venire meno quella concreta diminuzione del patrimonio della fallita e il conseguente significativo pregiudizio per le pretese dei creditori, richiesti per l’integrazione della circostanza
3.4. Con un quarto motivo, deduce il vizio di motivazione, in relazione all’art. 62-bis cod. pen.
Rappresenta che i giudici di merito non hanno riconosciuto all’imputato le circostanze attenuanti generiche poiché egli non avrebbe risanato le casse della società e avrebbe mantenuto una condotta processuale non particolarmente meritevole, essendosi limitato a esercitare legittimamente le sue prerogative difensive.
Tanto premesso, il ricorrente contesta l’esposta motivazione, evidenziando che l’imputato aveva risanato le casse della società, provvedendo a ripianare i debiti che essa aveva non solo nei confronti della “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino”, ma anche quelli che aveva con dipendenti, fornitori ed erario. Del tutto contraddittoria, poi, sarebbe la motivazione nella parte in cui, da un lato, ha riconosciuto che l’imputato aveva legittimamente esercitato le prerogative difensive, ma poi, dall’altro, ha valutato tale attività come elemento negativo in relazione al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
3.5. Con un quinto motivo, deduce il vizio di motivazione, in relazione all’art. 216 legge fall.
Sostiene che i giudici di merito avrebbero determinato la durata delle pene accessorie fallimentari nel massimo edittale, senza supportare la decisione con alcuna motivazione. Al riguardo evidenzia che, a seguito della sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzional dell’art. 216, ultimo comma, legge fall., la durata delle pene accessorie previste per la bancarotta fraudolenta deve essere concretamente determinata e specificamente motivata dal giudice.
Il ricorso dell’avv. NOME COGNOME per COGNOME NOME COGNOME si compone di cinque motivi.
4.1. Con un primo motivo, deduce il vizio di motivazione.
Il motivo propone, sostanzialmente, le medesime argomentazioni già esposte con riferimento al primo motivo del ricorso di COGNOME NOME: a seguito del pagamento, effettuato dal COGNOME, dei debiti che la società fallita aveva nei confronti della “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino” e nei confronti di fornitori e creditori si dovrebbe ritenere integrata la “bancarotta riparata”.
4.2. Con un secondo motivo, deduce il vizio di motivazione.
Rappresenta che, secondo l’impostazione accusatoria recepita dai giudici di merito, il contributo causale fornito dall’imputato alla commissione della
bancarotta distrattiva si sarebbe concretizzato nell’aver partecipato al consiglio di amministrazione del 7 settembre 2004, nel corso del quale era stata approvata la delibera con la quale veniva autorizzata la sottoscrizione del contratto preliminare contenente la promessa di acquisto delle quote della “RAGIONE_SOCIALE“.
Tanto premesso, il ricorrente sostiene che il contratto preliminare – unico atto riconducibile alla responsabilità dell’imputato – dovrebbe essere distinto dal successivo pagamento della somma di euro 2.600.000,00.
Quest’ultimo avrebbe sicuramente valenza distrattiva, atteso che la società non avrebbe ricevuto alcuna controprestazione in cambio e che l’anticipato pagamento del prezzo non troverebbe alcuna giustificazione nel contratto preliminare. Il promittente acquirente, infatti, non aveva ancora ricevuto la controprestazione né poteva ritenersi che il pagamento da questi effettuato costituisse un anticipato adempimento dell’impegno assunto, atteso che il preliminare aveva a oggetto una cosa futura. Con esso, infatti, il COGNOME e il COGNOME si erano impegnati a cedere anche quote di cui non erano titolari, che si impegnavano ad acquistare per poi cederle alla società fallita. Tentativo che sarebbe rimasto vano, in quanto il terzo titolare delle altre quote si sarebbe rifiutato di cederle al COGNOME e al COGNOME; tanto che a quel contratto preliminare non sarebbe mai seguito il contratto definitivo.
La mera stipula del preliminare, invece, non avrebbe natura distrattiva, atteso che gli obblighi assunti dalla “RAGIONE_SOCIALE” sarebbero adeguati alla controprestazione che la fallita avrebbe ricevuto se il contratto definitivo fosse stato, poi, effettivamente stipulato. Con la stipula del definitivo, infatti, la f avrebbe acquisito anche l’immobile dove aveva sede la società e la redazione del giornale dalla stessa editato.
La reale distrazione, dunque, secondo il ricorrente, sarebbe stata realizzata solo con quell’ingiustificato pagamento, che, però, non potrebbe essere attribuito alla responsabilità dell’imputato.
4.3. Con un terzo motivo, deduce il vizio di motivazione.
Contesta la sentenza impugnata, nella parte in cui ha riconosciuto la sussistenza dell’elemento soggettivo della bancarotta distrattiva, in quanto i giudici di merito non avrebbero tenuto conto delle spiegazioni fornite dall’imputato, che aveva rappresentato che l’acquisto delle quote della “RAGIONE_SOCIALE” era stato prospettato al’ Consiglio di amministrazione quale operazione finalizzata a riacquistare indirettamente l’immobile dove aveva sede la società e la redazione del giornale.
I giudici in merito avrebbero anche errato nel dar rilievo all’inerzia che i consiglieri di amministrazione avrebbero mantenuto dopo il pagamento della
somma di euro 2.600.000,00, non essendosi questi mai adoperati per recuperare quanto indebitamente erogato. Al riguardo, il ricorrente evidenzia come l’imputato avesse sostenuto di essere venuto a conoscenza del pagamento solo dalla lettura degli atti delle successive vicende giudiziarie e che, in ogni caso, si trattava di fat difficilmente evincibili dai meri dati di bilancio.
4.4. Con un quarto motivo, deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 157 cod. pen. e 531 e 605 cod. proc. pen.
Sostiene che il reato di bancarotta semplice risulterebbe estinto per prescrizione prima della pronuncia della sentenza di appello. L’estinzione del reato, conseguentemente, avrebbe fatto venire meno anche il presupposto necessario per l’applicazione della circostanza aggravante di cui all’art. 229, comma 2, n. 1, legge fall.
4.5. Con un quinto motivo, deduce il vizio di motivazione.
Contesta il giudizio di comparazione delle circostanze, effettuato dai giudici di merito in termini di mera equivalenza, lamentando la mancata valorizzazione della condotta riparatoria, che dovrebbe essere valutata con riferimento non solo al COGNOME ma a tutti gli altri concorrenti nel reato.
Il ricorso dell’avv. NOME COGNOME per COGNOME Massimo, si compone di quattro motivi.
5.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 110 cod. pen., 216, 219 e 226 legge fa Il.
Il motivo propone, sostanzialmente, le medesime argomentazioni già esposte con riferimento al primo motivo del ricorso di COGNOME NOME e al primo motivo del ricorso di COGNOME NOME COGNOME: a seguito del pagamento, effettuato dal COGNOME, dei debiti che la società fallita aveva nei confronti della “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino” e nei confronti di fornitori e creditori si dovrebbe ritener integrata la “bancarotta riparata”.
5.2. Con un secondo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 219 legge fall.
Contesta l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 219, comma 1, legge fall., proponendo, sostanzialmente, le medesime argomentazioni già esposte con riferimento al terzo motivo del ricorso di COGNOME NOME: anche se si volesse ritenere che l’azione riparatoria del COGNOME non fosse stata sufficiente a elidere la natura distrattiva della condotta tenuta nel 2005, essa andrebbe, comunque, valutata ai fini della non configurabilità dell’aggravante in questione.
5.3. Con un terzo motivo, deduce il vizio di motivazione.
Contesta il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e il significativo discostamento dal minimo edittale nella determinazione del trattamento sanzionatorio. Sostiene che i giudici di merito non avrebbero adeguatamente motivato su entrambi i punti in questione e avrebbero ingiustificatamente disatteso le valutazioni del consulente tecnico di parte e del curatore, dalle quali emergeva la palese carenza di qualsiasi rapporto di causalità tra la presunta condotta distrattiva e il dissesto della fallita; circosta quest’ultima che, unitamente alla sopravvenuta condotta riparatoria, avrebbe dovuto indurli a riconoscere le attenuanti generiche e ad applicare una pena prossima al minimo edittale.
Non avrebbero, inoltre, tenuto conto dell’incensuratezza dell’imputato e della circostanza che egli si era allontanato dalla società fin dal 2008, ossia ben prima che questa manifestasse le sue difficoltà economiche.
5.4. Con un quarto motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 133 cod. pen. e 216 legge fa Il.
Rappresenta che: il giudice di primo grado, nel determinare le pene accessorie fallimentari, si era limitato a rinviare a quelle «di cui all’art. 216, ultimo com legge fall.»; successivamente a tale pronuncia, era intervenuta la sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale, che aveva dichiarato l’incostituzionalità di tale norma; la giurisprudenza di legittimità, successivamente, aveva affermato il principio secondo il quale le pene accessorie in questione devono essere determinate, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen., dal giudice, che dev motivare sul punto in maniera autonoma e disgiunta dalla commisurazione della pena detentiva; la Corte di appello aveva confermato le pene accessorie applicate in primo grado.
Tanto premesso, il ricorrente sostiene che la Corte di appello avrebbe palesemente violato i principi affermati dalla Corte costituzionale e dalla giurisprudenza di legittimità, omettendo anche qualsiasi effettiva motivazione in ordine alla determinazione delle pene accessorie.
I ricorsi (presentati con un unico atto) dell’avv. NOME COGNOME pe COGNOME NOME e COGNOME COGNOME Girolamo, si compongono di quattro motivi.
6.1. Con un primo motivo, i ricorrenti deducono il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 216 e 223 legge fall.
Con tale motivo, i ricorrenti sostengono anche loro la tesi della “bancarotta riparata”, riproponendo, sostanzialmente, le medesime argomentazioni già esposte con riferimento al primo motivo del ricorso di NOME, al primo
motivo del ricorso di COGNOME NOME Luca e al primo motivo del ricorso di COGNOME NOME.
6.2. Con un secondo motivo, articolato sempre con riferimento alla “bancarotta riparata”, deducono il vizio di motivazione, sostenendo che la Corte di appello sarebbe incorsa in un vero e proprio travisamento della prova, nell’affermare (a pagina 14 della sentenza) che il COGNOME avrebbe effettuato il pagamento alla “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino” utilizzando «i soldi della fallita», quando, invece, risultava in maniera indiscutibile che egli aveva utilizzato risorse personali, derivanti da un finanziamento da lui ricevuto da parte di “Veneto Banca”. Così come sarebbe incorsa in altro travisamento della prova nel sostenere che il pagamento non avesse avvantaggiato in alcun modo la società fallita, atteso che il vantaggio sarebbe reso evidente dalla riduzione del passivo gravante sulla società fallita.
6.3. Con un terzo motivo, deducono il vizio di motivazione, in relazione agli artt. 62-bis e 69 cod. pen.
I ricorrenti contestano il giudizio di bilanciamento delle circostanze, sostenendo che i giudici di merito avrebbero dovuto ricono:scere le attenuanti prevalenti sulle aggravanti, in considerazione del fatto che gli imputati, a partire dal 2009, si sarebbero attivati affinché il COGNOME e il COGNOME restituissero alla socie la somma distratta.
6.4. Con un quarto motivo, deducono il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 157 cod. E:)en. e 217 e 224 legge fall.
Sostengono che il reato di bancarotta semplice risulterebbe estinto per prescrizione, prima della pronuncia della sentenza di appello.
CONSIDERATO IN DIRITTO
La sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio, limitatamente alla durata delle pene accessorie fallimentari applicate per il reato di bancarotta fraudolenta, in quanto essa è stata determinata – per tutti gli imputati – in misura illegale, risultando fondati – esclusivamente in ordine a tale punto – il quint motivo del ricorso di COGNOME NOME e il quarto motivo del ricorso di COGNOME Massimo. Nel resto i ricorsi sono inammissibili.
Il ricorso di NOME è fondato limitatamente al quinto motivo, relativo alla durata delle pene accessorie fallimentari applic:ate per il reato d bancarotta fraudolenta, risultando nel resto inammissibile.
2.1. Il primo motivo del ricorso del COGNOME, il primo motivo del ricorso di COGNOME NOME COGNOME il primo motivo del ricorso di COGNOME NOME e il primo motivo
dei ricorsi di COGNOME NOME e di COGNOME COGNOME COGNOME Girolamo – che possono essere trattati congiuntamente, essendo tutti relativi alla questione della bancarotta riparata – sono inammissibili.
I motivi di ricorso sono privi di specificità, perché meramente reiterativi di identiche doglianze proposte con i motivi di gravame, disattese nella sentenza impugnata con corretta motivazione in diritto e congrua e completa argomentazione in punto di fatto, con le quali i ricorrenti non si sono effettivamente confrontati.
La Corte di appello, in diritto, ha rilevato che: la fattispecie della bancarotta riparata «si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così annullando il pregiudizio per i creditori»; è «al permanere o meno di tale pregiudizio … che deve essere riferita la valutazione sulla sussistenza di un’azione restitutoria, idonea a rimuovere gli effetti distrattivi della precedente condotta».
La Corte territoriale ha evidenziato la necessità che: l’atto riparatorio venga compiuto in favore della società, che, poi, deciderà «autonomamente circa la destinazione da dare alle somme restituite e rientranti nel patrimonio sociale, costituente la principale garanzia per le ragioni creditorie»; «le somme versate dall’amministratore nelle casse sociali abbiano effettivamente avuto quella funzione di reintegrazione del patrimonio precedentemente pregiudicato dagli indebiti prelievi, con un’attività di segno contrario, non rilevando certo versamenti eseguiti dall’amministratore ad altro titolo».
Partendo da tali presupposti, la Corte di appello ha rilevato che «l’erroneità della tesi difensiva era resa palese dalla natura delle conseguenze ad essa ricollegabili», poiché, «se fosse vero che il fideiussore si libera dalla responsabilità penale – derivante dagli atti distrattivi posti in essere durante la vita della societ -, adempiendo, prima della dichiarazione di fallimento, il suo obbligo verso il creditore garantito, ne conseguirebbe che il fideiussore potrebbe liberamente disporre delle risorse societarie – per l’importo della fideiussione da lui prestata fino alla soglia del fallimento, con l’effetto di stravolgere le regole che presiedono al funzionamento dell’impresa collettiva, le quali esigono che l’amministratore, seppur fideiussore …, dia alle risorse societarie la destinazione richiesta dall’oggetto sociale e non quella corrispondente alle sue necessità o ai suoi desiderata».
La Corte territoriale ha anche posto in rilievo gli effetti distorsivi, su garanzia patrimoniale dei creditori, che si determinerebbero, se si ritenesse fondata la tesi difensiva: «l’amministratore che si appropria di risorse sociali e,
prima del fallimento, estingua un suo obbligo fideiussorio per l’importo corrispondente alle somme distratte, dirotta le risorse sociali verso uno o più creditori, a sua discrezione, infrangendo … le regole che presiedono alla graduazione dei crediti».
Va rilevato che si tratta di una decisione perfettamente in linea con la giurisprudenza di legittimità.
Va premesso in proposito che, secondo i0 costante indirizzo di questa Corte, «il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare è un reato di pericolo concreto, in cui l’atto di depauperamento deve risultare idoneo ad esporre a pericolo l’entità del patrimonio della società, in relazione alla massa dei creditori, e deve permanere tale fino all’epoca che precede l’apertura della procedura fallimentare» (Sez. 5, n. 17819 del 24/03/2017, Palitta, Rv. 269562; Sez. 5, n. 50081 del 14/09/2017, COGNOME, Rv. 271437).
In coerenza con la natura riconosciuta al reato in questione, questa Corte ritiene che la bancarotta “riparata” costituisca una manifestazione del giudizio di pericolo concreto che determina l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, a seguito dell’attività restitutoria posta in essere dall’imprenditore dall’amministratore della società (prima della soglia cronologica della dichiarazione di fallimento), volta a ricostituire il patrimonio dell’impresa, nella sua effettivit integralità, precedentemente pregiudicato dagli indebiti prelievi, a nulla rilevando restituzioni parziali, inidonee a elidere totalmente le conseguenze pregiudizievoli per la massa creditoria, né versamenti fatti dall’amministratore ad altro titolo. Non può, infatti, integrare fatto punibile come bancarotta per distrazione un comportamento, pure doloso o assertivamente fraudolento, la cui portata pregiudizievole risulti annullata per effetto d i un atto o di un’attività di segno inverso, capace di reintegrare il patrimonio della fallita, prima della sogli cronologica costituita dall’apertura della procedura, impedendo l’insorgenza di alcun effettivo pregiudizio per i creditori (Sez. 5, n. 3622 del 19/12/2006, COGNOME, Rv. 236051; Sez. 5, n. 8402 del 03/02/2011, Cannavale, Rv. 249721).
È proprio al permanere o meno di tale pregiudizio per la massa creditoria, costituente sotto tale profilo l’offesa tipica dei reati di bancarotta, che deve essere riferita la valutazione sulla sussistenza di un’azione restitutoria idonea a rimuovere gli effetti distrattivi della precedente condotta.
La “riparazione”, dunque, deve essere integrale e in favore dell’intera massa creditoria: solo se presenta tali requisiti, risulta idonea ad annullare la portat pregiudizievole della precedente condotta distrattiva.
Sotto tale profilo appare evidente che, nel caso in esame, vi è stata una riparazione a favore di uno solo creditore (la “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino”), quando invece risulta pacifico che vi era una pluralità di creditori.
ricorrenti non hanno dimostrato che l’azione restitutoria, rispetto agli altr creditori, abbia completamente rimosso gli effetti pregiudizievoli della precedente condotta distrattiva. In assenza di tale dimostrazione, l’unico – presumibile beneficio che gli altri creditori potrebbero avere ricevuto, indirettamente, dal pagamento effettuato dal COGNOME potrebbe essere quello di non dover più concorrere con la “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino’ nella ripartizione dell’attivo fallimentare (beneficio la cui effettiva portata andava specificamente provata, tenendo conto della graduazione di tutti gli altri crediti). L’atto riparati pertanto, considerate le regole di ripartizione dell’attivo, si presenta inidoneo a elidere totalmente le conseguenze pregiudizievoli per la massa creditoria. E va ricordato che è onere dell’amministratore, che si sia reso responsabile di atti di distrazione e sul quale grava una posizione di garanzia rispetto al patrimonio sociale, provare tale idoneità (Sez. 5, n. 57759 del 24/11/2017, COGNOME, Rv. 271922).
Già solo queste considerazioni sarebbero sufficienti a escludere la bancarotta riparata.
Ma va rilevato che coglie pienamente nel segno la sentenza impugnata, nella parte in cui evidenzia gli effetti distorsivi – rispetto alle ragioni poste a fondament della bancarotta riparata – che si avrebbero se si ritenesse fondata la tesi difensiva: risulterebbero stravolte le regole che presiedono al funzionamento dell’impresa collettiva e alla graduazione dei crediti.
Le argomentazioni spese al riguardo dalla Corte di appello sono pienamente condivisibili, atteso che la bancarotta non può ritenersi “riparata” a seguito di operazioni che, a loro volta, si pongano in contrasto con le regole che presiedono al corretto funzionamento dell’impresa collettiva e che violino la graduazione dei crediti. Tali argomentazioni, inoltre, appaiono pienamente coerenti con le ragioni poste a fondamento della bancarotta riparata, che sono legate – va ribadito – al venir meno del concreto pregiudizio per la massa dei creditori, a seguito di un atto di “senso contrario” che reintegri, nella sua effettività e integralità, il patrimo della società dalle conseguenze negative dell’atto distrattivo.
Appare, infatti, evidente che, di norma, un’effettiva e integrale reintegrazione – rispetto all’intera massa creditoria – possa avvenire solo attraverso un atto che rimetta a disposizione della società le risorse distratte, da utilizzare secondo i criteri di buona amministrazione e nel rispetto delle norme di legge e della graduazione dei crediti.
Un’operazione come quella posta in essere del COGNOME – che paga integralmente uno solo dei creditori, senza che tale operazione sia posta in correlazione a specifiche esigenze della società – non comporta un’effettiva e integrale reintegrazione del patrimonio e certamente non fa venire meno
completamente il pregiudizio determinato dall’operazione distrattiva per l’intera massa dei creditori.
Quanto al presunto pagamento della somma di euro 1.800.000,00, che il COGNOME avrebbe effettuato per definire i debiti della “RAGIONE_SOCIALE” nei confronti di fornitori, dipendenti ed erario, va rilevato che la Corte appello non l’ha ritenuto provato, fondando tale valutazione sulla base delle dichiarazioni del curatore e di un’annotazione di polizia giudiziaria (che, peraltro, era stata invocata anche dall’appellante).
Le censure mosse dai ricorrenti in relazione a tale questione non sono deducibili in sede di legittimità, atteso che non evidenziano alcuna effettiva violazione di legge né effettivi travisamenti di prova o vizi di manifesta logicit emergenti dal testo della sentenza, ma sono, invece, dirette a ottenere una non consentita rivalutazione delle fonti probatorie e un inammissibile sindacato sulla ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di appello (cfr. Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944; Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano).
Va, poi, evidenziato che i ricorrenti non hanno dimostrato la decisività della questione, atteso che Corte di appello, per i motivi già esposti, ha, in radice, escluso che possa configurarsi una bancarotta riparata, in assenza di un atto che rimetta a disposizione della società le risorse distratte, da utilizzare secondo i criteri di buona amministrazione e nel rispetto della graduazione dei crediti.
2.1.1. Le restanti censure articolate nel primo motivo del ricorso di COGNOME NOME si presentano manifestamente infondate.
Entrambi i giudici di merito (cfr. anche le pagine 41 e ss. della sentenza di primo grado) si sono ampiamente soffermati sulla natura distrattiva dell’operazione, evidenziando come essa risultasse priva di qualsiasi ragione economica e finalizzata esclusivamente ad attribuire al COGNOME e al COGNOME la somma di euro 2.600.000,00.
I giudici di merito – tra le numerose anomalie da loro riscontrate – hanno posto in rilievo che l’accordo era stato concluso, nonostante il COGNOME e il COGNOME detenessero soltanto il 20% ciascuno del capitale sociale; nonostante la “RAGIONE_SOCIALE” si trovasse in uno stato di grave difficoltà economica fin dalla sua costituzione e registrasse nell’anno 2004 una perdita che aveva intaccato il capitale sociale; nonostante la “RAGIONE_SOCIALE‘ avesse un capitale sociale di soli euro 62.000,00 e il suo ultimo bilancio depositato risalisse all’anno 2001 e registrasse una perdita per lire 660.263.217; nonostante la “RAGIONE_SOCIALE risultasse in perdita’ negli anni 2003 e 2004, con un patrimonio netto negativo nel 2004.
La “RAGIONE_SOCIALE“, inoltre, non aveva risorse finanziarie sufficienti a effettuare l’acquisto delle quote dal COGNOME e dal COGNOME e pe procurarsele era stata costretta a ricorrere a un’operazione complessa, che aveva comportato anche la vendita dell’immobile ove aveva sede la società, previo riscatto anticipato del contratto di locazione finanziaria.
Il 31 gennaio e il 22 febbraio 2005, in data antecedente a quella fissata per la stipula del definitivo, sebbene il contratto preliminare non prevedesse il versamento di acconti prima della stipula del definitivo, la “RAGIONE_SOCIALE” effettuava il pagamento della somma di euro 1.300.000,00 ciascuno in favore del COGNOME e del COGNOME. Il contratto definitivo non veniva poi stipulato la “RAGIONE_SOCIALE” ometteva di intraprendere qualsiasi azione a tutela delle proprie ragioni per poi, il 5 giugno 2009, cedere al prezzo di euro 260.000.000,00 – il contratto a NOME e COGNOME NOME, soggetti privi di adeguate capacità economiche, che si impegnavano a sottoscrivere un significativo aumento di capitale e versavano in conto prezzo la somma di euro 800.000,00. I cessionari, poi, non effettuavano alcun aumento di capitale né versavano il residuo del prezzo, per il cui pagamento, d’altronde, non avevano fornito alcuna garanzia.
La valutazione dei giudici di merito che, in base a tali fatti, hanno ritenuto che l’operazione in questione avesse natura distrattiva appare priva di vizi logici e gli elementi che il ricorrente desume dalla relazione del consulente tecnico di parte e dalla relazione del curatore appaiono del tutto generici e poco conferenti.
Con particolare riferimento al dissesto della società – che sarebbe stato causato un sequestro disposto dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze e dal conseguente provvedimento con il quale la Presidenza del Consiglio dei ministri aveva interrotto l’elargizione in favore della “RAGIONE_SOCIALE” dei contributi statali per l’editoria – va ribadito che «ai fini sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività» (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266804).
2.2. Il secondo motivo è inammissibile.
Esso, invero, è privo di specificità, perché meramente reiterativo di identiche doglianze proposte con i motivi di gravame, disattese nella sentenza impugnata con corretta motivazione in diritto e congrua e completa argomentazione in punto di fatto (cfr. pagine 19 e 20 della sentenza impugnata), con le quali il ricorrente non si è effettivamente confrontato.
La Corte di appello, in particolare, ha evidenziato che: dalla relazione del curatore fallimentare e dalla sua deposizione dibattimentale, risultava che, almeno dal 13 settembre 2010, era emerso il grave squilibrio finanziario della società, che gli amministratori ben conoscevano; la società di revisione incaricata dai commissari straordinari della “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino” di esaminare il bilancio della “RAGIONE_SOCIALE“, in conseguenza dell’ingente esposizione nei confronti dell’istituto di credito, aveva posto in risalt la crisi finanziaria della società e aveva suggerito l’adozione di alcuni rimedi, stigmatizzando la rivalutazione della società, avvenuta nel 2009, in quanto effettuata in deroga ai principi contabili e fuori dalle ipotesi previste dalla legg con sovrastinna del valore effettivo del patrimonio netto e delle immobilizzazioni materiali; nonostante la grave situazione finanziaria della società, il COGNOME non solo non aveva assunto alcuna iniziativa volta ad arginarla, ma non aveva neanche chiesto tempestivamente il fallimento, in tal modo aggravando il dissesto della società, che sarebbe, poi, fallita nel 2014.
Rispetto a tale motivazione, le censure mosse dal ricorrente appaiono generiche e poco conferenti. In particolare, la condanna per la bancarotta semplice non appare in contraddizione con l’assoluzione di COGNOME NOME dal reato di cui all’originario capo B dell’imputazione, che riguardava un fatto che il giudice di primo grado aveva ritenuto di qualificare, da un punto di vista oggettivo, come bancarotta preferenziale, escludendo, tuttavia’ l’elemento soggettivo del reato, in mancanza della prova certa che l’imputato, all’inizio del 2010 (quando era stata fatta “l’operazione preferenziale”), fosse consapevole dello stato di insolvenza della società; consapevolezza che era, invece’ era sicuramente sopraggiunta nel settembre 2010.
Va rilevato che, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, il reato non si è estinto per prescrizione prima della sentenza di appello (emessa il 3 maggio 2022). Va precisato che il termine di prescrizione risulta sospeso, in primo grado, per 21 giorni: dal 28 febbraio 2018 al 21 marzo 2018, a istanza della difesa. Inoltre, in appello, è stato sospeso per 263 giorni: per 61 giorni, a seguito di istanza di rinvio presentata dal difensore all’udienza del 13 febbraio 2020, per concomitante impegno professionale; per 202 giorni, dal 20 novembre 2020 al 10 giugno 2021, a istanza della difesa.
Il termine massimo di prescrizione (pari a sette anni e sei mesi), iniziato a decorrere il 5 febbraio 2014 e sospeso per complessivi 284 giorni, pertanto, risulta decorso solo il 16 maggio 2022, dopo la pronuncia della sentenza di appello.
Il reato di bancarotta semplice, al momento della pronuncia della sentenza di appello, non era estinto e l’inammissibilità dei motivi di ricorso relativi a esso
preclude il rilievo della prescrizione maturata successivamente alla sentenza impugnata (Sez. U., n. 32 del 22/11/2000, D. L., Rv. 217266).
2.3. Il terzo motivo del ricorso di COGNOME NOME e il secondo motivo del ricorso di COGNOME Massimo – che possono essere trattati congiuntamente, proponendo la medesima questione – sono inammissibili per plurime convergenti ragioni.
I motivi, in primo luogo, risultano inediti, posto che non risulta dall’incontestata sintesi dei motivi di appello’ per come riportata nella sentenza impugnata, che i deducenti avessero formulato doglianze in ordine al tema dedotto con i ricorsi in cassazione.
Va evidenziato, in ogni caso, che la decisione dei giudici di merito di ritenere che la condotta distrattiva abbia determinato un danno di rilevante entità, tenuto conto dell’ingente somma di denaro sottratta alla società, appare corretta in diritto e congrua in punto di fatto.
A fronte di tale danno, i ricorrenti invocano la condotta riparatoria che il COGNOME avrebbe realizzato nel 2012, con il pagamento effettuato in favore della “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino”. Tale condotta, tuttavia, in maniera diretta, ha determinato effetti favorevoli per un solo creditore.
Al riguardo, occorre ribadire che «il giudizio relativo alla particolare tenuità o gravità – del fatto non si riferisce al singolo rapporto che passa tra fallito creditore ammesso al concorso, né a singole operazioni commerciali o speculative dell’imprenditore decotto, ma va posta in relazione alla diminuzione – non percentuale ma globale – che il comportamento del fallito ha provocato nella massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto, ove non si fossero verificati gli illeciti» (Sez. 1, n. 12087 del 10/10/2000, COGNOME, Rv. 217403; conf. Sez. 5, n. 8690 del 27/04/1992, COGNOME, Rv. 191565).
Quanto alla possibile incidenza indiretta che il pagamento del COGNOME potrebbe avere determinato anche per gli altri creditori, non dovendo questi più concorrere con la “Banca di Credito Cooperativo Fiorentino” nella ripartizione dell’attivo fallimentare, va rilevato che essa andava specificamente provata, tenendo conto della graduazione di tutti gli altri crediti.
2.4. Il quarto motivo del ricorso di COGNOME NOME è inammissibile.
Per la consolidata giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549; Sez. 5, Sentenza n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269), invero, nel motivare il diniego delle attenuanti generiche, è sufficiente un congruo riferimento, da parte del giudice di merito, agli elementi ritenuti decisivi o rilevanti, come parimenti avvenuto nel caso in esame (cfr. pagina 20 della sentenza impugnata). La Corte territoriale, in particolare, ha valorizzato la rilevanza del fatto e i precedenti penali specifici dell’imputato. Va, poi, rilevat che la Corte di appello non ha criticato il legittimo esercizio delle prerogative
difensive da parte dell’imputato, ma si è limitata a prendere atto che, dalla condotta processuale, non erano desumibili elementi che potessero giustificare il riconoscimento delle attenuanti generiche.
2.5. Il quinto motivo del ricorso di COGNOME NOME e il quarto motivo del ricorso di COGNOME Massimo – che possono essere trattati congiuntamente, proponendo la medesima questione – sono fondati.
Va rilevato che: il giudice di primo grado, emettendo la sentenza il 13 settembre 2018, nel determinare le pene accessorie fallimentari, si era limitato a rinviare a quelle «di cui all’art. 216, ultimo comma, legge fall.»; successivamente a tale pronuncia, il 5 dicembre 2018 era intervenuta la sentenza n. 222 della Corte costituzionale, che aveva dichiarato l’incostituzionalità di tale norma; la Corte di appello si è limitata a confermare le pene accessorie fallimentari applicate in primo grado.
Tanto premesso, appare evidente che non solo i motivi proposti sul punto dal COGNOME e dal COGNOME sono fondati, ma che, d’ufficio, deve essere rilevata l’illegalit delle pene accessorie fallimentari applicate anche nei confronti degli altri imputati.
La sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale, invero, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 216, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci ann l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni».
A seguito di tale pronuncia, la durata delle pene accessorie previste per la bancarotta fraudolenta – risultando indicata dalla legge in misura non fissa – deve essere concretamente determinata dal giudice, in maniera disgiunta e autonoma dalla pena principale, in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. U, 28910 del 28/02/2019, COGNOME, Rv. 276286).
Si vette in ipotesi di pena illegale rilevabile d’ufficio dal giudice di legittim in quanto, indipendentemente dal fatto che le pene concretamente irrogate rientrino nella cornice edittale della norma così come manipolata dal giudice delle leggi, il procedimento di commisurazione si è basato su una norma dichiarata incostituzionale (cfr. Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, COGNOME, Rv. 264205; Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015, COGNOME, Rv. 264857).
Pertanto, limitatamente alla determinazione della durata delle pene accessorie disposte per la bancarotta fraudolenta, la sentenza impugnata, con
riferimento a tutti gli imputati, deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Firenze.
Tutti i motivi del ricorso di COGNOME NOME COGNOME sono inammissibili, ma la sentenza impugnata, anche nei suoi confronti, deve essere annullata con rinvio, limitatamente alla durata delle pene accessorie fallimentari applicate per il reato di bancarotta fraudolenta, in quanto essa è stata determinata in misura illegale.
3.1. Il secondo e il terzo motivo del ricorso del COGNOME (il primo motivo di ricorso è stato già trattato congiuntamente al primo motivo del ricorso di NOME) – che possono essere trattati congiuntamente, essendo strettamente correlati – sono inammissibili.
Essi, invero, sono privi di specificità, perché meramente reiterativi di identiche doglianze proposte con i motivi di gravame, disattese nella sentenza impugnata con corretta motivazione in diritto e congrua e completa argomentazione in punto di fatto (cfr. pagine 16 e 17 della sentenza impugnata), con le quali il ricorrente non si è effettivamente confrontato.
La Corte di appello, in particolare, ha evidenziato che l’operazione distrattiva era stata realizzata attraverso due distinti atti (entrambi finalizzati a far ottener ingiustificatamente al COGNOME e al COGNOME la somma di euro 2.600.000,00): la delibera che autorizzava la stipula del preliminare e il successivo pagamento anticipato della somma di denaro. Atti che non potevano essere scissi, essendo entrambi strettamente correlati alla medesima finalità distrattiva e parti di un unico «accordo consapevole e volontario, finalizzato a favorire COGNOME e COGNOME», ai quali l’imputato era legato da «comuni interessi».
La Corte territoriale, inoltre, ha evidenziato che, anche valutando il solo secondo atto, andava rilevato che i consiglieri di amministrazione non si erano opposti al versamento anticipato delle somme di denaro né avevano chiesto la loro restituzione per non esser stato concluso il contratto definitivo.
Ha, più in generale, posto in rilievo che la consapevole partecipazione all’intera operazione distrattiva era resa evidente dalle palesi anomalie (sulle quali entrambi i giudici di merito hanno ampiamente motivato) che l’operazione, fin dalla stipula del preliminare, presentava, essendo completamente priva di valide ragioni economiche.
Si tratta di una motivazione adeguata e priva di vizi logici, con la quale il ricorrente non si confronta effettivamente, limitandosi ad alcune generiche asserzioni. Con particolare riferimento all’affermazione secondo la quale, nel corso del consiglio di amministrazione, l’operazione in questione sarebbe stata presentata come finalizzata a riacquistare l’immobile ove aveva sede la società, va rilevato che tale affermazione non solo si presenta del tutto generica, ma trova
smentita nella sentenza impugnata, nella quale si dà atto che il verbale del consiglio di amministrazione si presentava dal contenuto del tutto generico.
3.2. Il quarto motivo del ricorso del COGNOME, con il quale il ricorrente deduce l’estinzione per prescrizione del reato di bancarotta semplice, è manifestamente infondato.
Invero, come già esposto nell’ambito del secondo motivo del ricorso del COGNOME, il termine massimo di prescrizione (pari a sette anni e sei mesi), iniziato a decorrere il 5 febbraio 2014 e sospeso per complessivi 284 giorni, risulta decorso solo il 16 maggio 2022, dopo la pronuncia delia sentenza di appello.
3.3. Il quinto motivo del ricorso del COGNOME è manifestamente infondato.
I giudici di merito, infatti, seppur in maniera sintetica, hanno sufficientemente motivato in ordine al riconoscimento delle attenuanti generiche e al bilanciamento delle circostanze (cfr. pagina 49 della sentenza di primo grado e pagina 17 della sentenza impugnata). Al riguardo, deve essere ribadito che, «in tema di circostanze, il giudizio di bilanciamento tra le aggravanti e le attenuanti costituisce esercizio del potere valutativo riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato alla stregua anche solo di alcuni dei parametri previsti dall’art. 133 cod. pen., senza che occorra un’analitica esposizione dei criteri di valutazione adoperati» (Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, COGNOME, Rv. 279838).
Il ricorso di COGNOME NOME è fondato limitatamente al quarto motivo, relativo alla durata delle pene accessorie fallimentari applicate per il reato di bancarotta fraudolenta, risultando nel resto inammissibile.
4.1. Il terzo motivo del ricorso del COGNOME (il primo motivo di ricorso è stato già trattato congiuntamente al primo motivo del ricorso di NOME, mentre il secondo motivo è stato trattato congiuntamente al terzo motivo del ricorso di NOME) è inammissibile.
Con esso, il ricorrente prospetta questioni non consentite nel giudizio di legittimità e, comunque, manifestamente infondate, posto che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice dii merito, che l’esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen., con la conseguenza che è inammissibile la doglianza che in cassazione miri a una nuova valutazione della sua congruità, ove la relativa determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Rv. 259142; Sez. 3, n. 1182 del 17/10/2007, Rv. 238851).
Per la consolidata giurisprudenza di legittimità (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549; Sez. 5, Sentenza n. 43952 del 13/04/2017, COGNOME, Rv. 271269), inoltre, nel motivare il diniego delle attenuanti generiche,
è sufficiente un congruo riferimento, da parte del giudice di merito, agli elementi ritenuti decisivi o rilevanti.
Va solo rilevato che entrambi i giudici di merito hanno adeguatamente motivato in ordine al trattamento sanzionatorio e al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, senza incorrere in alcun vizio logico (cfr. pagina 49 della sentenza di primo grado e pagina 22 della sentenza impugnata).
4.2. Il quarto motivo del ricorso del COGNOME, relativo alle pene accessorie applicate per la bancarotta fraudolenta, è fondato, per i motivi esposti nell’ambito della trattazione del quinto motivo del ricorso di COGNOME NOMECOGNOME
Anche con riferimento al COGNOME (come in relazione a tutti gli altri imputati), la sentenza impugnata, pertanto, deve essere annullata con rinvio, nella parte relativa alle pene accessorie applicate per la bancarotta fraudolenta.
Tutti i motivi dei ricorsi di COGNOME NOME e di COGNOME COGNOME COGNOME Girolamo sono inammissibili, ma la sentenza impugnata, anche nei loro confronti, deve essere annullata con rinvio, limitatamente alla durata delle pene accessorie fallimentari applicate per il reato di bancarotta fraudolenta, in quanto essa è stata determinata in misura illegale.
5.1. Il secondo motivo dei ricorsi del Picerno e dello Strozzi (il primo motivo di ricorso è stato già trattato congiuntamente al primo motivo del ricorso di NOME) è inammissibile.
Le censure mosse dai ricorrenti, infatti, riguardano il merito della decisione della Corte di appello e non integrano affatto un travisamento di prova, deducibile in sede di legittimità.
Il travisamento della prova, infatti, consiste in un errore percettivo (e non valutativo) della prova stessa, tale da minare alle fondamenta il ragionamento del giudice (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano).
Tre sono le figure di patologia della motivazione riconducibili al vizio in esame: la mancata valutazione di una prova decisiva (travisamento per omissione); l’utilizzazione di una prova sulla base di un’erronea ricostruzione del relativo “significante” (cd. travisamento delle risultanze probatorie); l’utilizzazione di una prova non acquisita al processo (cd. travisamento per invenzione). I questi casi non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito a fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano (cfr. tra le altr Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, COGNOME, Rv. 238215). Invero il vizio in questione vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice del dato probatorio nei termini di una “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione
merito dell’elemento di prova (Sez. 1, n. 25117 del 14/07/2006, COGNOME, Rv. 234167; Sez. 5, n. 36764 del 24/05/2006, COGNOME, Rv. 234605).
Il ricorrente, con le censure mosse nel secondo motivo, non indica neppure quale sarebbe la specifica prova che sarebbe stata travisata dalla Corte di appello, ma, invece, sostiene che la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere che il COGNOME avesse pagato con «i soldi della fallita» e che tale pagamento non avesse avvantaggiato la società. Ebbene, appare palese che, con il presunto primo errore, il ricorrente deduce un travisamento non della prova, ma del fatto, che non è deducibile in sede di legittimità (Sez. 3, Sentenza n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217). Con il presunto secondo errore, il ricorrente contesta una valutazione effettuata dalla Corte di appello, relativa alla bancarotta riparata, che, per i motiv già esposti nella trattazione del primo motivo del ricorso di NOME non può ritenersi integrata.
Va, peraltro, evidenziato che – come emerge dalla lettura complessiva della sentenza – la Corte di appello, alla pagina 14 della sentenza, non intendeva sostenere che il COGNOME avesse pagato il “Credito Cooperativo Fiorentino” con soldi prelevati dalle casse della fallita e utilizzava l’espressione censurata dal ricorrente nell’ambito di un più ampio ragionamento relativo agli effetti che il pagamento aveva realizzato, in conseguenza della precedente azione distrattiva e della posizione di fideiussore rivestita dal COGNOME.
5.2. Il terzo motivo dei ricorsi del COGNOME e dello COGNOME è manifestamente infondato.
I giudici di merito, infatti, seppur in maniera sintetica, hanno sufficientemente motivato in ordine al riconoscimento delle attenuanti generiche e al bilanciamento delle circostanze (cfr. pagina 49 della sentenza di primo grado e pagina 15 della sentenza impugnata). Al riguardo, deve essere ribadito che, «in tema di circostanze, il giudizio di bilanciamento tra le aggravanti e le attenuanti costituisce esercizio del potere valutativo riservato al giudice di merito ed insindacabile in sede di legittimità, ove congruamente motivato alla stregua anche solo di alcuni dei parametri previsti dall’art. 133 cod. pen., senza che occorra un’analitica esposizione dei criteri di valutazione adoperati» (Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, COGNOME, Rv. 279838).
5.3. Il quarto motivo dei ricorsi del Picerno e dello Strozzi, con il quale i ricorrenti deducono l’estinzione per prescrizione del reato di bancarotta semplice, è manifestamente infondato.
Invero, come già esposto nell’ambito del secondo motivo del ricorso del COGNOME, il termine massimo di prescrizione (pari a sette anni e sei mesi), iniziato a decorrere il 5 febbraio 2014 e sospeso per complessivi 284 giorni, risulta decorso solo il 16 maggio 2022, dopo la pronuncia della sentenza di appello.
A
6. In definitiva, risultano fondati solo il quinto motivo del ricorso del COGNOME il quarto motivo del ricorso del COGNOME, attinenti alla bancarotta fraudolenta e, i particolare, alla determinazione della durata delle pene accessorie applicate in ordine a tale delitto. La sentenza impugnata, però, deve essere annullata con rinvio, limitatamente alla durata delle pene accessorie fallimentari applicate per il reato di bancarotta fraudolenta, con riferimento a tutti gli imputati, attesa l’illegalità delle suddette pene accessorie. I re:stanti motivi risultano inammissibili
I ricorrenti sono tenuti alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente grado di giudizio dalla costituita parte civile – che vanno liquidate complessivamente in euro 5.500,00, oltre accessori di legge -, atteso che, in ordine agli unici motivi fondati, la parte civile non può considerarsi soccombente, essendo tali motivi relativi a questioni estranee alle statuizioni civili.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla determinazione della durata delle pene accessorie fallimentari, e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di appello di Firenze. Dichiara inamrnissibili i ricorsi ne resto. Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi euro 5.500,00, oltre accessori di legge.
Così deciso, il 24 novembre 2023.