Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 4814 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5   Num. 4814  Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 26/10/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME NOME PIEVE DEL CAIRO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 13/03/2023 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
1 Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Milano confermava la sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Pavia, in data 2.3.2021, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condanNOME COGNOME NOME alle pene, principale e accessorie, ritenute di giustizia, in relazione ai fatti di bancarotta preferenziale ascrittigli al capo a) dell’imputazione, in qualità di amministratore della società “RAGIONE_SOCIALE“, dichiarata fallita dal tribunale di Pavia con sentenza del 14.9.2018.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, lamentando: 1) violazione di legge, per avere la corte territoriale pretermesso di considerare che i pagamenti in contestazione sono stati eseguiti per salvaguardare le attività sociali, consentendo di completare gli appalti in corso con innegabile vantaggio per le ragioni del ceto creditorio, in quanto l’azienda è rimasta viva e operante, tanto da essere affittata subito dopo il fallimento, circostanze tutte che escludono la configurabilità di un dolo specifico di danno in capo al COGNOME; 2) vizio di motivazione, posto che, come si è detto, i pagamenti sono stati effettuati non al fine di liquidare la società, ma allo scopo di consentire la prosecuzione dell’attività di impresa, come dimostrato dalla circostanza che non è intervenuta alcuna liquidazione, ma, al contrario, affitto e prosecuzione dell’azienda si sono verificati anche dopo il fallimento, come accertato nell’allegato n. 11 alla relazione del curatore fallimentare, documento non considerato dalla corte territoriale.
Tale obiettivo, osserva il ricorrente, è stato raggiunto proprio attraverso il pagamento di quei creditori che con le azioni esecutive individuali avrebbero potuto aggredire il patrimonio della società, nonché per mezzo della conclusione degli appalti avviati, pagando lo stretto necessario ai lavoratori e ai fornitori.
3. Con requisitoria scritta del 2.10.2023 il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, dott.ssa NOME COGNOME, chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile.
7dt
Con conclusioni del 20.10.2023 i difensori di fiducia del COGNOME, AVV_NOTAIO e AVV_NOTAIO, nel replicare alla requisitoria del pubblico ministro, ministero, insistono per l’accoglimento del ricorso, evidenziando come nel caso in esame difettino la tipicità del reato in contestazione, l’offensività della condotta dell’imputato e il dolo specifico.
Il ricorso va dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.
 Il ricorrente, invero, non tiene nel dovuto conto che, in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482).
Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, anche a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., dalla legge n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.
In questa sede di legittimità, dunque, è precluso i I percorso argomentativo seguito dal ricorrente, che si risolve in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di un’operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, persistendo il divieto di rilettura e di reinterpretazione nel merito degli elementi di prova (cfr. ex plurimis, Sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758; Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370).
In altri termini, il dissentire dalla ricostruzione compiuta dai giudici di merito e il voler sostituire ad essa una propria versione dei fatti, costituisce una mera censura di fatto sul profilo specifico dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, anche se celata sotto le vesti di pretesi vizi di motivazione o di violazione di legge penale, in realtà non configurabili nel caso in esame, posto che il giudice di secondo grado ha fondato la propria decisione su di un esaustivo percorso argomentativo, contraddistinto da intrinseca coerenza logica.
Come precisato dalla giurisprudenza di legittimità in un condivisibile arresto il ricorso per cassazione con cui si lamenta la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l’omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugNOME ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma deve, invece, a) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugNOME (cfr. Sez. 3, n. 2039 del 02/02/2018, Rv. 274816).
Tali necessari passaggi argomentativi non si rinvengono nel ricorso di cui si discute, con il quale, in definitiva, il ricorrente si limita a proporre, come già detto, una versione dei fatti alternativa, senza indicare puntualmente l’atto o gli atti processuali, non considerati o malamente interpretati, in grado, non di fondare una diversa interpretazione dei fatti, astrattamente plausibile, ma di inficiare radicalmente il percorso motivazionale seguito dai giudici di merito.
La corte territoriale, del reato, ha reso una congrua motivazione, che non può certo ritersi manifestamente illogica, né contraddittoria.
Al riguardo si osserva che da tempo risalente la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato, con orientamento mantenutosi costante nel corso del tempo, come l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta preferenziale (art. 216, comma terzo, L. fall.) sia costituito dal dolo specifico, ravvisabile ogni qualvolta l’atteggiamento psicologico del soggetto agente sia rivolto a favorire un creditore, riflettendosi contemporaneamente, anche secondo lo schema tipico del dolo eventuale, nel pregiudizio per altri (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 31894 del 26/06/2009, Rv. 244498; Sez. 5, n. 592 del 04/10/2013, Rv. 258713; Sez. 5, n. 673 del 21/11/2013, Rv. 257963; Sez. 5, n. 26412 del 26/04/2022, Rv. 283526).
Partendo dalla condivisibile affermazione che la bancarotta preferenziale, sul piano oggettivo, richieda la violazione della “par condicio creditorum” nella procedura fallimentare e, sul piano soggettivo, la ricorrenza della forma peculiare del dolo, costituito dalla volontà di recare un vantaggio al creditore (o ai creditori) soddisfatto, con l’accettazione dell’eventualità di un danno per altri, finalità che deve risultare primario interesse perseguito dal debitore, si è, inoltre, sottolineato, sempre con costante orientamento, che di conseguenza la strategia di alleggerire la pressione dei creditori, in vista di un ragionevolmente presumibile riequilibrio finanziario e patrimoniale, è incompatibile con il delitto, soprattutto alla luce della riforma, introdotta dal D.L.vo 269 del 2007, dell’azione revocatoria e specialmente dell’art. 67, comma terzo, L. fall.
In conclusione il dolo della bancarotta preferenziale non è configurabile nel caso in cui il pagamento effettuato in favore del creditore o dei creditori soddisfatti sia volto, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia della attività sociale o imprenditoriale ed il risultato di evitare il fallimento possa ritenersi più che ragionevolmente perseguibile (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 31168 del 20/05/2009, Rv. 244490; Sez. 5, n. 16983 del 05/03/2014, Rv. 262904).
Orbene, la corte di appello ha reso una decisione assolutamente in linea con i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte.
Incontestata, sotto il profilo oggettivo, la violazione della “par condicio creditorum”, in quanto in una situazione di crisi economica manifestatasi già nel 2014, la società fallita aveva proceduto, tra il febbraio e il luglio del 2018, al pagamento di una serie di creditori chirografari, pur in presenza di debiti verso creditori privilegiati, tra i quali erano ricompresi quelli per il trattamento di fine rapporto e per le imposte, non più versate a far data dal 2016 (cfr. pp. 1-3 della sentenza di appello), resta del tutto indimostrato che i pagamenti effettuati in favore delle numerose società creditrici indicate nel capo d’imputazione, fossero volti, in via esclusiva o prevalente, alla salvaguardia della attività sociale o imprenditoriale di “RAGIONE_SOCIALE“.
Risulta, del pari, indimostrato che, nel momento in cui vennero effettuati i menzionati pagamenti, il risultato di evitare il fallimento potesse ritenersi più che ragionevolmente perseguibile, posto che tale assunto risulta smentito, come ha rilevato la corte territoriale con argomentazione dotata di intrinseca coerenza logica, dalla “stretta consequenzialità degli eventi: i pagamenti sono stati effettuati nel corso del 2018 proprio nella piena consapevolezza del dissesto, ai soii fini liquidatori in vista del successivo deposito di un ricorso per la richiesta di fallimento”, avvenuto ad opera dello stesso COGNOME, il quale, nell’agosto del 2018, dunque in un momento immediatamente successivo alla conclusione dei pagamenti preferenziali, “ebbe a richiedere il fallimento in proprio” (cfr. p. 4 della sentenza di appello).
Una così stretta connessione cronologica tra pagamenti preferenziali e richiesta di fallimento da parte dell’imputato, in altri termini, esclude in radice che nel momento in cui i pagamenti furono effettuati fosse ragionevolmente prevedibile da parte del COGNOME conseguire il risultato di evitare il fallimento.
A fronte di tale limpido percorso motivazionale, le censure difensive appaiono, pertanto, non solo versati in fatto, rappresentando la 2 prosecuzione dell’attività di impresa dopo la dichiarazione di fallimento 7 ,
peraltro, un mero post factum rispetto alla consumazione del reato del tutto irrilevante, ma anche manifestamente infondate.
6. Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento ed, in favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo fissare in euro 3000,00 euro, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest’ultimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000). 
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il GLYPH .10.2023.