Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 14199 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 14199 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 18/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a Firenze il 07/04/1966 avverso la sentenza del 16/07/2024 della Corte d’appello di Firenze; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che si riporta alla requisitoria già depositata e conclude per il rigetto de ricorso; sentiti i difensori dell’imputata, gli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME che si riportano ai motivi di ricorso e ne chiedono l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte d’appello di Firenze ha confermato la condanna di NOME COGNOME per il delitto di bancarotta impropria da operazioni dolose di cui all’articolo 223, comma 2, n. 2, R.D. n. 267/1942. La COGNOME, quale amministratrice de RAGIONE_SOCIALERAGIONE_SOCIALE dal 19/5/2005 al 28/12/2012, è stata ritenuta responsabile per aver cagionato il fallimento della società attraverso operazioni dolose, consistenti nel sistematico inadempimento delle obbligazioni tributarie, contributive e previdenziali.
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Questa condotta, secondo la prospettazione accusatoria accolta, aveva portato ad un progressivo aumento del debito erariale e, infine, al fallimento dichiarato con sentenza del Tribunale di Firenze in data 28/05/2015.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello, l’imputata ha proposto ricorso per cassazione articolando quattro motivi.
2.1. Col primo, la ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza.
Sostiene che la condanna si fondi su un arco temporale più ampio (20052012) rispetto alla contestazione suppletiva (2010-2012). Si sarebbe in presenza di una “trasformazione del fatto” lesiva del diritto di difesa, in quanto i presunt inadempimenti anteriori al 2010 sarebbero rimasti estranei sia alla contestazione che all’istruttoria svolta e tanto avrebbe impedito alla ricorrente di contrastare adeguatamente gli addebiti relativi a periodi anteriori al 2010.
Si argomenta, poi, che la passività riferibile al solo triennio contestato (circa C 338.000) avrebbe potuto essere ritenuta fisiologica rispetto all’andamento economico dell’epoca.
Né si poteva ritenere, per parte ricorrente, che l’imputata, “attraverso l’iter del processo”, fosse venuta a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione: infatti, non solo il Pubblico Ministero aveva circoscritto esplicitamente il tempus commissi delicti con riferimento al triennio 2010-2012, ma nessun elemento di prova era stato acquisito circa le vicende precedenti, salvo la verifica dell’esistenza di cartelle esattoriali, costituenti me inadempimenti parziali e occasionali degli obblighi erariali e previdenziali.
2.2. Con un secondo motivo di ricorso, si lamenta la violazione dell’art. 223, comma 2, n. 2, r.d. 267/1942, per carenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato.
In relazione all’elemento oggettivo, la difesa deduce l’inconsistenza dei dati su cui la condanna si fonda, ovvero:
-il rilevante debito erariale accumulato dalla società a partire dal 2005;
la bancarotta preferenziale ammessa dalla COGNOME, seppur non contestata;
-il conferimento di un ramo d’azienda nel marzo 2012 ad altra società, finalizzato a sottrarre il bene di maggior valore alle pretese erariali;
-una significativa contrazione dell’esposizione nei confronti degli istituti di credito, a seguito del detto conferimento.
In primo luogo, sarebbe fuorviante l’estrapolazione di una frase (l’affermazione dell’imputata di aver fatto fronte alla mancanza di liquidità pagando dipendenti e fornitori e “lasciando da parte l’Erario”) da dichiarazioni ben
più articolate. In realtà, la COGNOME, a causa della crisi del settore, aveva dovuto rateizzare, per continuare a lavorare, non solo i debiti erariali, ma anche quelli “nei confronti dei fornitori (non quello nei confronti dei dipendenti e dei fornitori gas ed energia elettrica, che al più avrebbero potuto tollerare qualche ritardo nei pagamenti)” (p. 11 ricorso).
La difesa sostiene che tali dichiarazioni non costituiscano un’ammissione di doloso e sistematico inadempimento dei debiti erariali, alla luce della giurisprudenza secondo cui non costituisce il delitto in oggetto l’evasione fiscale in sé, se dovuta a scelte gestionali rivelatisi ex post errate o a crisi di settore e, quindi, a comportamenti incolpevoli o anche solo colposi, bensì la causazione o l’aggravamento del dissesto attraverso specifiche scelte gestionali dolose finalizzate all’omissione sistematica degli adempimenti fiscali e previdenziali.
Nel caso in esame, inoltre, le sentenze di merito non avrebbero considerato se il debito erariale costituisse parte rilevante delle obbligazioni complessive: dato fondamentale per accertare la “sistematicità” dei mancati pagamenti erariali.
Con specifico riferimento all’accoglimento di diverse istanze di rateizzazione da parte di Equitalia, la dedotta “incapacità di attendere ai piani di rateizzazione” (menzionata a p. 9 della sentenza d’appello) era stata smentita sia dal commercialista della fallita, COGNOME sia dalla documentazione prodotta dalla difesa, attestante la regolarità dei pagamenti fino al fallimento, avvenuto su istanza di due dipendenti e non dell’Erario: tanto dimostrava la carenza di dolo in capo all’imputata.
Inoltre, la sentenza impugnata aveva definito “meramente valutativa” la prospettazione difensiva secondo cui il conferimento del ramo d’azienda, mai oggetto di azione revocatoria, non fosse volto a sottrarre il bene alle pretese erariali, come spiegato dalla stessa COGNOME all’assemblea della fallita: evidenziando che, essendo la cava sotto-utilizzata, si intendeva farla gestire ad un soggetto terzo, che meglio avrebbe potuto alienare i materiali sul mercato, anche a ditte concorrenti della cedente, a cui ben difficilmente esse si sarebbero rivolte.
Secondo il consulente tecnico di parte COGNOME, peraltro, tale decisione aveva consentito di salvaguardare la continuità aziendale e, nel contempo, non aveva indebolito la garanzia dei creditori, posto che RAGIONE_SOCIALE aveva ricevuto il 100% delle azioni della cessionaria RAGIONE_SOCIALE a fronte del conferimento: sicché, se prima di esso i creditori avrebbero potuto iscrivere ipoteca su immobili e terreni, successivamente avrebbero potuto procedere al pignoramento delle azioni di RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE, detenute dalla cedente, RAGIONE_SOCIALE
La sentenza impugnata, secondo cui la sostituzione del bene con le azioni avrebbe “indebolito” la garanzia dei creditori, avrebbe fatto un ragionamento
astratto, secondo la ricorrente.
Quanto all’elemento soggettivo, la difesa ribadisce che fosse pleonastico il richiamo contenuto nella sentenza di primo grado alla giurisprudenza in materia di “bancarotta riparata”, essendo pacifico che il concordato fallimentare non determini l’estinzione del reato.
La difesa evidenzia come la COGNOME, dopo aver rateizzato i debiti con l’Agenzia delle Entrate, aveva concluso il conferimento del ramo d’azienda e, dopo il fallimento, aveva concluso e dato integrale esecuzione alla proposta di concordato fallimentare presentata dal Fondo di RAGIONE_SOCIALE, grazie alla quale erano stati integralmente soddisfatti tutti i creditori privilegiati e, nella misura d 10%, quelli chirografari.
L’incidenza di tali circostanze sul dolo non sarebbe stata valutata dalla Corte d’appello.
Inoltre, la sentenza d’appello non aveva adeguatamente considerato la circostanza secondo cui, fino al giugno 2009, l’imputata era sprovvista di poteri di gestione della società, sicché, anche ammesso che l’operazione dolosa risalisse al 2005, una simile condotta non avrebbe potuto comunque esserle ascritta.
La Corte d’appello aveva ritenuto sufficiente, però, il dato formale della carica ricoperta, rilevando che, essendo ella presidente del consiglio d’amministrazione, aveva una “posizione preminente rispetto ai componenti del medesimo organo”, e quindi avrebbe dovuto effettuare il “controllo sull’esercizio delle deleghe”: ciò che, però, era in contrasto con quanto ripetutamente affermato dalla Suprema Corte riguardo alla necessità che le operazioni fossero riconducibili all’imputato amministratore della società poi fallita (si menziona Cass. 40791/2022).
2.3. Col terzo motivo, parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 62, n. 6, cod. pen. in relazione al mancato riconoscimento dell’attenuante dell’essersi adoperata per ridurre le conseguenze dannose del reato, mediante l’integrale adempimento del concordato fallimentare.
Si assume che l’attenuante sarebbe applicabile ai fatti consistenti in un’asserita condotta preferenziale del debitore nel pagamento di debiti diversi da quelli erariali.
La difesa sostiene che tale condotta, posta in essere prima del giudizio e su iniziativa dell’imputata (come dimostrato da una dichiarazione del legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, che attestava come fosse stata la COGNOME a prospettare il concordato), era la prova di un efficace ravvedimento operoso volto ad attenuare le conseguenze dannose del reato.
Il danno patrimoniale, secondo parte ricorrente, non potrebbe identificarsi, come ritenuto dalla Corte d’appello, con il passivo finale, ma, al più, con
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l’aggravamento del dissesto della società, per effetto dell’applicazione di interessi e sanzioni. In tale prospettiva, il mancato pagamento integrale dei crediti chirografari, in virtù del concordato, non avrebbe potuto essere d’ostacolo al riconoscimento dell’attenuante.
2.4. Col quarto motivo ci si duole della manifesta illogicità della motivazione in relazione alla determinazione della pena base e alla mancata concessione della massima riduzione per le attenuanti generiche.
La determinazione della pena base era avvenuta in misura superiore al minimo edittale in ragione della “macroscopica entità dei debiti erariali maturati nel periodo 2005/2012, mentre la mancata concessione della massima riduzione per effetto del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche era dipesa dalla gravità insita nella condotta di bancarotta preferenziale di cui alla cessione di ramo d’azienda, al mancato integrale pagamento dei debiti istituzionali ed alla mancata allegazione della riferibilità del fondo di investimento all’imputata.
Quanto al primo profilo, si ribadisce la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., ovvero il difetto di correlazione tra capo d’imputazione e condanna, essendosi considerati un periodo diverso da quello contestato ed i debiti erariali pregressi a detto periodo oggetto d’imputazione.
Quanto al secondo, si sottolinea il “corto circuito motivazionale” che avrebbe trasformato il conferimento del ramo d’azienda, per cui l’imputata non era stata condannata, in un riscontro positivo del dolo della bancarotta impropria, realizzata mediante una bancarotta preferenziale mai contestata.
La difesa precisa, poi, che la riduzione dei debiti con le banche derivava dal conferimento di ramo d’azienda e non costituiva una “operazione di refreshing dei debiti bancari”, a seguito di rinnovate linee di credito garantite dall’iscrizione ipotecaria, in quanto “i debiti verso istituti di credito integravano (nel passivo) ramo di azienda oggetto di conferimento”, come riscontrato dalle perizie del dott. COGNOME (p. 30 ricorso).
Viene ribadito che, per configurarsi la bancarotta preferenziale, sarebbe stato necessario provare il dolo di favorire un creditore a danno degli altri, cosa non avvenuta. E si contesta l’enfasi posta dal Tribunale sulla mancata integrale soddisfazione dei “crediti istituzionali”, sottolineando che la legge fallimentare non prevede deroghe a favore di tali creditori rispetto al principio della par condicio creditorum e all’ordine dei privilegi.
Quanto alla circostanza secondo cui la difesa nulla aveva allegato “in merito alla riferibilità del fondo d’investimento all’odierna imputata”, la stessa difesa ribadisce di aver prodotto, coi motivi d’appello, la dichiarazione di NOME COGNOME, legale rappresentante del fondo, e di aver richiesto una rinnovazione
parziale del dibattimento per la sua audizione. Tale richiesta, pur essendo stata ritenuta non necessaria dalla Corte d’appello ai fini dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 cod. pen., avrebbe dovuto essere considerata per valutare la legittimità dei criteri usati per negare la massima riduzione di pena.
La difesa conclude sostenendo esservi stata, sul punto, motivazione meramente apparente, che non si confrontava adeguatamente con le argomentazioni difensive.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Va accolto il secondo motivo di ricorso, laddove il primo è rigettato, in quanto infondato, e i restanti sono assorbiti.
1.1. Come anticipato, il primo motivo è infondato.
Il capo d’imputazione è così testualmente formulato: “delitto di cui all’art. 223 II comma n. 2 del R.D. n. 267/1942 perché, quale amministratore dal 19/05/2005 al 28/12/2012 della RAGIONE_SOCIALE c.f. p.iva P_IVA con sede in Firenze, dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Firenze in data 28/05/2015, cagionava per effetto di operazioni dolose il fallimento della RAGIONE_SOCIALE consistenti nel sistematico inadempimento delle obbligazioni tributarie, contributive e previdenziali (IVA, IREF, INPS, INAIL) debito che si accresceva e aumentava negli anni come di seguito indicato: da euro 354.973,79 del 2010, ad euro 478.494,71 del 2011 sino ad euro 586.004,16 del 2012, riportando alla data del fallimento un passivo fallimentare pari ad € 3.521.506,58 dei quali C 2.634.088,51 relativi a debiti erariali dei quali solo C 115.820,92 generati in data successiva al 31/12/2012″.
Orbene, come già evidenziato dai giudici di merito, il riferimento al periodo temporale in cui la ricorrente ha svolto il ruolo di amministratrice della fallita e, soprattutto, il fatto che il sistematico inadempimento non sia stato circoscritto al triennio dedotto da parte ricorrente, essendosi parlato, molto più genericamente, di “sistematico inadempimento delle obbligazioni tributarie, contributive e previdenziali”, senza specificare in alcun modo che ciò sarebbe avvenuto solo nel triennio 2010-2012, hanno il chiaro senso di indicare l’intero periodo in cui l’imputata ha rivestito il ruolo di amministratrice quale quello preso come parametro di riferimento. All’uopo, correttamente a p. 12 della sentenza di primo grado, si legge: “l’essenza della contestazione si esaurisce nella descrizione dell’operazione dolosa in termini di sistematico inadempimento alle obbligazioni tributarie e contributive, senza che la limitata specificazione delle annualità
interessate e l’errata indicazione dei debiti maturati possa dare luogo a possibili vizi in ordine ai difetto di correlazione tra accusa e sentenza”.
Dunque, il riferimento specifico del capo d’imputazione al menzionato triennio 2010-2012 è solo volto a indicare il periodo nel quale v’è stato un andamento ingravescente del debito tributario, che in tale periodo si manifestava nella sua peculiare sistematicità.
È tanto vero quanto detto, che i complessivi debiti erariali, pure indicati nel capo di imputazione, pari ad € 2.634.088,51, non corrispondono certo alla sommatoria di quelli indicati nel detto triennio: ciò che induce vieppiù a ritenere che la contestazione non potesse intendersi limitata a tale triennio, ma si estendesse all’intero periodo nel quale la COGNOME aveva fatto parte del consiglio d’amministrazione della fallita.
Del resto, poi, proprio la dedotta sistematicità dell’inadempimento tributario, necessaria al fine di configurare il reato contestato, rende palese come fosse proprio la parte finale della condotta omissiva posta in essere quella da cui ne emergevano gli elementi sintomatici e, dunque, quella maggiormente rimarcata nel capo di imputazione.
Per quanto questo faccia chiaro riferimento all’intero periodo in cui la COGNOME ha fatto parte del consiglio d’amministrazione della fallita, va, in ogni caso, ricordato il consolidato insegnamento di questa Corte, anche a Sezioni Unite, secondo cui, per aversi mutamento del fatto occorre la trasformazione radicale degli elementi essenziali della fattispecie concreta, nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, tale, cioè, da configurare un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale, e non meramente teorico, pregiudizio dei diritti della difesa. Sicché, non basta il mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza, perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, COGNOME, Rv. 248051-01; Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di NOME, Rv. 205619-01; Sez. 5, n. 37461 del 22/09/2021, Rv. 281930-01).
La violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza è ravvisabile nel caso in cui il fatto ritenuto nella decisione si trovi, rispetto a quel contestato, in rapporto di eterogeneità, ovvero quando, non solo il capo d’imputazione non contenga l’indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, ma questi non siano desumibili neppure dalle risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che debbono ritenersi oggetto di sostanziale contestazione (Sez. 2, n. 21089 del 29/03/2023, COGNOME, Rv.
284713-02; Sez. 5, n. 1169 del 9/11/2023, dep. 2024, non massimata).
Insomma, il principio di correlazione tra imputazione e sentenza risulta violato quando nei fatti, rispettivamente descritti e ritenuti all’esito dell’istrutto nel contraddittorio tra le parti, non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, in rapporto di eterogeneità ed incompatibilità, rendendo per l’imputato impossibile difendersi (così Sez. 3, n. 7146 del 04/02/2021, Rv. 281477-01, sul mutamento, rispetto alla contestazione, del dato qualitativo e quantitativo della sostanza stupefacente detenuta a fini di cessione; confronta, negli stessi termini: Sez. 5, n. 36157 del 30/04/2019, Rv. 277403-01, sulla riqualificazione del furto in ricettazione e viceversa; Sez. 2, n. 12328 del 24/10/2018, dep. 2019, Rv. 276955-01, in tema di mutamento dell’entità delle somme oggetto di tentata estorsione; Sez. 5, n. 33878 del 03/05/2017, Rv. 271607-01, sulla riqualifica della bancarotta fraudolenta documentale in bancarotta documentale semplice; Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015, dep. 2016, Rv. 265946-01, in tema di condanna per associazione a delinquere più ampia di quella originariamente contestata; Sez. 4, n. 41663 del 25/10/2005, Rv. 232423-01, nel caso di condanna per lesioni colpose anziché dolose oggetto d’accusa; Sez. 3, n. 15655 del 27/02/2008, Rv. 239866-01, in un caso di condanna per omicidio colposo per condotta omissiva – mancato ripristino della segnaletica – a fronte della contestazione circa la sua rimozione).
Il dato comune di siffatte ipotesi è che il fatto contestato è risultato, a seguito dell’istruttoria svolta in contraddittorio con chi ne era imputato, solo parzialmente difforme da quanto contestato, senza stravolgimento del suo nucleo essenziale, e, a volte, oggetto di mera difforme riqualifica: ma, proprio perché si tratta di originaria ipotesi accusatoria da vagliare all’esito dell’istruttoria in contraddittori tra le parti, che non risulti radicalmente mutata, mantenendo un nucleo essenziale oggetto di iniziale contestazione, non può dirsi che siano lesi i diritti di difesa e che il condannato sia posto di fronte ad una condanna per un fatto completamente avulso dall’originaria imputazione.
Nella specie, come anzidetto e già osservato dalla Corte territoriale (pagine 9-10 sentenza d’appello), l’istruttoria si è chiaramente incentrata, sin dal primo grado, sugli anni 2005-2012: e tanto si desume pure dalla sentenza del Tribunale. Tanto che parte ricorrente sin dal suo appello (si vedano le pagine 11 e seguenti dello stesso), si duole dell’ipotizzata estensione dell’accusa.
In definitiva, il capo d’imputazione è stato interpretato correttamente e, in ogni caso, essendo emerso sin dal primo grado che il periodo di riferimento fosse dal 2005 al 2012, l’imputata ha certamente avuto ampie possibilità di difesa, sin da tale grado: senza alcun pregiudizio – invero neppure addotto, in concreto, non
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essendosi prospettate questioni la cui contestazione sarebbe stata preclusa – per il suo diritto di difesa.
Quanto precede, infine, fa perdere di qualsivoglia rilievo anche l’affermazione secondo cui la passività riferibile al solo triennio contestato (circa C 338.000, a dire di parte ricorrente) avrebbe potuto essere ritenuta compatibile con l’andamento economico aziendale dell’epoca: ovvero non di entità tale da potersi dire non fisiologica e dolosamente preordinata alla sistematica violazione degli obblighi tributari e verso l’Erario in genere.
1.2. Il secondo motivo di ricorso è fondato, nei termini di seguito precisati.
Alcuni degli argomenti difensivi, non possono essere condivisi.
L’affermazione dell’imputata di aver fatto fronte alla mancanza di liquidità pagando, anzitutto, dipendenti e fornitori di energia elettrica e gas (che non avrebbero tollerato sospensioni di pagamento, interrompendo le essenziali controprestazioni) “lasciando da parte l’Erario” e gli altri fornitori, non può dirs illogicamente valorizzata, dai giudici di merito. Così come il correlato argomento che fa leva sulla valorizzazione (già nella sentenza di primo grado, a p. 8) della “incidenza dei crediti istituzionali sul passivo fallimentare”, pari all’86,16%.
Tanto è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la qualificazione di operazione dolosa è data dal protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente l’esposizione nei confronti degli enti previdenziali e dell’Erario, rende prevedibile il conseguente dissesto della società (Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Rv. 261684; Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, dep. 2017, Rv. 270046; Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014, Rv. 260492; Sez. 5, n. 35093 del 04/06/2014, Rv. 261446; Sez. 5 n. 12426 del 29/11/21013, dep. 2014, Rv. 259997; Sez. 5, n. 17355 del 12/03/2015, Rv. 264080; Sez. 5, n. 16111 del 08/02/2024, Rv. 286349-01).
E non pare illogica neppure la valorizzazione del conferimento del ramo d’azienda, spiegata dalla COGNOME per esser la cava utilizzata meno del possibile, con ciò intendendosi farla gestire ad un soggetto terzo, che meglio avrebbe potuto alienare i materiali sul mercato, anche a ditte concorrenti della cedente, a cui ben difficilmente esse si sarebbero rivolte: laddove, però, è pacifico che le azioni della cessionaria fossero in possesso comunque della cedente, sicché non si vede come possa sostenersi detta “terzietà” in capo alla prima.
Né pare incongruo l’argomento secondo cui ben diversa è la possibilità di pignorare direttamente un immobile, rispetto a quella di pignorare le azioni della società che quell’immobile detiene: essendo evidente che il valore di queste ultime non possa non risentire proprio (ed anche) dei gravami (ipoteche, pignoramenti)
sussistenti sul menzionato immobile, specie ove costituisca il principale “asset” aziendale.
Tuttavia, è evidente che, seppur correttamente (come chiarito nel trattare il primo motivo di ricorso) i giudici di merito abbiano fatto riferimento all’intero periodo oggetto di imputazione, lo stesso è, però, divisibile in due parti: la prima, chiusasi nel giugno 2009, in cui la COGNOME era solo presidente del consiglio di amministrazione della fallita, senza delega alcuna e, anzi, mentre v’era delega ad occuparsi (anche) del pagamento delle imposte in capo ad un altro soggetto; la seconda, relativa al periodo immediatamente successivo, in cui l’imputata è rimasta l’unica ad amministrare la fallita.
In particolare, sia nel capo di imputazione che nelle sentenze di merito si fa riferimento, come detto, al complessivo debito cumulato dalla fallita e, soprattutto, alla (rilevante) incidenza percentuale dei debiti istituzionali su di esso.
Sennonché, a fronte della censura che rimarcava, come detto, l’assenza di poteri gestori in capo all’imputata in relazione al primo periodo anzidetto (20052009), la sentenza d’appello ha fornito una risposta del tutto carente, rispetto ai parametri dettati da questa Corte.
Secondo la Corte territoriale, infatti, la mera carica di presidente del consiglio di amministrazione dal giugno 2005 al 12/6/2009, pur in presenza di altri due consiglieri delegati, uno dei quali con poteri amplissimi di gestione finanziaria della società, sarebbe sufficiente a renderla responsabile delle omissioni di pagamento, sebbene in detto periodo la stessa risultasse “sprovvista di concreti poteri di gestione finanziaria della società”, trattandosi, comunque, di “posizione preminente rispetto ai componenti del medesimo organo, quindi dotata di un potere-dovere di vigilanza e controllo sull’esercizio delle deleghe”, “non potendo pertanto ignorare l’ammontare complessivo dei debiti maturati nei confronti delle istituzioni”, da un lato, né potendo ignorare ulteriormente i debiti erariali pregressi accumulati dalla società allorché, nel periodo susseguente, divenuta sua amministratrice unica, dall’altro lato (p.11 sentenza d’appello). E tanto, pur ammettendosi che, “nel periodo della ‘gestione Pesci’ la Società abbia pagato debiti erariali per una quota significativa dei debiti fiscali maturati” (come da consulenza di parte): ciò che, però, secondo la Corte d’appello, confermava il precedente “sistematico inadempimento” e, dunque, la “strategia intrapresa di ricorrere al finanziamento dell’attività sociale attraverso il mancato adempimento dei debiti erariali”, tanto da “non poter più soddisfare regolarmente gli adempimenti”, in un’unica ed integrale soluzione, si deve ritenere (così ancora la sentenza d’appello alle pagine 11-12).
Orbene, è evidente come il ragionamento sia, in primis, del tutto carente e,
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comunque, in palese violazione dei principi di diritto stabiliti da questa Corte in materia di attribuzione delle responsabilità per i reati di bancarotta solo a chi risulti avere quei poteri gestori sottesi agli atti che ne costituiscano il substrato: finendo per essere, nel contempo, anche manifestamente illogico, laddove attribuisce dette responsabilità a chi abbia, per contro, provato ad invertire il modus operandi oggetto della detta condotta criminosa, allorché ne ha acquisito il potere.
Questa Corte, invero, anche recentemente ha avuto modo di ribadire che, in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, il concorso per omesso impedimento dell’evento dell’amministratore privo di delega è configurabile quando, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle condotte illecite tenute dai consiglieri operativi in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell’effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di “segnali di allarme” inequivocabili dai quali desumere, secondo i criteri propri del dolo eventuale, l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento illecito e, dall’altro, della volontà, nella forma d dolo indiretto, di non attivarsi per scongiurare detto evento, dovendosi infine accertare, sulla base di un giudizio prognostico controfattuale, la sussistenza del nesso causale tra le contestate omissioni e le condotte delittuose ascritte agli amministratori con delega (Sez. 5, n. 33582 del 13/06/2022, Rv. 284175-01).
Tanto, al fine di «evitare che siano pronunciate condanne basate su una responsabilità di posizione ovvero fondate su un rimprovero per colpa anziché per dolo, come richiesto per l’integrazione delle fattispecie di bancarotta di cui agli artt. 216 e 223 L.F.»: non essendo, pertanto, sufficiente, ai fini dell’affermazione di responsabilità, «la presenza di dati (c.d. segnali d’allarme) da cui desumere un evento pregiudizievole per la società o almeno il rischio della verifica di detto evento», essendo «necessario che il consigliere privo di delega ne sia concretamente venuto a conoscenza e sia rimasto volontariamente inerte così avallando le condotte mendaci o distrattive degli amministratori dotati di deleghe». Insomma, «la sussistenza di fattori di anomalia evidenti, se comporta in chi li colse un chiaro addebito per colpa, finanche grave, non consente di affermare, oltre ogni ragione le dubbio, che l’inerzia, ciò nonostante serbata, da parte di chi sarebbe stato tenuto ad attivarsi – nel caso di specie, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2381, comma 6, e 2392 cod. civ. – sia ex se espressiva della volontaria adesione all’evento pregiudizievole, rappresentato dalla condotta criminosa altrui, il cui concreto verificarsi si sia affacciato nella prospettiva conoscitiva del soggetto agente che ne abbia accettato il rischio» (in tal senso, ancora Sez. 5, n. 33582 del 13/06/2022, Rv. 284175-01, in motivazione, nel menzionare adesivamente Sez. 5, n. 23000 del 05/10/2012, dep.
2013, Rv. 256939-01).
Tanto perché gli amministratori senza delega, alla luce della riforma del diritto societario, non hanno più un generale obbligo di vigilanza sulla gestione attuata dagli organi delegati, atteso che l’art. 2392, comma 2, cod. civ. non prevede più che siano «solidalmente responsabili se non hanno vigilato sul generale andamento della gestione», ma che lo siano solo ove, «a conoscenza di fatti pregiudizievoli», non abbiano «fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose».
Né ciò vale meno per il presidente del consiglio di amministrazione, il quale, salvo diversa previsione dello statuto, ai sensi dell’art. 2381, comma 1, cod. civ., «convoca il consiglio di amministrazione, ne fissa l’ordine del giorno, ne coordina i lavori e provvede affinché adeguate informazioni sulle materie iscritte all’ordine del giorno vengano fornite a tutti i consiglieri»: ovvero può ben essere, ove pure (in ipotesi) per colpa, ignaro delle specifiche condotte illecite poste in essere da altri amministratori, a maggior ragione laddove, come nella specie, essendovi amministratori delegati, sia a loro demandata ogni concreta gestione dell’attività societaria, ivi inclusa, in particolare, quella finanziaria.
In definitiva, in tale situazione fattuale la Corte territoriale omette del tutto di chiarire in base a quali elementi probatori possa affermarsi che la COGNOME sia concretamente venuta a conoscenza che i debiti verso l’Erario venissero sistematicamente pretermessi a vantaggio di altri creditori, nel periodo in cui non aveva alcun concreto potere gestorio, appannaggio di altri soggetti. Né specifica come e perché possa attribuirsi, ad un piano di rientro rateizzato, lo scopo di portare innanzi siffatta politica finanziaria e come, dinanzi all’enorme debito erariale cumulato dalle pregresse gestioni, l’imputata avrebbe potuto far diversamente fronte alla situazione determinatasi: essendo manifestamente illogico ritenere che la stessa fosse tenuta, salvo il suo concorso nel reato nelle more commesso da altri, a fare immediato rientro.
Insomma, la Corte d’appello, in sede di rinvio, dovrà necessariamente far luce su tali aspetti, di modo da acclarare, e naturalmente adeguatamente motivare, se vi fosse, sulla base degli elementi in atti (analizzando, ad esempio, eventuali verbali del consiglio d’amministrazione e le tematiche emerse in siffatto consesso), in capo all’imputata e nel periodo in cui era solo presidente del consiglio d’amministrazione della società poi fallita, senza poteri gestori, l’effettiva conoscenza dei fatti in contestazione (ovvero di sistematico inadempimento nel pagamento dei debiti istituzionali) o, almeno, la sua certa percezione di segnali di allarme inequivocabili, dalla stessa volutamente ignorati, con accettazione del rischio che l’evento di bancarotta poi determinatosi si verificasse: scongiurando,
così, il pericolo di un addebito per colpa (inettitudine, incapacità o imprudente fiducia dell’imputata nell’agire dei delegati) o, addirittura, per responsabilità
oggettiva da posizione, pacificamente escluso dalla giurisprudenza più recente di
Sez. 1, n. 14783 del 09/03/2018, Rv. 272614-01; Sez. 5, questa Corte
(ex multis n. 42568 del 19/06/2018, Rv. 273925-04; Sez. 5, n. 23000 del 05/10/2012, dep.
2013, Rv. 256939-01, in tema di bancarotta impropria da reato societario).
Laddove non vi siano siffatti elementi, e non possano valorizzarsi gli ulteriori quello dell’incidenza dei crediti istituzionali sul passivo
dati emersi
(in primis, fallimentare nel periodo 2005-2012), la Corte territoriale dovrà necessariamente
porsi il problema della eventuale sufficienza delle condotte tenute dall’imputata una volta divenuta amministratrice della società de qua ad integrare, comunque,
il delitto contestato, in ogni suo elemento, oggettivo e soggettivo.
1.3. Le ulteriori doglianze restano evidentemente assorbite, dipendendo dalla decisione demandata al giudice d’appello.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Firenze.
Così è deciso, 18/03/2025
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ALLONE GLYPH
Il Presidente
NOME
A31GELO 970
CORTE DI CASSAZIONE V SEZIONE PENALE