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Bancarotta operazioni dolose: quando è reato

La Cassazione conferma la condanna per bancarotta da operazioni dolose a carico di amministratori che avevano conferito nella società, già pesantemente indebitata, il proprio appartamento gravato da un debito residuo, aggravandone il dissesto. L’operazione, priva di reale vantaggio per l’impresa, è stata ritenuta dolosa anche in assenza della volontà specifica di causare il fallimento.

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Pubblicato il 25 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Bancarotta operazioni dolose: quando un’operazione societaria diventa reato?

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25181/2025, torna a delineare i confini del reato di bancarotta da operazioni dolose, un illecito che sanziona gli amministratori che, con la loro condotta, causano il fallimento della società. La pronuncia chiarisce un punto fondamentale: per la condanna non è necessario dimostrare la volontà specifica di portare l’azienda al collasso, ma è sufficiente la consapevolezza di compiere atti pregiudizievoli che rendono il dissesto una conseguenza prevedibile. Analizziamo insieme questo caso emblematico.

I Fatti di Causa

Due amministratori, coniugi nella vita, di una S.r.l. già in grave difficoltà finanziaria, decidevano di conferire nella società l’appartamento costituente la loro abitazione principale. L’operazione, avvenuta nel 2012, presentava però delle criticità determinanti: l’immobile era stato acquistato con riserva di proprietà e su di esso gravava un debito residuo di oltre 400.000 euro.

Con questo atto, la società non acquistava la piena proprietà del bene, ma si accollava un ingente debito che andava ad aggiungersi a passività preesistenti per quasi 1.200.000 euro. Di fatto, il patrimonio societario veniva aggravato di oltre un terzo, senza una reale contropartita, dato che gli amministratori continuavano ad abitare l’immobile versando solo saltuariamente un canone irrisorio. Cinque anni dopo, nel 2017, la società veniva dichiarata fallita.

I Motivi del Ricorso e la tesi sulla bancarotta da operazioni dolose

Condannati in primo e secondo grado, gli amministratori ricorrevano in Cassazione basandosi su tre motivi principali:
1. Assenza del nesso causale: Sostenevano che il fallimento, avvenuto ben cinque anni dopo l’operazione, non fosse direttamente collegato al conferimento dell’immobile, ma ad altre cause gestionali.
2. Mancanza di dolo: Affermavano di non aver agito con l’intento di danneggiare la società, ma anzi con la presunta intenzione di trasformare l’immobile in uno showroom, progetto poi mai realizzato.
3. Mancata concessione delle attenuanti generiche: Lamentavano un’eccessiva severità della pena.

La decisione della Corte sulla bancarotta da operazioni dolose

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso, confermando la condanna. I giudici hanno smontato le argomentazioni difensive, fornendo importanti chiarimenti sulla natura del reato.

Le motivazioni

La Corte ha qualificato l’operazione come intrinsecamente pericolosa e fraudolenta. Il conferimento di un bene, gravato da un debito quasi pari al suo valore, in una società già sull’orlo del baratro finanziario, non poteva che aggravarne il dissesto, rendendolo irreversibile. Secondo i giudici, non rileva il tempo trascorso tra l’atto e la dichiarazione di fallimento, poiché l’operazione ha innescato o aggravato in modo decisivo un processo già in atto. Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, la Cassazione ha ribadito un principio consolidato: per la bancarotta da operazioni dolose non è richiesto il dolo specifico, cioè la volontà mirata a causare il fallimento. È sufficiente il dolo generico, che consiste nella coscienza e volontà di compiere l’operazione antidoverosa, accettando il rischio (la prevedibilità) che da essa possa derivare il dissesto. Gli amministratori erano perfettamente consapevoli della situazione debitoria critica della società e, ciononostante, l’hanno ulteriormente aggravata con un’operazione priva di qualsiasi vantaggio economico per l’ente. La presunta intenzione di creare uno showroom è stata ritenuta una mera affermazione, smentita dai fatti, ovvero dalla continua occupazione dell’immobile come abitazione privata. Infine, la decisione sulla concessione delle attenuanti è stata considerata un giudizio di merito, correttamente motivato e non sindacabile in sede di legittimità.

Le conclusioni

Questa sentenza conferma che la responsabilità penale degli amministratori per bancarotta da operazioni dolose sorge ogni qualvolta pongano in essere atti gestionali che, pur non essendo immediatamente distrattivi, sono intrinsecamente irragionevoli e pregiudizievoli per la ‘salute’ economico-finanziaria dell’impresa. La consapevolezza di compiere un’azione dannosa, accettandone le conseguenze prevedibili come il fallimento, è sufficiente a integrare il dolo richiesto dalla norma, rendendo irrilevante la presenza di un fine specifico di portare la società al collasso.

È necessario avere l’intenzione specifica di far fallire una società per essere condannati per bancarotta da operazioni dolose?
No. Secondo la sentenza, non è necessario dimostrare il dolo specifico (la volontà diretta a causare il fallimento). È sufficiente il dolo generico, ovvero la consapevolezza e volontà di compiere un’operazione dannosa per la società, accettando la prevedibile conseguenza che da essa possa derivare il dissesto.

Un’operazione che aggrava un dissesto già esistente può integrare il reato di bancarotta da operazioni dolose?
Sì. La Corte chiarisce che il reato sussiste non solo quando l’operazione dolosa causa il dissesto, ma anche quando aggrava una situazione di crisi già esistente, rendendola irreversibile. Il nesso causale non è interrotto dalla preesistenza di altre cause di difficoltà finanziaria.

Il tempo trascorso tra l’operazione dolosa e la dichiarazione di fallimento è rilevante per escludere la responsabilità?
No, non necessariamente. La sentenza sottolinea che lo iato temporale (in questo caso, cinque anni) tra l’operazione e il fallimento è irrilevante se la crisi economica della società era già grave al momento dell’atto e l’operazione stessa ha contribuito a rendere il dissesto inevitabile.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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