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Bancarotta per distrazione: il compenso non provato

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per bancarotta per distrazione a carico di un amministratore che aveva trattenuto 94.000 euro dal ricavato della vendita di immobili sociali. L’imputato sosteneva che la somma fosse a titolo di compenso per la sua attività, ma non ha provato né l’esistenza né la quantificazione del credito. La Corte ha escluso la configurabilità della meno grave bancarotta preferenziale, chiarendo che il prelievo di somme senza una delibera assembleare o una prova rigorosa del credito integra il reato di distrazione.

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Pubblicato il 25 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Bancarotta per distrazione: l’autocompenso dell’amministratore è reato?

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 25183/2025, offre un importante chiarimento su un tema delicato del diritto penale fallimentare: la bancarotta per distrazione. Il caso riguarda un amministratore che si è appropriato di fondi sociali, sostenendo di farlo a titolo di compenso per il suo lavoro. La Corte ha stabilito che, in assenza di prove certe e documentate del proprio credito, tale condotta integra il più grave reato di bancarotta fraudolenta per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale. Analizziamo insieme i dettagli della vicenda e i principi di diritto affermati dai giudici.

I Fatti del Processo

Il caso trae origine dal ricorso presentato dall’ex amministratore unico di una S.r.l., dichiarata fallita nel 2015. L’imputato era stato condannato in primo e secondo grado per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. L’accusa era quella di aver distratto la somma di 94.000 euro, parte del corrispettivo ottenuto dalla vendita di due immobili di proprietà della società. Invece di versare l’intero importo nelle casse sociali, l’amministratore ne aveva trattenuto una parte consistente.

La difesa dell’imputato si basava su tre motivi principali:
1. La richiesta di riqualificare il fatto in bancarotta preferenziale, sostenendo che la somma trattenuta fosse destinata a soddisfare un suo legittimo credito per l’attività gestoria svolta e per l’impegno profuso negli anni.
2. La richiesta di derubricare il reato in appropriazione indebita, argomentando che al momento del fatto la società non era in stato di dissesto e che, quindi, la condotta aveva leso solo il patrimonio dei soci, non le garanzie dei creditori.
3. La contestazione del diniego delle circostanze attenuanti generiche nella massima estensione.

La bancarotta per distrazione e la decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la condanna per bancarotta per distrazione. I giudici hanno smontato punto per punto le tesi difensive, fornendo motivazioni precise e ancorate a consolidati principi giurisprudenziali.

Perché non è bancarotta preferenziale?

La Corte ha chiarito la netta differenza tra distrazione e pagamento preferenziale. L’amministratore che preleva somme dalle casse sociali per soddisfare un proprio presunto credito commette bancarotta per distrazione, e non preferenziale, quando tale credito non è certo, liquido ed esigibile. Nel caso di specie, l’imputato non ha fornito alcuna prova rigorosa:
* Della qualità e quantità dell’attività prestata.
* Che il titolo e l’importo degli emolumenti fossero stati deliberati dall’assemblea dei soci.

I giudici hanno sottolineato che, in assenza di una delibera assembleare o di una quantificazione statutaria, il credito dell’amministratore per il proprio compenso è da considerarsi “illiquido”. Pertanto, prelevare autonomamente delle somme costituisce un atto di distrazione, in quanto si sottraggono risorse al patrimonio sociale destinato a garanzia dei creditori, senza un titolo giuridico valido e verificabile. La Corte ha specificato che l’onere della prova spetta all’amministratore.

La differenza con l’appropriazione indebita

Anche la tesi della riqualificazione in appropriazione indebita è stata respinta. La Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: ai fini del reato di bancarotta per distrazione, non è necessario che esista un nesso causale diretto tra l’atto distrattivo e il successivo fallimento. È sufficiente che l’agente abbia volontariamente depauperato il patrimonio dell’impresa, destinando le risorse a scopi estranei all’attività sociale.

Il dolo richiesto è generico: basta la consapevolezza di dare al patrimonio una destinazione diversa da quella che garantisce le obbligazioni contratte, senza che sia richiesta la specifica intenzione di danneggiare i creditori o la consapevolezza dello stato di insolvenza. Inoltre, la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che, con la dichiarazione di fallimento, il reato di appropriazione indebita viene “assorbito” da quello, più grave, di bancarotta.

Le motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su un principio di rigore e tutela dei creditori. Permettere a un amministratore di auto-liquidarsi compensi non deliberati o non provati creerebbe un’enorme falla nel sistema di protezione del patrimonio sociale, che costituisce la garanzia primaria per i creditori. L’onere di provare la legittimità di ogni prelievo dalle casse sociali ricade interamente sull’amministratore. La decisione evidenzia che la condotta distrattiva non consiste solo nel prelievo materiale di denaro, ma anche nel mancato versamento nelle casse sociali di somme di pertinenza della società, come nel caso di specie, dove i fondi dalla vendita immobiliare non sono mai transitati nel patrimonio aziendale. La Corte ha inoltre respinto la richiesta di concessione delle attenuanti generiche, giudicando la motivazione del giudice di merito congrua nel valorizzare la “non indifferente gravità concreta del fatto e al precedente specifico dell’imputato”.

Le conclusioni

La sentenza in esame rafforza un orientamento giurisprudenziale consolidato, ponendo un chiaro confine tra le diverse fattispecie di reati fallimentari. Per gli amministratori, il messaggio è inequivocabile: ogni prelievo a titolo di compenso deve essere fondato su un titolo certo e deliberato dagli organi competenti. Agire in autonomia, specialmente in assenza di prove rigorose, espone al rischio di una grave condanna per bancarotta per distrazione. Questa decisione serve come monito sulla necessità di una gestione trasparente e formalmente corretta, a tutela non solo dei soci, ma soprattutto del ceto creditorio.

Quando il prelievo di somme da parte di un amministratore a titolo di compenso configura bancarotta per distrazione e non preferenziale?
Configura il reato di bancarotta per distrazione quando il credito dell’amministratore non è provato in modo rigoroso, ovvero non è certo, liquido ed esigibile. In particolare, è necessario dimostrare che l’importo del compenso sia stato deliberato dall’assemblea dei soci o quantificato nello statuto. In assenza di tale prova, il prelievo è considerato una sottrazione illecita di beni dal patrimonio sociale.

Per configurare la bancarotta per distrazione, è necessario provare che l’atto di distrazione ha causato il fallimento?
No, la Corte di Cassazione ha ribadito che non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione e il successivo fallimento. È sufficiente che l’amministratore abbia consapevolmente ridotto il patrimonio dell’impresa, destinando risorse a finalità estranee all’attività sociale, indebolendo così la garanzia per i creditori.

Un’appropriazione indebita commessa prima del fallimento può essere giudicata come bancarotta?
Sì. Secondo la sentenza, in caso di successiva dichiarazione di fallimento, il delitto di appropriazione indebita viene assorbito in quello di bancarotta fraudolenta patrimoniale. La fattispecie di bancarotta è considerata più grave (“maior”) e “incapsula” quella minore dell’appropriazione, quindi gli stessi fatti vengono riqualificati e perseguiti sotto la più grave imputazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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