Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 25181 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 25181 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 11/04/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: NOME COGNOME nato a ERCOLANO il 26/07/1954 NOME COGNOME nato a ORISTANO il 25/12/1956
avverso la sentenza del 17/09/2024 della CORTE APPELLO di CAGLIARI
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette/seigrte le conclusioni del PG NOME COGNOME L Q GLYPH Vc1,-,’41.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’appello di Cagliari, con sentenza del 17 settembre 2024, ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima città che ha ritenuto NOME COGNOME n.q. di amministratore unico dalla costituzione sino al 27 gennaio 2012 e di co-amministratore fino al 3 ottobre 2014 nonché di liquidatore dal 4 luglio 2016 sino al fallimento e NOME COGNOME n.q. di co-amministratrice dal 27 gennaio 2012 al 3 ottobre 2014 della RAGIONE_SOCIALE dichiarata fallita il 26 maggio 2017, responsabili del delitto di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, I. fall. per avere, in concorso tra loro, cagionato il fallimento della società con operazioni dolose consistite nel conferire, nel dicembre 2012, nella società l’appartamento costituente l’abitazione principale dei predetti coniugi, acquistato il 18 novembre 2011 con riserva di proprietà del venditore e sul quale gravava un debito per il prezzo d’acquisto pari a euro 402.155,27 che veniva così accollato alla società già gravata da passività pari a circa euro 1.196.000,00.
Ricorrono per cassazione entrambi gli imputati articolando tre comuni motivi con cui lamentano che la Corte d’appello avrebbe omesso di prendere posizione in ordine ai punti specificatamente messi in evidenza con i motivi di appello.
2.1. Con il primo motivo lamentano l’omessa motivazione in ordine al censurato difetto di nesso causale tra la condotta contestata e il dissesto.
Evidenziano: che il fallimento è avvenuto a distanza di ben cinque anni dal conferimento; che il curatore aveva ascritto le cause del dissesto all’incapacità di remunerare i fattori di produzione e alla gestione caratteristica dell’impresa e non alla gestione straordinaria nella quale rientra pacificamente la condotta oggetto di contestazione; che il curatore aveva dato atto che la situazione debitoria dal 2013 al 2015 era dimezzata e che il deficit economico aveva assunto dimensioni rilevanti e anomale solo nel 2015.
2.2. Con il secondo motivo, deducono l’omessa motivazione in relazione alla dedotta assenza di dolo.
2.3. Con il terzo motivo si dolgono della mancata concessione delle attenuanti generiche.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono infondati e devono essere rigettati.
Preliminarmente devono essere rammentati gli insegnamenti di questa Corte di legittimità in argomento, utili ai fini della decisione che qui ci occupa.
Le operazioni dolose, di cui all’art. 223, comma, n. 2, legge fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo nell’esercizio della carica ricoperta, ovvero r
COGNOME
ad atti intrinsecamente pericolosi per la “salute” economico-finanziaria dell’impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente, non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione, che può anche non esserci), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato (Sez. 5, n. 12945 del 25/02/2020, Mora, Rv. 279071 – 01; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa di Risparmio di Rieti e altri, Rv. 247316). La bancarotta da operazioni dolose è reato di evento a forma libera, che punisce colui che compie qualsiasi atto o complesso di atti comportanti un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa; l’autore del fatto agisce con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti alla qualità rivestita ed accetta il rischio che la propria condotta possa determinare o aggravare il dissesto e quindi condurre la società al fallimento.
Ai fini della configurabilità della bancarotta impropria da operazioni dolose, non deve risultare dimostrato il dolo specifico diretto alla causazione del fallimento, ma solo il dolo generico, ossia la coscienza e volontà delle singole operazioni e la prevedibilità del dissesto come conseguenza della condotta antidoverosa (Sez. 5, n. 16111 del 08/02/2024, COGNOME, Rv. 286349 – 01). Non è necessaria la volontà diretta a provocare il dissesto il quale è, piuttosto, l’effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta volontaria, ma è sufficiente che il soggetto attivo dell’operazione accetti la probabilità che il dissesto si verifichi. La responsabilità penale è quindi retta dalla rappresentazione del proprio operato nei suoi lineamenti naturalistici e nel suo contrasto con i doveri propri derivanti dalla carica a fronte degli interessi della società, mentre è estranea ad essa la rappresentazione e volontà dell’evento fallimentare. E’ stato affermato che la fattispecie in esame si caratterizza come una «eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale» in relazione alla quale «esaurisce l’onere probatorio dell’accusa la dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura “dolosa” dell’azione, costitutiva dell’operazione”, a cui segue il dissesto, in una con l’astratta prevedibilità dell’evento scaturito per effetto dell’azione antidoverosa» (così in motivazione, Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a. e altri, Rv. 247315- 01).
Alla luce di siffatti principi devono valutarsi i motivi proposti.
3.1. Il primo motivo, reiterativo di quanto già lamentato con l’atto di appello, è infondato.
Ed invero, come già accennato, l’istruttoria espletata ha consentito di accertare: il conferimento nella società di un appartamento, adibito a casa
familiare dei prevenuti, acquistato con riserva di proprietà al prezzo complessivo di euro 572.754,00 da pagarsi in rate mensili di euro 4.772,95 ciascuna; il conferimento è stato effettuato a seguito di riduzione di capitale per una perdita di esercizio superiore a un terzo del capitale sociale e contestuale aumento dello stesso attraverso appunto il conferimento; che, quindi, tale conferimento avrebbe dovuto servire a rivitalizzare le risorse economiche della società; che, per effetto del conferimento, la società non acquistava la proprietà dell’immobile, ma risultava solo obbligata al versamento di onerosi ratei mensili; che la società non poteva disporre diversamente dell’immobile in quanto questo continuava ad essere abitato dagli imputati che l’avevano adibito a casa familiare e corrispondevano all’ente, saltuariamente, a fronte di tale godimento, euro 1000,00 mensili; che il debito residuo accollato alla società era pari a euro 402.155,27, di poco inferiore al prezzo di acquisto (così alla pag. 4 della sentenza di I grado); che, alla data del conferimento, la società era già gravata di un’ingentissima esposizione pari a € 1.196.681 ben nota agli imputati; che il conferimento andava quindi a incrementare di oltre un terzo l’indebitamento complessivo.
Questi sono i dati di fatto incontestabili risultanti dalla relazione del curatore e su di essi si è sviluppato l’argomentare della Corte d’appello che, in quanto conforme alla trama motivazionale di primo grado, attesa l’utilizzazione dei medesimi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, va considerato e valutato unitamente a quest’ultima.
Sottolineano entrambi i giudici di merito, facendo ampi richiami alla relazione del curatore, l’intrinseca pericolosità dell’operazione per avere questa comportato: l’aumento, di circa un terzo, dell’indebitamento, già sussistente al momento dell’operazione della società per ben € 1.196.681,00; l’assunzione dell’obbligo di pagamento degli onerosi ratei del prezzo; la scarsa influenza positiva del pagamento, peraltro saltuario, di 1000,00 euro mensili da parte degli imputati per il godimento dell’immobile che la società, quindi, non poteva utilizzare facendolo meglio fruttare; la conclusione, solo formalmente positiva, dell’operazione, ma non nella sostanza in quanto «nel patrimonio sociale non venivano portati solo elementi attivi, ma anche elementi passivi di rilevante entità» (così, alla pag 4 della sentenza di I grado).
L’operazione di che trattasi poi si colloca in un contesto temporale connotato da una indubitabile situazione di difficoltà finanziaria, ingravescente, della società fallita, ben nota agli imputati, attesa l’entità del pregresso debito non ripianabile, per la sua consistenza, con i ricavi della gestione ordinaria. È del tutto evidente che il fatto di accollare, neanche solidalmente, un ulteriore e oneroso debito alla società, senza alcuna sostanziale contropartita, secondo una
valutazione ex ante non poteva che aggravarne il dissesto già in atto rendendolo irreversibile e colorare così l’operazione di intrinseca fraudolenza non essendo riscontrabile alcun interesse effettivo per la società. La censura mossa in parte qua alla motivazione è quindi infondata dovendosi rammentare che, in tema di fallimento determinato da operazioni dolose, non interrompono il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento fallimentare né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente verso il dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 cod. pen., né il fatto che l’operazione dolosa contestata abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto (così, per tutte, Sez. 5, n. 8413 de/ 16/10/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259051 – 01). Tale principio è stato tenuto di conto in entrambe le sentenze di merito e la Corte d’appello, sia pure con motivazione concisa, ma da ritenersi sufficiente e non manifestamente illogica, ha peraltro anche sottolineato l’irrilevanza del dedotto iato temporale tra l’operazione divisata e il fallimento posto che già alla data del conferimento la crisi economica della società era già grave attesa l’imponente esposizione debitoria.
Parimenti infondato, ai limiti dell’inammissibilità, è il secondo motivo.
Ed invero, alla corretta individuazione della componente obiettiva, ha fatto riscontro l’esatta focalizzazione del requisito soggettivo, consistente nella volontà diretta non già al fallimento, bensì alla stessa “operazione” dalla quale poi è conseguito, sul piano della mera causalità materiale, il dissesto fallimentare, che si è posto, dunque, come conseguenza prevedibile del suo verificarsi. Adeguato è lo scrutinio svolto in parte qua dalla Corte di appello e prima di essa dal Tribunale, avendo entrambi i Giudici di merito evidenziato, con motivazione coerente e priva di sbavature e tutt’altro che omessa, sia la consapevolezza da parte degli imputati della situazione in cui versava la società al momento dell’operazione (attesa la ragione del conferimento ed essendo stata allegata anche all’atto notarile la situazione patrimoniale dell’ente), sia la totale assenza di prova in ordine all’ affermata sussistenza della volontà di adibire l’immobile, al fine di farlo fruttare, a show room, intenzione, che anche se confermata dal teste NOMECOGNOME non solo è rimasta allo stato embrionale, ma risulta contraddetta, come evidenzia la Corte d’appello, non solo dal fatto che non sono stati neanche indicati come esistenti uno studio di fattibilità, la richiesta di modifica della destinazione d’uso, una delibera del consiglio di amministrazione, ma soprattutto dall’unico dato certo costituito dal fatto che gli imputati hanno continuato ad abitare continuativamente la casa, acquistata godendo dei benefici previsti per l’acquisto di “prima casa” e versando, si ripete saltuariamente, un importo di gran lunga inferiore, alla rata di prezzo originariamente stabilita. Nessun rilievo è da riconoscersi all’avvenuto
pagamento da parte della società sino al 2014 dei ratei del prezzo, circostanza questa evidenziata dai ricorrenti, ma che altro non fa che avvalorare la
spregiudicatezza dell’operazione avendo la società, senza alcuna contropartita, provveduto – in via esclusiva e senza possibilità di rivalersi sugli imputati non
avendo il debito contratto natura solidale – a un notevole esborso così
ulteriormente aggravando la sua crisi economica e la posizione dei creditori sociali peraltro privi della possibilità di rivalersi sull’immobile, rimasto nel
proprietà della venditrice.
5. Inammissibile è, infine, l’ultimo motivo di ricorso.
La motivazione della sentenza impugnata in parte qua
sfugge ai rilievi censori formulati, essendo incentrata sull’assorbente rilievo della prevalenza
sugli elementi, positivamente valorizzabili al fine della concessione delle attenuanti generiche, di prevalenti elementi di segno negativo quali la
spregiudicatezza dell’operazione, il grave pregiudizio per i creditori sociali, la mancanza di qualsiasi gesto finalizzato a ristorare i danni. Tanto basta, non
essendo necessaria, per giustificare il diniego del riconoscimento delle circostanze aggravanti, la considerazione di tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, essendo invece sufficiente i riferimento agli elementi ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (ex multis, Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549 – 02; Sez. 3, n. 28535 del 19/3/2014, Lule, Rv. 259899).
Giova infine ribadire che la concessione o meno delle attenuanti generiche rientra nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato, come è accaduto nel caso di specie, nei soli limiti utili per far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (tra le tante, Sez. 6, n. 41365 del 28/10/2010, Straface, Rv. 248737).
I ricorsi devono dunque essere rigettati e gli imputati condannati al pagamento delle spese di lite.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese srocessuali.
Roma, 11 aprile 2025