Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 23668 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 23668 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 29/05/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME COGNOME nato a Catanzaro il DATA_NASCITA; NOME NOME nato a Simeri Crichi (CZ) il DATA_NASCITA; avverso la sentenza del 19/11/2024 della Corte d’appello di Catanzaro; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso; lette le conclusioni della parte civile, a firma dell’AVV_NOTAIO, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso; lette le conclusioni del difensore degli imputati, AVV_NOTAIO, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’Appello di Catanzaro, in parziale riforma della decisione di primo grado all’esito di giudizio abbreviato, ha assolto NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME dal reato di bancarotta per distrazione ai danni della RAGIONE_SOCIALE, confermando la condanna per NOME NOME in relazione al delitto di bancarotta
per effetto di operazioni dolose, derivante dall’omesso pagamento dei tributi dal 2006 al 2014, escludendo l’aggravante del danno patrimoniale di rilevante entità.
Hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, chiedendo l’annullamento del provvedimento gravato.
Lamentano violazione di legge e vizi di motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza del dolo del delitto in esame o, in subordine, all’omessa riqualificazione delle condotte ai sensi dell’art. 224 r.d. 267/1942.
Assumono che l’esposizione debitoria verso l’Erario fosse dovuta a carenze di liquidità causate dalla crisi di mercato, non a una dolosa volontà di evasione, come peraltro evidenziato dal curatore fallimentare: sicché, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il delitto sarebbe insussistente.
Vi sarebbe stato il travisamento della prova, laddove sono stati ritenuti decisivi il ‘cospicuo volume di affari’ e gli ‘utili di gestione’, secondo un prospetto del curatore che, al contrario, certificherebbe l’impossibilità di adempiere alla pretesa tributaria. Si sarebbe confuso il volume d’affari con gli utili, che, peraltro, sarebbero in realtà irrisori, essendo pari a 67.494,00 euro nel 2008, 30.438,00 euro nel 2009, 27.392,00 negli anni 2007 e 2010, a fronte di debiti tributari ben maggiori, ovvero di oltre 120.000,00 euro nel 2008, di poco meno di 100.000,00 euro nel 2009 e di ben 468.000,00 euro nel 2007 e nel 2010.
A riprova della mancanza del dolo, si sottolineano le chieste rateizzazioni dei debiti erariali (illogicamente definite dalla Corte d’appello dilatorie e sintomatiche della volontà di inadempimento), nonché l’immissione di ingenti somme personali nelle casse sociali e il conferimento di quote di altre società di valore sufficiente a soddisfare l’esposizione debitoria, ed infine l’assoluzione dall’accusa di depauperamento del patrimonio societario.
Tanto -si sostiene -avrebbe, al più, dovuto comportare la riqualificazione delle condotte ai sensi dell’art. 224 r.d. 267/1942, essendosi trattato di operazioni che non avevano causato volontariamente il dissesto, ma avevano solo concorso ad aggravarlo insieme alla crisi di mercato.
Le parti hanno concluso per iscritto, come sopra riportato.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso, per diversi profili inammissibile (specie nella parte in cui sollecita una mera rilettura dei fatti di causa), è nel complesso infondato.
2. È noto che, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta impropria da operazioni dolose, non è necessario che sussista il dolo specifico diretto alla causazione del fallimento, ma solo quello generico, ossia la coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come conseguenza della condotta antidoverosa (Sez. 5, n. 16111 del 08/02/2024, Leoni, Rv. 286349-01, proprio in un caso di sistematico e protratto inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali frutto di una consapevole scelta gestionale).
Più in dettaglio, come evidenziato in motivazione dal precedente appena richiamato, la distinzione principale tra le due fattispecie di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, r.d. 267/1942 (che punisce, rispettivamente, chi cagiona con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società) risiede nell’elemento soggettivo: la prima ipotesi configurandosi quando il fallimento è stato specificamente voluto dall’agente, laddove, nella seconda -aver cagionato il fallimento per effetto di operazioni dolose -il fallimento non necessariamente l’obiettivo voluto, ma l’effetto prevedibile di una condotta volontaria (Sez. 5, n. 19101 del 14/01/2004, COGNOME, Rv. 227745-01; Sez. 1, n. 7136 del 25/04/1990, COGNOME, Rv. 184359-01; Sez. 5, Sentenza n. 27690 del 15/5/2024, non massimata; Sez. 1, n. 3942 del 13/12/2007, dep. 2008, COGNOME, Rv. 238367-01).
Dunque, a differenza della bancarotta fraudolenta distrattiva (che richiede una diminuzione del patrimonio sociale), nella bancarotta impropria causata da operazioni dolose, ciò che rileva non è l’immediato depauperamento della società o lo scopo di procurarsi un ingiusto profitto, bensì il prevedibile futuro aggravamento del passivo che porti all’altrettanto prevedibile dissesto economico: sicché non deve necessariamente trattarsi di operazioni di diretto depauperamento delle attività, essendo sufficiente che si tratti di operazioni che si pongano in nesso causale con il non giustificabile e prevedibile successivo depauperamento del patrimonio dell’impresa (Sez. 5, n. 19101 del 14/01/2004, NOME, Rv. 227745-01).
In tale contesto, è stato costantemente ribadito da questa Corte che il protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive e fiscali può costituire operazione dolosa ai fini della norma in esame, laddove frutto di una consapevole scelta gestionale, in quanto aumenta ingiustificatamente l’esposizione debitoria nei confronti degli enti previdenziali e dell’erario, rendendo prevedibile il conseguente dissesto della società (Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, COGNOME Mattia, Rv. 273337-01; Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, dep. 2017, Bottigieri, Rv. 270046-01; Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, COGNOME, Rv. 261684-01).
Non v’è, allora, alcuna contraddittorietà tra l’ esclusione del delitto di bancarotta fraudolenta distrattiva e il contestuale accertamento del dolo generico in relazione a singole operazioni (come il sistematico inadempimento degli obblighi
fiscali/previdenziali) che hanno determinato il fallimento.
Anzi, proprio poiché il fallimento non deve necessariamente e intenzionalmente essere voluto quale conseguenza della condotta, non sussiste contrasto logico tra il compimento di operazioni dolose, per effetto delle quali sia stato cagionato il fallimento, e l’ interesse mostrato dall’agente nei riguardi de lla società poi fallita, ben potendo coesistere la consapevolezza e prevedibilità del futuro dissesto, quale conseguenza delle dette operazioni dolose, con un soggettivo interesse ad esiti meno infausti per l’impresa (Sez. 1, n. 3942 del 13/12/2007, dep. 2008, COGNOME, Rv. 238367-01). Sicché anche le richieste di rateizzazione dei debiti e l’ immissione di risorse nelle società non contraddicono affatto la conclusione circa la ritenuta sussistenza del delitto ex art. 223, comma 2, n.2, seconda parte, r.d. 267/1942.
A tal proposito, coerentemente, è stato asserito che la fattispecie de qua ricorra pure nel caso in cui l’intento non sia quello di apprendere risorse risparmiate evadendo gli oneri fiscali e contributivi, bensì quello di “autofinanziamento”, che descrive gli effetti di breve periodo, senza per questo far venir meno quelli di medio-lungo periodo, in ragione della crescita esponenziale del debito erariale (Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, NOME e altri, Rv. 26551001 e Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, COGNOME e altri, Rv. 261684-01, entrambe in motivazione).
Tali considerazioni, in conclusione, esclud ono la rilevanza dell’assenza di prova di volontà distrattive o, comunque, dirette al fallimento della società, in capo ai ricorrenti, o, addirittura, la rilevanza di condotte volte , nel contempo, a ‘salvare’ la società: si ripete, del tutto compatibili col delitto di bancarotta impropria per effetto di operazioni dolose.
Ed escludono la possibilità di riqualificare il fatto ai sensi dell’art. 224 r.d. 267/1942, avendo i giudici di merito svolto un adeguato scrutinio dell’elemento soggettivo della fattispecie concreta, verificando la sussistenza del dolo generico delle operazioni dolose, correlato, per un verso, alla pacifica sussistenza di risorse per far fronte, almeno parzialmente, al pagamento del debito erariale e, per altro verso, alla prevedibilità del notevole aggravamento futuro del carico erariale e, conseguentemente, del dissesto societario.
Quanto, infine, alla deduzione secondo cui gli utili conseguiti sarebbero stati insufficienti al pagamento dei debiti erariali, è appena il caso di ribadire che, lungi dall’integrare travisamento della prova (atteso che il dato è stato esattamente riportato nella sentenza e come tale valutato), la doglianza mira a sollecitare una lettura alternativa del compendio probatorio, che esula dai poteri di questa Corte, essendo, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare
il vizio di legittimità la mera prospettazione di un diverso e, per il ricorrente, più adeguato apprezzamento delle risultanze processuali (per tutte Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944-01). E tanto vale ancor più laddove si consideri che il delitto in oggetto sussiste anche solo in casi di mero aggravamento del dissesto (Sez. 5, n. 29885 del 09/05/2017, COGNOME, Rv. 270877-01; Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Concu, Rv. 262189-01): sicché pure condotte determinanti il solo incremento dell’indebitamento, e la correlata diminuzione di eventuali utili futuri, sono compatibili con la fattispecie di cui si tratta.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. , alla declaratoria di rigetto segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e alla rifusione delle spese processuali in favore della parte civile.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè alla refusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile che liquida in complessivi euro 3.592, oltre accessori di legge.
Così è deciso, 29/05/2025
Il Consigliere estensore
NOME COGNOME
Il Consigliere estensore
Il Presidente NOME COGNOME
NOME COGNOME