Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 28178 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 28178 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: PILLA EGLE
Data Udienza: 17/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a TERMOLI il 27/01/1969
avverso la sentenza del 20/02/2025 della CORTE D’APPELLO DI MILANO
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore generale della Corte di cassazione, NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso. Udite le conclusioni del difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME per il ricorrente, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 20 febbraio 2025 la Corte di appello di Milano, in parziale riforma quanto alla concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, ha per il resto confermato la pronuncia dell’11 aprile 2024 del giudice dell’udienza preliminare del Tribunale cittadino con la quale COGNOME Michele è stato condannato alla pena di giustizia, nelle qualità di Presidente del Consiglio di amministrazione dall’11 gennaio 1993 al 1° aprile 2008
della società RAGIONE_SOCIALE già RAGIONE_SOCIALE dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Milano del 18 novembre 2014:
per il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva in relazione alla vendita di un immobile;
per il reato di bancarotta fraudolenta documentale;
per il reato di bancarotta impropria derivante da operazioni dolose consistite nel sistematico omesso versamento delle imposte dovute.
Con le aggravanti di avere cagionato un danno di rilevante gravità e di avere commesso più fatti di bancarotta.
Avverso la decisione della Corte di Appello ha proposto ricorso l’imputato, attraverso il difensore di fiducia, articolando i motivi di censura di seguito enunciati nei limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo e il secondo motivo è stata dedotta violazione di legge e vizio di motivazione, tradottosi in travisamento della prova, in ordine alla sussistenza della condotta di bancarotta fraudolenta distrattiva.
La condotta distrattiva si sarebbe verificata in quanto una parte del prezzo della vendita di un immobile non sarebbe stato corrisposto; non vi sarebbe prova che l’assegno di euro 61.449,09 euro – di cui si era comunque accertata l’esistenza e di cui vi è espresso riferimento nel rogito notarile quanto alla quietanza della sua ricezione- sia stato realmente posto all’incasso.
Quanto alla residua parte del prezzo, corrisposta mediante accollo del debito nei confronti della società Esatri, la circostanza che quest’ultima si sia insinuata nel passivo fallimentare dimostrerebbe che anche il debito nei suoi confronti non è stato soddisfatto. La ulteriore circostanza che il debito verso COGNOME fosse garantito da ipoteca sull’immobile non è idonea ad escludere la finalità distrattiva in quanto COGNOME non era l’unico creditore e l’alienazione del bene avrebbe comunque reso più difficile l’esercizio del privilegio.
Lamenta la difesa che la Corte territoriale – a fronte della prova documentale rappresentata dal rogito notarile e dalla copia dell’assegno – si sia limitata ad una motivazione apparente ed apodittica, ritenendolo un meccanismo fraudolento volto solo a fare apparire un pagamento non realizzatosi.
Così come la pronunzia ha ignorato che l’accollo del debito da parte dell’acquirente non avrebbe determinato alcun pregiudizio per gli altri creditori, trattandosi di credito garantito da ipoteca sull’immobile per la complessiva somma di 311.479,54 euro.
Quanto alla sussistenza del dolo, la sentenza impugnata ha valorizzato la circostanza che la società cessionaria dell’immobile facesse capo alla sorella del ricorrente e fosse stata appositamente costituita per lo scopo. In realtà non vi è
alcuna prova che la società fosse stata costituita per sottrarre l’immobile alla garanzia dei creditori.
2.2. Con il terzo motivo è stato dedotto vizio di motivazione tradottosi in travisamento della prova documentale e dichiarativa in relazione alla sussistenza della bancarotta fraudolenta documentale.
La Corte territoriale ha ritenuto sussistente la condotta contestata perché risulta provata la mancata consegna della documentazione contabile da COGNOME a COGNOME, primo liquidatore, e perché la documentazione consegnata dall’ultimo liquidatore COGNOME era inerente unicamente agli anni successivi alla messa in liquidazione.
La sentenza sarebbe carente ed illogica nella parte in cui pone a fondamento della responsabilità dell’imputato le dichiarazioni etero accusatorie del coimputato COGNOME e travisa la testimonianza di NOME COGNOME che ha affermato l’avvenuto passaggio di consegne della contabilità tra l’imputato e il liquidatore della società.
COGNOME ha peraltro riferito della mancanza della documentazione contabile solo nella seconda delle audizioni rese dinanzi al curatore nel corso della quale ha prodotto la dichiarazione sostitutiva dello smarrimento dei libri contabili.
2.3. Con il quarto e il quinto motivo è stata dedotta violazione di legge e vizio di motivazione tradottosi anche in travisamento della prova documentale quanto alla sussistenza della bancarotta impropria da operazioni dolose.
L’incremento del debito erariale è ascritto all’imputato e ai vari liquidatori della società succedutisi nel tempo, ciascuno per il periodo di competenza. La sentenza impugnata, pur riconoscendo che non è quantificabile la somma precisa attribuibile al periodo in cui COGNOME è stato amministratore, ha tuttavia ritenuto che il debito erariale accumulatosi nel periodo della gestione dell’imputato abbia comunque concorso a cagionare il dissesto della società.
La sentenza impugnata non ha fornito risposta allo specifico rilievo contenuto nell’atto di appello secondo cui il carico dei debiti al settembre 2007 e, dunque pochi mesi prima delle dimissioni di COGNOME, ammontava ad euro 155.739,00, importo assai esiguo rispetto all’ammontare finale. In tal modo non è stato chiarito lo specifico contributo causale offerto dall’imputato all’aggravamento del dissesto societario.
Inoltre, la Corte territoriale ha escluso che possa avere rilievo la circostanza per cui la Commissione Tributaria Provinciale in accoglimento del ricorso della società avverso l’avviso di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, avesse notevolmente ridimensionato l’importo dovuto.
Successivamente, a seguito dell’appello dell’amministrazione finanziaria, il liquidatore COGNOME aveva incomprensibilmente omesso di coltivare
l’impugnazione cristallizzando gli importi nella cifra iniziale oggetto di accertamento.
Mancherebbe infine l’elemento materiale della condotta nonché l’elemento soggettivo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è nel suo complesso infondato.
Il primo e il secondo motivo risultano manifestamente infondati, non confrontandosi con la giurisprudenza di questa Corte e con la sentenza impugnata.
Essi non si confrontano, in particolare, con le principali argomentazioni poste a fondamento della decisione, sollecitando una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità, sulla base di una “rilettura” degli elementi di fatto, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944).
La Corte territoriale, contrariamente a quanto esposto nel ricorso, ha risposto con motivazione immune da vizi logici ai rilievi in ordine alla corretta interpretazione del materiale probatorio, escludendo possibili travisamenti del contributo dichiarativo raccolto.
In particolare (pag. 18), ha chiarito che:
con riguardo al pagamento della somma di euro 61.449,09, sebbene nell’atto notarile la società venditrice avesse dichiarato di avere ricevuto l’intero ammontare del corrispettivo pattuito e nonostante fosse stato emesso un assegno bancario non trasferibile, non vi è prova che l’assegno ancorché oggetto di consegna materiale, sia stato posto all’incasso;
il debito oggetto di accollo da parte dell’acquirente non è stato estinto come dimostra la insinuazione al passivo della società COGNOME creditrice; né la sussistenza della garanzia ipotecaria sull’immobile esclude la natura distrattiva della operazione, sia perché COGNOME non era l’unico creditore della società, sia perché il diritto di sequela che caratterizza la garanzia ipotecaria può rendere più gravoso l’esercizio del diritto;
l’atto di vendita avveniva solo 19 giorni prima della messa in liquidazione della società fallita;
la società acquirente era amministrata sin dalla data della sua costituzione dalla sorella dell’imputato, il quale in data 17 novembre 2010 rilevava le di lei quote e diveniva amministratore unico dal 13 dicembre 2012.
L’operazione posta in essere dall’imputato presenta dunque le caratteristiche dell’operazione con finalità distrattive così come delineate dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione qualunque operazione diretta a distaccare dal patrimonio sociale, senza immettervi il corrispettivo e senza alcun utile, beni ed altre attività, così da impedirne l’apprensione da parte degli organi fallimentari e causare un depauperamento del patrimonio sociale, in pregiudizio dei creditori (Sez. 5, n. 36850 del 06/10/2020, COGNOME, Rv. 280106 – 01).
Manifestamente infondato risulta anche il terzo motivo di ricorso relativo alla condotta di bancarotta fraudolenta documentale.
Quanto al travisamento della prova va richiamata in primo luogo la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado. (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777 – 01), contrariamente a quanto avvenuto nel caso di specie dal momento che il motivo di ricorso per cassazione riproduce le medesime doglianze dell’atto di appello.
La Corte territoriale, anche in questo caso, contrariamente a quanto esposto nel ricorso, ha risposto con motivazione immune da vizi logici ai rilievi in ordine alla corretta interpretazione del materiale probatorio, escludendo possibili travisamenti del contributo dichiarativo raccolto.
In particolare (p.19), ha chiarito che:
-l’unica documentazione consegnata alla curatela riguarda gli anni 2012/2014 successivi alla messa in liquidazione e consegnati dall’ultimo liquidatore COGNOME;
COGNOME ha escluso di avere mai ricevuto documentazione contabile da COGNOME producendo una certificazione che attestava lo smarrimento in data imprecisata della documentazione contabile presso la sede societaria; vi era stata unicamente una consegna frammentaria e dilatata in relazione solo ad alcune scritture;
le dichiarazioni etero accusatorie di COGNOME risultano riscontrate dalla teste COGNOME le cui dichiarazioni sono state oggetto di valutazione, ma non di travisamento da parte della Corte territoriale.
Sul lamentato travisamento delle dichiarazioni testimoniali di COGNOME, la pronuncia ha fatto corretta applicazione dei principi fissati da questa Corte secondo cui il vizio di “contraddittorietà processuale” (o “travisamento della prova”) vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell’esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l’eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di “fotografia”, neutra e a-valutativa, del “significante”, ma non del “significato”, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell’elemento di prova (Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos, Rv. 283370 – 01).
Il quarto e il quinto motivo, relativi alla contestazione di bancarotta patrimoniale impropria derivante da operazioni dolose, risultano infondati.
3.1. In ottica ricostruttiva è utile collocare la fattispecie di reato in esame nel contesto della norma incriminatrice, così da tracciarne i confini anche in rapporto alle altre ipotesi di reato contemplate dalla medesima disposizione di legge.
L’art. 223 l. fall., rubricato ” fatti di bancarotta fraudolenta “, disciplina i casi di bancarotta fraudolenta c.d. “impropria”, addebitabile a componenti degli organi gestori e di controllo delle società di capitali dichiarate fallite: amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori.
Il primo comma estende a coloro che rivestono le ridette qualifiche la punibilità per i medesimi fatti ascritti all’imprenditore individuale dall’art. 216 l. fall.
Il secondo comma punisce, invece, le medesime persone, se:
hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 del codice civile;
hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società.
Nelle ipotesi di cui al secondo comma il fallimento è evento del reato; “cagionare il fallimento” significa provocare il dissesto destinato a sfociare, anche se non con immediatezza, nella pronuncia dichiarativa di fallimento.
Vengono in rilievo condotte depauperative, a matrice dolosa, in cui, però l’elemento soggettivo si atteggia diversamente secondo la diversa ricostruzione fornitane dal legislatore.
In particolare, all’interno del n. 2, si rinviene la fattispecie del fallimento cagionato con dolo (caratterizzata dal fatto che l’evento del reato entra nel fuoco del dolo dell’agente) e quella del fallimento da operazioni dolose, in cui il dolo deve sorreggere i comportamenti che hanno condotto la società al fallimento.
2.2. In una prima e generale analisi, si può osservare che l’articolo 223, comma secondo, n. 2, seconda ipotesi, l. fall. incrimina come reato doloso ogni comportamento di amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori che costituisca inosservanza dei doveri ad essi rispettivamente imposti dalla legge e che abbia cagionato (o contribuito a determinare) il fallimento.
Le operazioni dolose che hanno cagionato il fallimento devono comportare un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa, laddove la nozione di “operazione” postula una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall’azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all’esito divisato (Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a., Rv. 247313-01, 247314-01).
La giurisprudenza di legittimità ha poi chiarito che le “operazioni dolose” possono anche non determinare un’immediata diminuzione dell’attivo e possono consistere nel compimento di qualunque atto intrinsecamente pericoloso per la salute economica e finanziaria dell’impresa e, quindi, anche in una condotta omissiva produttiva di un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l’impresa, sicché anche il protratto e sistematico omesso versamento di imposte e contributi previdenziali, da parte dell’amministratore, costituisce comportamento rilevante come scelta imprenditoriale dolosa, capace di determinare uno stato di gravissima e irrevocabile esposizione debitoria della società, tale da comportare il fallimento della società (Sez. 5, n. 12426 del 29/11/2013, dep. 21014, COGNOME, Rv. 259997; Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014, COGNOME, Rv. 260492, in motivazione).
L’incriminazione di cui si tratta non intende, però, sanzionare l’evasione fiscale e previdenziale di per sé, bensì la conseguenza di tali comportamenti, ossia la causazione o l’aggravamento del dissesto della società, e sempre che le violazioni fiscali e/o previdenziali possano qualificarsi come vere e proprie operazioni dolose, siano cioè espressione di specifiche e selettive scelte gestionali preordinate alla sistematica omissione dei relativi adempimenti (così Sez. 5, n. 26862 del 29/02/2024, NOME, non massimata).
Deve rifuggirsi, inoltre, dalla tentazione di affidarsi a un rigido automatismo: il mancato versamento dei tributi o degli oneri previdenziali, che abbiamo condotto la società al dissesto, non integra, per ciò solo, il reato, essendo necessario, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, la prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa (così Sez. 5, n. 26862 del 29/02/2024, cit.).
3.3. Il ricorrente appunta la propria critica sulla ricostruzione giuridica de: l’evento del reato (testualmente “fallimento” e non “dissesto”); il nesso di causalità (con l’irrilevanza delle concause, pena la violazione del principio di legalità e la necessità di sollevare incidente di costituzionalità); l’elemento soggettivo (rispetto al quale sollecita un intervento delle Sezioni Unite per dirimere un contrasto nella giurisprudenza di legittimità).
3.4. Evento e nesso di causalità.
Le questioni devolute con il ricorso si trovano tutte ampiamente trattate e sapientemente confutate nella sentenza n. 15613 del 05/12/2014, dep. 2015, G., i cui passaggi argomentativi verranno di seguito ripercorsi.
3.4.1. Anzitutto occorre indagare il corretto significato da attribuire al termine “fallimento” utilizzato dal legislatore.
L’art. 216 l. fall., richiamato dal primo comma dell’art. 223, si riferisce al “fallimento” in senso formale (ossia al provvedimento giurisdizionale); il secondo comma dell’art. 223 l. fall. fa riferimento, invece, al “fallimento” in senso sostanziale, cioè alla “situazione obiettiva di dissesto nella quale la società si viene a trovare per effetto delle operazioni poste in essere dal suo ceto gestorio”.
Infatti, se per “fallimento” nell’art. 223 l. fall. non si intendesse la situazione sostanziale di dissesto, si avrebbe una inutile duplicazione del riferimento alla dichiarazione di insolvenza già contenuto nel rinvio all’art. 216 l. fall. operato dal primo comma della norma.
Inoltre, poiché l’art. 223 l. fall. richiede la sussistenza del nesso causale tra condotta e fallimento, estremo della relazione eziologica deve essere proprio il dissesto e non il provvedimento giurisdizionale che accerta il fallimento.
3.4.2. Secondo ius receptum , non interrompono il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento, costituito dal fallimento della società, né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente del dissesto, né il fatto che l’operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto, poiché la nozione di fallimento, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara, è ben distinta da quella di dissesto, la quale ha natura economica ed implica un fenomeno in sé reversibile (cfr. Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Concu, Rv. 262189 – 01; Sez. 5, n. 8413 del 16/10/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259051 – 01; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a., Rv. 247316-01)
Militano in tal senso sia la disciplina generale sul concorso di cause dettata dall’art. 41 cod. pen., sia la fenomenologia stessa del dissesto, in quanto è situazione che non si verifica istantaneamente ma con progressione e durata nel tempo.
3.4.3. Nessun diverso apporto interpretativo può trarsi dall’art. 329 del Codice della crisi d’impresa, il quale riproduce testualmente l’art. 223 l. fall .
La circostanza che, nella descrizione della fattispecie di cui al n. 2 del secondo comma, il termine “fallimento” sia stato sostituito da “dissesto” non sottende alcuna volontà innovativa, ma costituisce mero recepimento della consolidata elaborazione giurisprudenziale formatasi sul punto, onde conferire ulteriore precisione semantica al precetto.
3.5. L’elemento soggettivo.
La costruzione dei caratteri dell’elemento psicologico della fattispecie in rassegna si trae, come anticipato, dal confronto con l’altra ipotesi delittuosa contenuta all’interno del medesimo numero 2, comma secondo, art. 223 l. fall
3.5.1. Il delitto di bancarotta fraudolenta rappresentato dalla causazione “dolosa” del fallimento concentra la volizione e rappresentazione sull’evento del reato, disinteressandosi della condotta prodromica; invece, nella diversa ipotesi della bancarotta fraudolenta da operazioni dolose, il dolo, nella caratterizzazione tipica voluta dal legislatore, si sposta sui comportamenti che hanno condotto la società al fallimento, quale evento non voluto.
La matrice dolosa della condotta è imperniata sulle operazioni prodromiche al dissesto; mentre l’evento non cade nel fuoco del dolo, neppure nella forma del dolo eventuale (atteggiamento psicologico che richiede «oltre all’accettazione del rischio o del pericolo» anche «l’accettazione, sia pure in forma eventuale, del danno, della lesione, in quanto essa rappresenta il possibile prezzo di un risultato desiderato», così Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn).
In questa prospettiva la giurisprudenza di legittimità è salda nell’affermare che il dolo deve colpire le operazioni – nel senso che è necessaria la consapevolezza e volontà dell’amministratore di porre in essere la complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei suoi elementi naturalistici in contrasto con i propri doveri a fronte degli interessi della società-ma non anche il dissesto, che deve essere “soltanto” prevedibile (Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, COGNOME, Rv. 265510 – 01; Sez. 5, n. 38728 del 03/04/2014, COGNOME, Rv. 262207 – 01; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa Di Risparmio Di Rieti S.p.a., Rv. 247315-01).
3.5.2. In alcune isolate pronunce si assiste a mere imprecisioni definitorie che evocano anche la categoria del ‘dolo eventuale’ (cfr. Sez. 5, n. 16111 del 08/02/2024, COGNOME), ma, nella sostanza, non si rilevano effettive conclusioni difformi, tanto che quelle stesse sentenze dichiarano espressamente di porsi in linea con gli arresti giurisprudenziali che le hanno precedute.
Non vi è spazio per rilevare un maturato contrasto nelle decisioni di legittimità e, dunque, il collegio ritiene di non dover rimettere la questione alle Sezioni Unite.
I motivi di ricorso, tuttavia, richiedono una puntualizzazione sul coefficiente psicologico che deve investire l’evento “dissesto” nel delitto di bancarotta fraudolenta da operazioni dolose.
3.5.3. In sintesi, occorre la consapevolezza di porre in essere un’operazione che, concretandosi in un abuso o infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico-finanziaria della società, determini la prevedibilità della decozione, quale effetto della condotta antidoverosa.
Nelle pronunce di questa Corte è ricorrente l’affermazione per cui dal sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali, frutto di una consapevole scelta gestionale da parte degli amministratori della società, consegue il prevedibile aumento della sua esposizione debitoria nei confronti dell’erario e degli enti previdenziali, con ogni conseguenza ipotizzabile in termini di dissesto dell’impresa a seguito delle iniziative del creditore pubblico tese alla riscossione di quanto non versato, degli interessi e delle sanzioni (Sez. 5, n. 30735 del 05/04/2019, Cassano, Rv. 276996; Sez. 5, n. 24752 del 19/02/2018, COGNOME e altri, Rv. 273337; Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 270046; Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, COGNOME, non massimata sul punto; Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, COGNOME, Rv. 261684; Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014, COGNOME, Rv. 260492; Sez. 5, n. 12426 del 29/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259997).
Nei casi indicati, dunque, le specifiche connotazioni delle operazioni dolose offrono fondamento al giudizio di prevedibilità dell’emersione delle operazioni stesse e, di conseguenza, dell’attivazione delle iniziative risarcitorie e/o sanzionatorie destinate a sfociare nel depauperamento e, quindi, nel dissesto della società (cfr. tra le ultime Sez. 5, n. 21484 del 09/05/2025, COGNOME, non massimata).
3.5.4. Va aggiunto che, in ossequio ai principi costituzionali, la prevedibilità dell’evento non voluto deve essere declinata non in astratto ma in concreto, valorizzando quindi tutti gli elementi del caso specifico, dovendosi bandire meccanismi automatici e generalizzanti dietro cui può nascondersi lo spettro di una responsabilità oggettiva.
Sul punto è utile richiamare quanto espresso dalla giurisprudenza costituzionale a partire dagli anni sessanta (cfr. in particolare sent. n. 42 del 1965) sino all’attualità sull’art. 116 cod. pen.).
Anche di recente la Consulta, nell’occuparsi del concorso anomalo, ha affermato che l’imputazione soggettiva di un reato al suo autore deve rispondere a un criterio di riferibilità soggettiva, aggiungendo, però, che tale criterio può formare oggetto di graduazione. In tale ottica ha ritenuto compatibile con il dettato
costituzionale anche la « prevedibilità in concreto, tenuto conto di tutte le peculiarità del caso di specie» e ha spiegato che il reato non voluto deve «potere rappresentarsi alla psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto » (sentenza n. 55 del 2021).
Se ne trae il convincimento che, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta da operazioni dolose, deve sussistere non solo un rapporto di causalità materiale, ma anche un rapporto di causalità psichica, e cioè l’agente deve potersi rappresentare il dissesto (non voluto) secondo l’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile delle operazioni dolosamente compiute; in tal modo si richiede una partecipazione psichica dell’agente al fatto e quindi un coefficiente di colpevolezza che tiene il reato indenne da dubbi di costituzionalità.
Il che consente di inquadrare, in aderenza effettiva al principio previsto dall’art. 27 Cost., la responsabilità penale derivante dal delitto in rassegna nell’ambito delle forme dolose previste dagli artt. 42 e 43 cod. pen.
3.6. La decisione impugnata aderisce perfettamente alle coordinate appena tracciate, rappresentando che all’imputato può essere attribuito l’incremento dei debiti erariali nel periodo in cui ricopriva la carica amministrativa sin dalla costituzione dalla società avvenuta nel 1993 e fino alla messa in liquidazione nell’anno 2008, periodo che coincide con la operatività della società.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 17 giugno 2025