Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 7393 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 7393 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a BOLOGNA il 29/07/1954
avverso la sentenza del 12/01/2024 della CORTE APPELLO di BOLOGNA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME
che ha concluso chiedendo udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Bologna confermava la sentenza con cui il tribunale di Bologna, in data 14.9.2020, aveva condannato COGNOME alle pene, principale e accessorie, ritenute di giustizia, oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile, in relazione ai fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, di bancarotta fraudolenta di cui all’art. 223, co. 2, n. 2), I.fall., e di bancarotta fraudolenta documentale, in rubrica ascrittigli in concorso con COGNOME NOME, in qualità di amministratore unico dall’11.12.2006 alla data del fallimento e socio con partecipazione al 90% del capitale sociale della società “RAGIONE_SOCIALE , dichiarata fallita dal tribunale di Bologna in data 19.2.2013.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, articolando tre motivi di ricorso, con cui lamenta: 1) violazione di legge e illogicità della motivazione con riferimento al reato di bancarotta fraudolenta impropria da operazioni dolose. Sostiene al riguardo il ricorrente che, quanto al contratto di leasing immobiliare del 12 febbraio 2017 stipulato dalla società fallita “RAGIONE_SOCIALE“, il compendio probatorio acquisito non consentiva minimamente di ritenere prevedibile che sarebbe venuta meno la capacità economica di quest’ultima e, quindi, l’impossibilità di adempiere al pagamento delle rate del leasing. Ciò era evidente ove si fosse adeguatamente considerato che due precedenti operazioni di compravendita immobiliare, pure compiute dai germani COGNOME con l’intervento di una società di leasing, erano andate a buon fine. COGNOME nel momento in cui, quale amministratore della società fallita, si era apprestato a stipulare il terzo contratto di leasing, non si rappresentava affatto l’eventualità del calo della redditività del proprio studio di consulenza del lavoro, indicato come uno dei motivi per i quali veniva interrotto il pagamento dei canoni del subaffitto in favore della società fallita, con conseguente impossibilità di adempiere al pagamento delle rate da questa dovute alla società di
leasing. La solida capacità patrimoniale dell’imputato nel 2007 era comprovata dalla consulenza tecnica di parte in atti in atti e dalla circostanza dell’avvenuto versamento sia della maxi-rata iniziale, che di successive trentaquattro rate del leasing per gli anni 2007-2008, per un importo complessivo di oltre un milione e mezzo di euro. La motivazione della corte di appello si presenta contraddittoria ed illogica nella parte in cui afferma che la stipulazione del contratto di leasing era avvenuta con la finalità di lucrare plusvalenze immobiliari, sotto il riparo dello schermo giuridico della società di capitali, asservita totalmente agli scopi individuali del COGNOME. Il dato era contraddetto dalla circostanza che il COGNOME, per tale contratto di leasing, aveva prestato la fideiussione personale propria e della moglie, per l’intero importo del contratto. Quanto al contratto di subaffitto avente ad oggetto la sede sociale della società fallita intercorso tra quest’ultima (concedente) e lo studio di consulenza del lavoro facente capo al ricorrente (conduttore), non si era tenuto conto del fatto che, il pagamento dei canoni da parte di COGNOME, costituiva la forma attraverso la quale questi finanziava la società fallita, per cui tale operazione non rappresenta un ulteriore elemento a riprova dell’asservimento della società fallita agli interessi personali dell’imputato. I due interessi, in realtà, coincidevano e convergevano nel momento in cui venivano realizzate le due operazioni commerciali di leasing e subaffitto menzionate nel punto b) dell’imputazione, operazioni alle quali invece, ove correttamente lette sulla scorta delle deduzioni già articolate nel giudizio di appello, non poteva attribuirsi natura dolosa o espressiva di condotta antidoverosa dell’amministratore; 2) illogicità e apparenza della motivazione con riferimento alla mancata derubricazione di tutti i fatti contestati in ipotesi di bancarotta societaria semplice colposa. Riguardo al punto b) dell’imputazione, la corte territoriale, procedendo nel solco argonnentativo tracciato nell’esposizione dei motivi di affermazione della responsabilità per tale ipotesi di reato, ravvisava nella complessiva operazione commerciale contestata la volontà di creazione di un guscio vuoto (la società) totalmente dipendente da RAGIONE_SOCIALE e quindi esposto a dissesto ove
la situazione di costui fosse peggiorata, come effettivamente accaduto. Il ricorrente ribadisce, invece, il contesto di base lecito entro il quale l’operazione era stata condotta: l’interposizione di una società di scopo (“RAGIONE_SOCIALE“) nella stipulazione di un contratto di leasing immobiliare per ottenere un significativo e lecito risparmio fiscale, agganciato ad un contratto di locazione commerciale tra la “RAGIONE_SOCIALE” e lo studio di consulenza del lavoro del Fiocchi stesso per fornire alla prima la provvista per il pagamento dei canoni del leasing. Se si fosse concordato sul contesto lecito nel quale era avvenuta la stipulazione del contratto di leasing, si sarebbe potuti giungere alla conclusione che COGNOME era stato al massimo negligente, e dunque in colpa, per non aver gestito adeguatamente la propria individuale crisi finanziaria, per aver omesso di rinegoziare il leasing e di chiedere il proprio fallimento quando essa cominciò a manifestarsi e non aver adeguatamente vigilato sulla tenuta della contabilità da parte del proprio fratello NOME. Anche riguardo alla bancarotta per distrazione, illogiche erano le conclusioni cui era giunto il collegio per affermarne la sussistenza poiché si era affermato che il COGNOME avrebbe dovuto agire contro sé stesso, ciò che rappresenta un comportamento, tipicamente, non esigibile mentre era da escludere che il mancato pagamento dei canoni di subaffitto fosse stato la causa del dissesto; 3) mancanza o apparenza della motivazione riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Per negarne il riconoscimento, rileva il ricorrete, la corte territoriale ha valorizzato la strumentalità – asserita apoditticamente della denuncia di furto delle scritture contabili a 24 ore dalla scadenza del termine per il deposito delle stesse; la volontà del COGNOME di “scaricare” la responsabilità dell’omessa tenuta contabilità sul fratello NOME, non considerando una dichiarazione manoscritta di quest’ultimo che se ne attribuiva la responsabilità. Al contrario, non erano stati valorizzati elementi di favore specifici, articolati dall’imputato in appello, e, in particolare, la sofferenza data dalla pendenza del processo, meno sopportabile per l’imputato, stimato professionista; la
manifestata disponibilità a collaborare col curatore fallimentare; l’incensuratezza.
Con requisitoria scritta del 24.10.2024 il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, dott.ssa NOME COGNOME> COGNOME GLYPH chiede che GLYPH il GLYPH ricorso venga GLYPH dichiarato inammissibile.
Con conclusioni scritte del 7.11.2024, il difensore dell’imputato insiste per l’accoglimento del ricorso.
Il ricorso non può essere accolto, essendo sorretto da motivi in parte inammissibili, in parte infondati, dovendosi ribadire il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui l’obbligo di motivazione del giudice dell’impugnazione (compreso il giudice di legittimità, dunque) non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell’atto d’impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio, sicché, quando ricorre tale condizione, le argomentazioni addotte a sostegno dell’appello, ed incompatibili con le motivazioni contenute nella sentenza, devono ritenersi, anche implicitamente, esaminate e disattese dal giudice, con conseguente esclusione della configurabilità del vizio di mancanza di motivazione di cui all’art. 606, comma primo, lett. e), c.p.p. (cfr., in questo senso, Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Rv. 260841; Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, Rv. 277593).
Tanto premesso, inammissibile, in particolare, appare il primo motivo di ricorso.
Il ricorrente, invero, non tiene nel dovuto conto che in tema di giudizio di cassazione sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal
giudice del merito (cfr., ex plurimis, Sez. U, n. 22242 del 27/01/2011 Rv. 249651; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482).
E invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, anche a seguito della modifica apportata all’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., dalla legge n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di Cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.
In questa sede di legittimità, infatti, è precluso il percorso argomentativo seguito dal ricorrente, che si risolve in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758; Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370).
In altri termini, il dissentire dalla ricostruzione compiuta dai giudici di merito e il voler sostituire ad essa una propria versione dei fatti, costituisce una mera censura di fatto sul profilo specifico dell’affermazione di responsabilità dell’imputato, anche se celata sotto le vesti di pretesi vizi di motivazione o di violazione di legge penale.
Sotto altro, concorrente profilo, si osserva che il primo motivo di ricorso si risolve nella pedissequa reiterazione di censure già dedotte in appello e puntualmente disattese dalla corte di merito, con la cui motivazione l’imputato non si confronta compiutamente, dovendosi, per tale ragione, le stesse considerare non specifiche, ma apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Rv. 277710).
Ciò posto appare opportuno ribadire i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in sede di interpretazione della previsione normativa di cui all’art. 223, comma secondo, n. 2), I.fall.
Si è da tempo evidenziato, infatti, che, in tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose di cui all’art 223, comma secondo, n. 2, I. fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 47621de1 25/09/2014, Rv. 261684; Sez. 5, n. 12945 del 25/02/2020, Rv. 279071; Sez. 5, n. 846 del 04/10/2022, Rv. 284015).
Si è chiarito, altresì, come, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta impropria prevista dall’art. 223, secondo comma, n. 2, R.D. 16 maggio 1942, n. 267, non interrompano il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento, costituito dal fallimento della società, né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente del dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41, c.p., né il fatto che l’operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto, poiché la nozione di fallimento, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara, è ben distinta da quella di dissesto, la quale ha natura economica ed implica un fenomeno in sé (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 8413 del 16/10/2013, Rv. 259051; Cass., Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Rv. 262189).
Sotto il profilo dell’elemento psicologico del reato, infine, si è opportunamente sottolineato come, in tema di bancarotta fraudolenta impropria, nell’ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di
reato sia configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa (cfr. Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, Rv. 265510).
Sostanziandosi il fallimento determinato da operazioni dolose, in un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l’onere probatorio dell’accusa, come è stato opportunamente rilevato, si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà dell’amministratore della complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i propri doveri a fronte degli interessi della società, nonché dell’astratta prevedibilità dell’evento di dissesto quale effetto dell’azione antidoverosa, non essendo invece necessarie la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare (cfr. Cass., Sez. 5, n. 38728 del 3/04/2014, Rv. 262207).
Pertanto, ai fini della configurabilità della bancarotta impropria da operazioni dolose, non deve risultare dimostrato il dolo specifico diretto alla causazione del fallimento, ma solo il dolo generico, ossia la coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come conseguenza della condotta antidoverosa (cfr. Sez. 5, n. 16111 del 08/02/2024, Rv. 286349).
Orbene la corte territoriale ha reso una decisione del tutto conforme ai menzionati principi, di cui dimostra di avere assoluta contezza, attraverso opportuni richiami all’elaborazione della giurisprudenza di legittimità in materia, non sufficientemente meditati dal ricorrente.
L’operazione qualificata come fatto di bancarotta impropria non è contestata nella sua materialità dall’imputato, che si era avvalso del medesimo schema negoziale anche in precedenti occasioni.
Si tratta, in particolare, di un negozio complesso, in virtù del quale la società fallita, in data 12.2.2007, aveva stipulato un contratto di leasing immobiliare con la società “RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE“, poi trasformatasi in “RAGIONE_SOCIALE“, per un costo complessivo di euro 6.048.724,42, da rimborsare mediante la corresponsione, oltre che di un canone iniziale di
315.000,00 euro, di 179 rate mensili dell’importo di euro 32.031,98, legando la corresponsione dei suddetti canoni ai corrispondenti incassi derivanti dal preordinato subaffitto dell’immobile oggetto del leasing allo studio di consulenza del lavoro di cui era titolare il COGNOME
Tale schema negoziale avrebbe consentito al Fiocchi di conseguire vantaggi fiscali, attraverso la detrazione da parte delle persone giuridiche a lui facenti capo, tra cui, da ultima, la “RAGIONE_SOCIALE“, del 100% delle rate di leasing, ma soprattutto di lucrare le plusvalenze incamerate tramite le stesse società per effetto dei progressivi incrementi di valore dell’immobile oggetto di leasing, destinato, come nelle precedenti operazioni, ad essere riscattato dalla società utilizzatrice e rivenduto a un prezzo maggiore alla società di leasing.
Tuttavia, ed è questo il “cento gravitazionale” della decisione del giudice di appello, l’ultima operazione portata avanti dal Fiocchi si presentava intrinsecamente pericolosa per la “salute” economico-finanziaria dell’impresa, contenendo in sé tutti i presupposti che avrebbero condotto al fallimento della “RAGIONE_SOCIALE“
Come evidenziato, infatti, dal giudice di appello, con motivazione dotata di intrinseca coerenza logica, “la pluralità di atti, in cui sono consistite le operazioni dolose contestate, fin dall’inizio e progressivamente hanno messo a repentaglio la salute economica della società” fallita, posto che quest’ultima, priva, sin dalla sua costituzione di una propria specifica attività, di una propria liquidità e di una propria autonomia finanziaria, faceva affidamento esclusivamente sulla liquidità proveniente da NOME e sulle garanzie, reali e personali, prestate dall’imputato e dalla moglie in favore della società concedente del leasing.
Con la conseguenza, prevedibile all’atto della stipula del contratto di leasing, che l’intero schema sarebbe entrato in crisi ove la capacità reddituale del COGNOME fosse venuta meno, in quanto l’unica fonte di reddito stabile per la società fallita era il canone di locazione che avrebbe dovuto corrispondere l’imputato, in modo da consentirle di far fronte al canone del leasing.
Ad un certo punto la capacità reddituale del COGNOME venne compromessa per molteplici ragioni (calo di redditività del suo studio di consulenza del lavoro; crisi del mercato immobiliare; crollo dell’affidamento creditizio dell’imputato), ma alla crisi l’imputato rispose senza preoccuparsi di tutelare gli interessi della società fallita, “come sarebbe stato suo dovere in qualità di organo amministrativo”, ma aggravandone l’esposizione debitoria, “da una parte, omettendo di versare i canoni della locazione commerciale e di recuperare il credito maturato verso la sua persona” (aumentando, invece, il suo credito nei confronti della società procedendo a finanziamenti in qualità di socio), “dall’altra parte, protraendo la detenzione del bene in leasing anche dopo la risoluzione di diritto” del relativo contratto da parte della società concedente per inadempimento, in tal modo “accumulando ulteriore debito per indennità di occupazione e risarcimento dei danni, quantificato addirittura in complessivi euro 4.109.022,36, circostanze che indussero la “RAGIONE_SOCIALE a presentare istanza di fallimento (cfr. pp. 2-8 della sentenza oggetto di ricorso).
Risulta, pertanto, adeguatamente motivata la sussistenza di un nesso di causalità tra i comportamenti indiscutibilmente posti in essere dal COGNOME (la stipula del negozio complesso di compravendita e leasing; la completa dipendenza della società fallita dal pagamento dei canoni di locazione da parte del COGNOME; l’interruzione del pagamento dei canoni alla società concedente, che, a partire da un certo momento, venne finanziata, anziché tramite l’adempimento dell’obbligazione assunta, con dei versamenti effettuati dal ricorrente, contabilizzati come finanziamento soci, in tal modo ancor più pregiudicando la salute economica e finanziaria della società, con la creazione di una ulteriore esposizione debitoria a carico della medesima; la mancata attivazione per riscuotere i crediti vantati dalla “RAGIONE_SOCIALE nei confronti dello studio professionale riconducibile allo stesso COGNOME; il ritardo nella restituzione alla società concedente dell’immobile oggetto di leasing, una volta intervenuta la risoluzione del contratto per inadempimento) e
l’evento costituito dal fallimento della società, da essi pacificamente derivato.
Anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo del reato la motivazione della corte territoriale appare del tutto in linea con i richiamati arresti della giurisprudenza di legittimità e, più in generale, con il consolidato principio, secondo cui, in tema di dolo, la prova della volontà di commissione del reato è prevalentemente affidata, in mancanza di confessione, alla ricerca delle concrete circostanze che abbiano connotato l’azione e delle quali deve essere verificata la oggettiva idoneità a cagionare l’evento in base ad elementi di sicuro valore sintomatico, valutati sia singolarmente sia nella loro coordinazione (cfr., ex plurimis, Sez. VI, 6.4.2011, n. 16465, rv. 250007), come fatto dal giudice di appello.
Del resto, come si è visto, il particolare atteggiarsi dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta impropria da operazioni dolose, che rappresenta una delle due fattispecie contemplate dall’art. 223, co. 2, n. 2), I.fall., distinta dall’altra ipotesi di causazione dolosa del fallimento, come dolo generico, in quanto, come si è detto, il fallimento è solo l’effetto – dal punto di vista della causalità materiale – di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrlo, implica che esso è configurabile anche se il soggetto attivo dell’operazione abbia solo accettato il rischio del suo verificarsi (cfr. Sez. 1, n. 7136 del 25/04/1990, Rv. 184359), dovendo pertanto trovare applicazione in subiecta materia i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di dolo eventuale, alla luce dei quali ricorre il dolo eventuale quando chi agisce si rappresenta come seriamente possibile, sebbene non certa, l’esistenza dei presupposti della condotta, ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare ad essa, accetta che il fatto possa verificarsi, decidendo di agire comunque (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 43348 del 30/09/2014, Rv. 260858; Sez. 5, n. 42973 del 27/09/2012, Rv. 258022, nonché, con riferimento al delitto di cui si discute, Sez. 5, n. 11945 del 22/09/1999, Rv. 214856).
Ad illuminare, peraltro, il dolo del prevenuto concorre ulteriormente anche la circostanza, evidenziata dalla corte di appello, e non specificamente contestata dal ricorrente, che il COGNOME tacque al curatore fallimentare l’effettivo ammontare del canone annuo di locazione commerciale, tacendone l’entità, pari a ben 420.000,00 euro, oltre I.V.A., da pagarsi in dodici rate mensili di euro 35.000,00, salvo adeguamento ISTAT (cfr. p. 6 della sentenza di appello).
Il fatto che in precedenti occasioni le operazioni condotte dal COGNOME non avessero determinato il fallimento delle società, a lui riconducibili, concessionarie dei leasing immobiliari, è un argomento del tutto irrilevante, tenuto conto che l’ultima operazione si è svolta in un mutato contesto, caratterizzato dalla crisi della capacità reddituale del prevenuto, verificatasi la quale egli ha continuato nel compimento di atti che hanno aggravato e non potevano non aggravare l’esposizione debitoria della società, conducendola al fallimento, essendo, peraltro, facilmente prevedibile, proprio a causa della mancanza di autonome risorse finanziarie, che la società sarebbe entrata in crisi ove fosse mancata la sua unica fonte di finanziamento rappresentata dal pagamento degli onerosi canoni di locazione da parte dello stesso imputato.
6. Infondato deve ritenersi il secondo motivo di ricorso, con cui il COGNOME lamenta la mancata qualificazione della sua condotta quale fatto di bancarotta semplice, ai sensi dell’art. 224, n. 2), I.fall., che punisce, tra gli altri, gli amministratori che hanno concorso a cagionare o ad aggravare il dissesto della società con inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge.
Si tratta di un reato punito a titolo di colpa specifica, in relazione alla mancata osservanza degli obblighi imposti dalla legge, che deve essere necessariamente involontaria ovvero, come pure si è affermato in dottrina, l’inosservanza può essere anche volontaria e intenzionale, dovendo l’atteggiamento colposo, e non doloso, avere a oggetto la causazione del dissesto o il suo aggravamento (cfr. Sez. 5, n. 154 del 26/05/2005, Rv. 233385)
In ogni caso è pacifico che tale fattispecie è esclusa nel caso in cui la causazione del dissesto ovvero il suo aggravamento siano dipesi da una condotta del soggetto attivo del reato caratterizzata dal dolo, anche eventuale, quale quella tenuta dal COGNOME, come in precedenza delineata, che ha agito se non allo scopo di causare il fallimento, con modalità tali da abusare dei poteri inerenti ovvero dei doveri inerenti alla sua carica di amministratore della società fallita, quanto meno accettando il rischio del verificarsi del fallimento, ponendo in essere una serie di atti intrinsecamente pericolosi per la salute economicofinanziaria della suddetta società.
Tale giudizio, peraltro, trova ulteriore conferma nell’affermazione di responsabilità dell’imputato, che non ha formato oggetto di contestazione specifica da parte del ricorrente, per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e di bancarotta fraudolenta documentale.
Al riguardo, e con particolare riferimento alla fattispecie distrattiva, appare opportuno evidenziare come la mancata attivazione del RAGIONE_SOCIALE per ottenere dallo studio di consulenza del lavoro a lui riconducibile il pagamento di quanto dovuto alla società fallita, concretizzandosi nella rinuncia a un corrispettivo dovuto, integra una condotta distrattiva (cfr., in questo senso, Sez. 5, n. 12748 del 03/03/2020, Rv. 279198; Sez. 5, n. 12456 del 28/11/2019, Rv. 279044), non potendosi condividere la tesi difensiva, secondo cui la richiesta di adempimento da parte dell’imputato si sarebbe presentata come un comportamento inesigibile, perché egli avrebbe dovuto agire contro sé stesso, in quanto, come correttamente rilevato dalla corte territoriale, la società fallita, pur essendo amministrata dall’imputato, era un soggetto distinto, dotato di una soggettività giuridica diversa da quella del COGNOME, titolare dello studio professionale di consulenza del lavoro.
Inammissibile, in quanto tali da sollecitare una rivalutazione dell’entità del trattamento sanzionatorio non consentita in questa sede di legittimità, oltre che manifestamente infondato, deve ritenersi il motivo
articolato dal ricorrente in punto di mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Come è noto, al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall’art. 133, c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all’entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all’uopo sufficiente (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549).
In questa prospettiva la giurisprudenza di legittimità, con costante insegnamento, ha chiarito che il diniego del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche si giustifica anche solo sulla base della gravità della condotta o dei soli precedenti penali dell’imputato (cfr., ex plurimis, Sez. 4, 28/05/2013, n. 24172; Sez. 3, 23/04/2013, n. 23055, rv. 256172; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269).
A tali principi si è uniformata la corte territoriale, che ha correttamente individuato nella gravità del fatto per cui si procede, desumibile dalla entità del danno arrecato alla società di leasing che ha presentato istanza di fallimento, dalla intensità del dolo e dalla capacità a delinquere dimostrata dal prevenuto, l’ostacolo al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ritenendo, con valutazione certo non manifestamente illogica né contraddittoria, che gli elementi rappresentati dall’appellante non fossero tali da prevalere su tali parametri (cfr. p. 10 della sentenza oggetto di ricorso).
8 Al rigetto del ricorso, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 15.11.2024.