Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 1782 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 1782 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/10/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a CAIVANO il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a COLLEGNO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 20/05/2022 della CORTE APPELLO di TORINO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NIC:COGNOME
che ha concluso chiedendo udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Torino riformava parzialmente in senso favorevole agli imputati, limitatamente alla determinazione del trattamento sanzionatorio, la sentenza con cui il tribunale di Verbania, in data 22.11.2016, aveva condannato COGNOME NOME e COGNOME NOME, ciascuno alle pene, principali e accessorie, ritenute di giustizia, in relazione ai fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione e bancarotta impropria da reato societario loro rispettivamente ascritti, oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile, in relazione al fallimento della società “RAGIONE_SOCIALE“, dichiarato il 26.7.2012, confermando nel resto la sentenza impugnata, ad eccezione della condanna del IVarzano al risarcimento del danno, in relazione alla quale la corte territoriale rimetteva le parti innanzi al giudice civile.
COGNOME e al COGNOME, in particolare, viene addebitato, il primo nella sua qualità di amministratore di diritto della società fallita, il secondo nella sua qualità di amministratore di fatto, di avere concorso ad aggravare il dissesto della “RAGIONE_SOCIALE” (capo a dell’imputazione).
In particolare, rileva la corte territoriale, nel bilancio al 31.12.2008 l’unico cespite immobiliare presente nel patrimonio della società veniva stimato per un valore di euro 13.859.698,93, fatto non corrispondente al vero, posto che, appena sei mesi prima, in occasione della trasformazione della fallita da RAGIONE_SOCIALE in RAGIONE_SOCIALE, lo stesso cespite era stato stimato dallo RAGIONE_SOCIALE professionale al quale si era rivolta la società in euro 12.000.000,00 milioni, con correlativa creazione, dunque, di una riserva di bilancio pari a euro 3.500.000,00, cui erano state imputate le successive perdite, così consentendo la prosecuzione dell’attività di impresa sino alla data del fallimento, senza l’adozione dei provvedimenti previsti dal codice civile in caso di riduzione del capitale, in tal modo aggravando il dissesto, in pregiudizio delle ragioni del ceto creditorio.
Al solo COGNOME viene addebitata anche la bancarotta frauclolenta patrimoniale per distrazione, di cui al capo c), in quanto tutti i beni
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mobili della società fallita, per un valore di euro 925.854,74, erano stati ceduti in pagamento di fittizie prestazioni professionali ad COGNOME NOME, sedicente avvocato, non essendo munito del titolo professionale, ed inoltre era stato concesso in affitto alla “RAGIONE_SOCIALE“, riconducibile all’COGNOME, l’azienda alberghiera costituente l’unica attività della società, per la durata di nove anni, per un canone annuo di soli euro 60.000,00, oltre I.V.A., mai riscosso.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione i suddetti imputati, ciascuno con un autonomo atto di impugnazione.
2.1 II COGNOME, in particolare, nel ricorso a firma del difensore di fiducia, AVV_NOTAIO, lamenta: 1) violazione di legge e vizio di motivazione, in punto di mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale attraverso l’esame dei testi indicati, che avrebbero potuto chiarire come il COGNOME sia stato vittime delle manovre dell’COGNOME, divenuto il vero dominus della società fallita, con conseguente impossibilità di configurare il dolo in capo al ricorrente, dovendosi, pertanto, derubricare il fatto distrattivo in bancarotta semplice; 2) violazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato di false comunicazioni sociali ex art. 2621, c.c., posto che la nuova formulazione di tale norma esclude dall’ambito delle condotte penalmente rilevanti le valutazioni estimative, come quella contestata al COGNOME avente ad oggetto il valore del cespite immobiliare in precedenza indicato; 3) violazione di legge con riferimenl:o alle fattispecie di bancarotta impropria e bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione di cui ai capi a) e c), non avendo la corte territoriale dimostrato l’esistenza del dolo specifico in capo al ricorrente, il quale ha agito al solo scopo di salvare a ogni costo le sorti della società, potendo la sua condotta essere qualificata, a tutto voler concedere, in termini di bancarotta semplice, ex art. 217, I.fall.
2.2. Il COGNOME, nel ricorso a firma del difensore di fiducia, AVV_NOTAIO, lamenta: 1) violazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato di false comunicazioni sociali ex art. 2621, c.c.,
posto che la nuova formulazione di tale norma esclude dall’ambito delle condotte penalmente rilevanti le valutazioni estimative.
In particolare rileva il ricorrente, partendo dall’analisi della nota sentenza delle Sezioni Unite Penali di questa Corte, n. 22474 del 2016, che la maggior parte delle poste a bilancio sono di per sé valutative, dunque non connotate da quei “fatti materiali” richiesti attualmente dalla legge penale affinché venga integrata la condotta fraudolenta. Nel caso di specie la rivalutazione dell’immobile effettuata ai soli fini civilistici è stata eseguita attraverso una stima’ dunque una semplice valutazione, approvata dal RAGIONE_SOCIALE e avallata da un commercialista, per cui la condotta in contestazione non è più prevista dalla legge come reato; 2) violazione di legge, in quanto, premesso che al COGNOME viene contestato il reato di bancarotta fraudolenta impropria da false comunicazioni sociali ex art. 2621, c.c., i giudici di merito, da un lato, non hanno dimostrato la sussistenza in capo all’imputato del dolo specifico di avere agito allo scopo di conseguire un profitto proprio o altrui; dall’altro, non hanno provato l’esistenza del necessario nesso causale tra il falso contestato, il dissesto e il fallimento della società; 3) violazione di legge, in punto di qualificazione giuridica della condotta contestata all’imputato, che va ricondotta alla previsione di cui all’art. 217, I. fall., posto che, non solo non è stato dimostrato che il COGNOME abbia falsificato il bilancio e che abbia agito allo scopo di condurre la società di cui si discute al fallimento o alla decozione, ma, al contrario, vi è la prova che egli abbia agito con il solo intendo di ripianare l’esposizione debitoria nei confronti del MPS e di risanare il bilancio; 4) vizio di motivazione in punto di mancato accoglimento della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria mediante l’escussione della teste COGNOME, che ha proceduto alla materiale valutazione dell’immobile, l’unica persona in grado di potere spiegare se effettivamente la valutazione sia stata falsificata dal COGNOME ovvero se in tale valutazione vi sia stato un errore.
3. Con requisitoria scritta del 21.9.2023 il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, AVV_NOTAIO,
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chiede che entrambi i ricorsi siano dichiarati inammissibili, perché generici e manifestamente infondati.
Con conclusioni scritte del 26.9.2023 l’AVV_NOTAIO insiste per l’accoglimento del ricorso.
Premesso che le sentenze di primo e di secondo grado vanno lette congiuntamente, costituendo esse un unico complessivo corpo decisionale, in quanto la sentenza di appello, con riferimento all’affermazione di responsabilità degli imputati, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 37295 del 12.6.2019), i ricorsi vanno dichiarati inammissibili per le seguenti ragioni.
Iniziando a esaminare il ricorso proposto nell’interesse del COGNOME, va rilevata la manifesta infondatezza e la genericità del motivo di ricorso sintetizzato sub n. 1).
Invero nel giudizio di appello, la presunzione di tendenziale completezza del materiale probatorio già raccolto nel contraddittorio di primo grado rende comunque inammissibile la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale che si risolva in una attività “esplorativa” di indagine, come quella prospettata dal ricorrente, finalizzata alla ricerca di prove anche solo eventualmente favorevoli al ricorrente, non sussistendo pertanto, riaspetto ad essa, alcun obbligo di risposta da parte del giudice del gravame (cfr. Sez. 3, n. 47293 del 28/10/2021, Rv. 282633).
Come chiarito dall’orientamento da tempo dominante in sede di legittimità, del resto, stante l’eccezionalità dell’istituto processuale contemplato nell’art. 603 c.p.p., il mancato accoglimento della richiesta volta ad ottenere la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale può essere censurato in sede di legittimità solo quando risulti dimostrata l’esistenza, nel tessuto motivazionale che sorregge la decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità ricavabili dal testo del medesimo provvedimento (come previsto dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p.) e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate qualora fosse stato provveduto, come richiesto, all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in sede
di appello (cfr., ex plurimis, Cass., sez. III, 23/05/2013, n. 45647), lacune e manifeste illogicità che, nel caso in esame non appaiono configurabili, essendo l’affermazione di responsabilità dell’imputato fondata su di un puntuale esame delle risultanze processuali, con particolare riferimento sia all’operazione di stima dell’unico cespite immobiliare presente nel patrimonio della società, di cui si è detto in premessa, sia ai fatti distrattivi, ascritti al solo COGNOME, del pari in precedenza indicati (cfr. pp.11-18 della sentenza oggetto di ricorso).
Il ricorrente, d’altro, canto non ha specificamente indicato le lacune e le manifeste illogicità del tessuto motivazionale della sentenza di appello, presentandosi, in realtà le sue doglianze come censure che propongono un’ipotizzata diversa lettura dei fatti e del materiale probatorio, non consentita in sede di legittimità.
5.1. Manifestamente infondata appare la censura articolata sub n. 2).
Al riguardo si osserva che, secondo l’orientamento da tempo dominante nella giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, il reato di bancarotta fraudolenta impropria, di cui all’art. 223, secondo comma, n. 1, R.D. 16 marzo 1942 n. 267, da reato societario di false comunicazioni sociali, previsto dall’art. 2621 cod. civ., nel testo modificato dalla legge 27 maggio 2015, n. 69, che ha soppresso l’inciso «ancorché oggetto di valutazioni» con riferimento ai «fatti materiali non rispondenti al vero», è configurabile in relazione alla esposizione in bilancio di enunciati valutativi, se l’agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati’ se ne discosti consapevolmente e senza fornire adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 890 del 12/11/2015, Rv. 265691; Sez. 5 n. 12793 del 02 marzo 2016; Sez. 5, n. 46689 del 30/06/2016, Rv. 268672).
Tale orientamento giurisprudenziale ha ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite Penali di questa Corte, che, con la sente n. 22474 del 31/03/2016, hanno ribadito come il reato di false comunicazioni sociali, previsto dall’art. 2621 cod. civ., nel testo modificato dalla legge 27 maggio 2015,
n. 69, sia configurabile in relazione alla esposizione in bilancio di enunciati valutativi, se l’agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente e senza fornire adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni.
Ciò posto, non è revocabile in dubbio che nel caso in esame l’avvenuto discostamento dal principio contabile applicabile ha inciso negativamente sulla legittimità dell’iscrizione a bilancio di una “riserva tecnica” rivelatasi fittizia, voce che rappresenta la copertura di perdite presenti e future, iscrizione avvenuta, lo si ripete, in violazione dei relativi principi contabili, che fissano criteri rigorosi per l’iscrizione delle riserve in bilancio (cfr., in questo senso, la già richiamata Sez. 5, n. 46689 del 30/06/2016, Rv. 268672).
Appare, pertanto, del tutto immune da vizi il percorso argomentativo seguito dal giudice di appello, che ha evidenziato come gli imputati si siano discostati dai criteri corretti di valutazione, come plasticamente messo in luce dalla circostanza, incontestata, che il medesimo immobile, come si è detto, appena sei mesi prima, “era stato stimato dalla stessa società RAGIONE_SOCIALE in euro 12.000.000,00″ ed era stato assicurato per un valore di 11.000.000,00 di euro, con la conseguenza che l’appostazione in bilancio effettuata per un valore di euro 13.859.698,93 deve ritenersi falsa, perché, come correttamente rilevato dal giudice di primo grado, “obiettivamente ed ingiustificatamente superiore al valore di mercato del cespite” (cfr. p. 5 della sentenza del tribunale).
Si tratta un punto di particolare importanza.
Come rilevato, infatti, dal giudice di primo grado l’art. 15, commi da 16 a 23, del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla I. n. 2 del 28 gennaio 2009, prevedeva la possibilità di riv&utare i beni immobili, risultanti dal bilancio in corso al 31.12.2007, anche in deroga all’art. 2426, c.c., e ad altre disposizioni vigenti, delle imprese che non adottano i principi contabili internazionali nella redazione del
bilancio, al fine di consentire alle imprese in un periodo caratterizzato da una situazione di forte crisi economico-finanziaria, di “intervenire” sul proprio capitale, anche attraverso una rivalutazione dei beni immobili facenti parte del patrimonio sociale, purché “il valore rivalutato attribuito ai singoli beni immobili” non fosse “superiore al valore di mercato o al maggior valore che poteva essere fondatamente attribuito agli stessi in base alla valutazione della loro capacità produttiva e della possibilità di utilizzazione economica” (cfr. pp. 4-5 della sentenza di primo grado).
5.2. Del tutto generico appare il terzo motivo di ricorso, con il quale l’imputato svolge censure incentrate, peraltro, su di una diversa valutazione delle risultanze processuali, non consentita.
In questa sede di legittimità, infatti, è precluso il percorso argomentativo seguito dal ricorrente, che si risolve in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posi:o che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Cass., Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Cass., Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Cass.., Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758).
Al riguardo va ribadito il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di bancarotta impropria da reato societario, con riferimento al reato di cui all’art. 2621, c.c., il dolo richiede una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva ritenuto sussistente l’elemento psicologico del reato in capo agli amministratori di fatto e di diritto, a fronte della esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica e finanziaria della società, al fine di ottenere l’ammissione al concordato preventivo e, comunque, la continuazione
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dell’attività d’impresa mediante manipolazione dei dati contabili e conseguente falsa rappresentazione della situazione contabile ai creditori e agli organi della procedura: cfr., ex plurimis’ Sez. 5, n. 50489 del 16/05/2018, Rv. 274449, nonché Sez. 5, n. 42257 del 06/05/2014, Rv. 260356).
Va, inoltre, del pari ribadito, con riferimento al delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, l’orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il mancato rinvenimento all’atto della dichiarazione di fallimento di beni o valori societari costituisce valida presunzione della loro dolosa distrazione, a condizione che sia accertata, disponibilità, da parte dell’imputato, di detti beni o attività nella loro esatta dimensione e al di fuori di qualsivoglia presunzione (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 19049 del 19/02/201.0, Rv. 247251; Sez. 5, n. 35882 del 17/06/2010, Rv. 248425; Sez. 5, n. 42382 del 24/09/2004, Rv. 231011; Sez. 5, n. 45044 del 24/10/2022, Rv. 283812) e che l’elemento soggettivo del reato è integrato dal dolo generico, per il quale è sufficiente che la condotta di colui che pone in essere l’attività distrattiva sia assistita dalla consapevolezza che le operazioni che si compiono sul patrimonio sociale siano idonee a cagionare un danno ai creditori, senza che sia necessaria l’intenzione di causarlo ovvero che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 21846 del 13/02/2014, Rv. 260407, Sez. 5, n. 51715 del 05/11/2014, Rv. 261739).
Dolo che, nel caso in esame, correttamente la corte territoriale ha desunto, come si evince dal tenore complessivo della motivazione, dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa (cfr. Sez. 5, n. 30726 del 09/09/2020, Rv. 279908; Sez. 6, 6.4.2011, n. 16465, Rv. 250007).
Il giudice di appello, infatti, ha evidenziato, non solo il mancato rinvenimento da parte degli organi fallimentari dei beni ceduti in pagamento di fittizie prestazioni professionali allo “RAGIONE_SOCIALE” e la concessione in locazione alla “RAGIONE_SOCIALE“, riconducibile sempre al
sedicente avvocato COGNOME, presentatosi come professionista in grado di rinegoziare l’ingente debito della società fallita con l’istituto bancario Monte dei Paschi di Siena, dell’azienda alberghiera costituente l’unica attività della fallita, per un canone annuo di soli 60.000,00 eunD, oltre I.V.A., mai riscosso, ma anche come lo stesso imputato abbia ammesso “che le prestazioni professionali non erano mai state eseguite dall’COGNOME, il quale non era mai diventato avvocato, e che l’operazione aveva avuto il solo scopo di mettere al riparo i beni societari dall’aggressione dei creditori”, come del resto anche l’affitto del ramo d’azienda (cfr. pp. 16-17 della sentenza di secondo grado).
Lo stesso dicasi per il reato di cui al capo a), posto che gli imputati non si sono limitati a discostarsi da corretti criteri di valutazione contabile, ma a tanto hanno provveduto allo scopo di “coprire le perdite che continuavano ad accumularsi, per evitare di adottare i provvedimenti richiesti dal codice civile, aggravando il dissesto della società”, già conclamato, posto che, come sottolineato dal giudice di appello, richiamando sul punto la relazione del curatore fallimentare, la società fallita era stata “fin dall’inizio organizzata con modalità antieconorniche”, presentando, “fin dalla costituzione e al termine di ogni esercizio, costantemente perdite, coperte mediante erosione del capitale sociale, o con rinuncia dei soci ai finanziamenti e, da ultimo, mediante l’utilizzo della riserva straordinaria di rivalutazione dell’immobile” (cfr. pp. 15-16 della sentenza oggetto di ricorso).
6. Passando a esaminare il ricorso proposto nell’interesse del COGNOME non può non rilevarsi come alcuni dei rilievi formulati da quest’ultimo abbiano già trovato risposta, esaminando la posizione del coimputato COGNOME.
6.1. Ciò posto, inammissibile deve ritenersi il quarto motivo di ricorso per le medesime ragioni per le quali nelle pagine precedenti è stato ritenuto inammissibile il primo motivo di ricorso articolato dal COGNOME, alla cui lettura si rimanda.
Anche in questo caso, infatti, a fronte del percorso motivazionale del tutto esaustivo e coerente seguito dalla corte territoriale, come già
evidenziato, difettano i presupposti per potere censurare in questa sede di legittimità il mancato accoglimento della richiesta volta ad ottenere la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale attraverso l’escussione in qualità di teste della COGNOME, che si è risolta in una mera attività “esplorativa” di indagine, alla ricerca di prove eventualmente favorevoli al ricorrente.
6.2. In relazione ai motivi di ricorso relativi alla ritenuta sussistenza del delitto di cui al capo a) e alla configurabilità in capo al COGNOME, in qualità di amministratore di fatto della società fallita, del relativo dolo, si è già detto affrontando nelle pagine precedenti, alla cui lettura si rimanda, le doglianze rappresentate al riguardo dal COGNOME.
Appare opportuno, al riguardo, ribadire il già menzionato principio, secondo cui in tema di bancarotta impropria da reato societario, con riferimento al reato di cui all’art. 2621 cod. civ., il dolo richiede una volontà protesa al dissesto, da intendersi non già quale intenzionalità di insolvenza, bensì quale consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico (cfr. Sez. 5, n. 50489 del 16/05/2018, Rv. 274449).
Proprio in applicazione di tale principio, come si è visto, nel menzionato precedente la Corte di Cassazione, affrontando una fattispecie analoga a quella in esame, ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva ritenuto sussistente l’elemento psicologico del reato in capo agli amministratori di fatto e di diritto, a fronte della esposizione di fatti materiali non rispondenti al vero sulla situazione economica e finanziaria della società, al fine di ottenere l’ammissione al concordato preventivo e, comunque, la continuazione dell’attività d’impresa mediante manipolazione dei dati contabili e conseguente falsa rappresentazione della situazione contabile ai creditori e agli organi della procedura.
Orbene, con riferimento al diretto, consapevole e volontario coinvolgimento del NOME nel fatto di bancarotta impropria di cui si discute, i rilievi difensivi risultano inammissibili, perché generici, nnanifestamenti infondati e versati in fatto.
I giudici di merito, invero, dopo avere analiticamente illustrato le ragioni per cui l’imputato è stato ritenuto amministratore di fatto della società fallita dalla primavera del 2008 al novembre del 2010 (senza che sul punto il ricorrente abbia articolato specifiche doglianze, che non si risolvano in una generica lettura alternativa delle risultanze processuali, in quanto tale non consentita: cfr. ex plurimis, Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758), hanno evidenziato come, dalle risultanze processuali e, in particolare, dal contenuto di una mail inviata il 19.6.2009 dal COGNOME, presidente del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE della società fallita, al ragioniere COGNOME, si deduca che il COGNOME “partecipò attivamente, quale suggeritore e propositore, all’approvazione del bilancio chiuso al 31.12.2008”, alla quale egli non partecipò formalmente, non avendovi titolo nella sua qualità di amministratore di fatto, senza tacere che, come riferito dal teste COGNOME, componente del RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, quest’ultimo e il COGNOME si erano opposti “ferocemente, nel corso di una riunione convocata in vista dell’approvazione del bilancio, al progetto di rivalutazione del cespite portato avanti dal COGNOME (cfr. pp. 6-7 della sentenza di primo grado; 12-14 della sentenza di appello).
Dunque anche per il COGNOME, come per il COGNOME, il dolo è stato correttamente desunto dai giudici di merito sulla base delle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa (cfr. Sez. 5, n. 30726 del 09/09/2020, Rv. 279908; Sez. 6, 6.4.2011, n. 16465, Rv. 250007).
In ordine all’elemento oggettivo del reato di cui si discute, oltre alle osservazioni già svolte, appare opportuno aggiungere che, alla luce del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta impropria prevista dall’art. 223, secondo comma, n. 2, R.D. 16 maggio 1942, n. 267, non interrompono il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e l’evento, costituito dal fallimento della società, né la preesistenza alla condotta di una causa in sé efficiente del dissesto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 cod, pen., né il fatto che l’operazione dolosa in questione
abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto, poiché la nozione di fallimento, collegata al fatto storico della sentenza che lo dichiara, è ben distinta da quella di dissesto, la quale ha natura economica ed implica un fenomeno in sé reversibile.
Sicché il reato di bancarotta impropria da reato societario sussiste anche quando la condotta illecita abbia concorso a determinare solo un aggravamento del dissesto già in atto della società (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Rv. 262189; Sez. 5, n. 29885 del 09/05/2017, Rv. 270877).
Sotto questo profilo deve ancora una volta riconoscersi la completezza e la correttezza giuridica del percorso motivazionale seguito dai giudici di merito, che hanno evidenziato, come in presenza della situazione di dissesto conclamato, caratterizzata da un pesante indebitamento, cui si è fatto riferimento esaminando la posizione del COGNOME, l’avere protratto in maniera artificiosa l’attività della “RAGIONE_SOCIALE” “per oltre tre anni e mezzo”, invece di provvedere a immettervi immediatamente “denaro fresco per reintegrare il capitale sociale” o, in alternativa, a disporre la chiusura dell’attività, consentendo l’apertura di una procedura concorsuale, ha determinato un oggettivo aggravamento del dissesto (cfr. pp. 14-16 della sentenza di secondo grado; p. 7 della sentenza di primo grado.).
Sul punto i rilievi difensivi devono ritenersi, pertanto, manifestamente infondati e versati in fatto, al pari di quelli sintetizzati sub n. 3) nella parte introduttiva della presente motivazione.
7. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere questi ultimi immuni da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
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dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 5.10.2023.