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Bancarotta impropria: quando il Fisco non pagato costa caro

La Corte di Cassazione, con la sentenza 15055/2025, ha confermato la condanna per bancarotta impropria a carico di due amministratori che avevano causato il fallimento della loro società accumulando un debito fiscale di oltre 1,5 milioni di euro. La Corte ha chiarito che l’omissione sistematica del versamento di imposte e contributi costituisce un’operazione dolosa idonea a provocare il dissesto, essendo sufficiente la consapevolezza del pericolo per la salute finanziaria dell’azienda. Per il liquidatore, accusato di bancarotta semplice documentale, la Corte ha invece annullato con rinvio la sentenza, chiedendo di rivalutare la possibile applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, dato il suo breve incarico.

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Pubblicato il 7 ottobre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Bancarotta Impropria per Debiti Fiscali: La Cassazione Conferma la Linea Dura

La gestione di un’impresa comporta oneri e responsabilità, tra cui il puntuale versamento di imposte e contributi. Ma cosa succede quando questo obbligo viene sistematicamente disatteso, portando la società al collasso? La Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 15055/2025, offre una risposta netta, confermando che tale condotta può integrare il grave reato di bancarotta impropria. Questa decisione ribadisce un principio fondamentale: la consapevolezza di mettere a rischio la sopravvivenza dell’azienda con operazioni scellerate è sufficiente per una condanna, anche senza la volontà esplicita di provocarne il fallimento.

I Fatti del Caso

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda due amministratori di una S.r.l., dichiarata fallita, e il suo successivo liquidatore. Ai due amministratori veniva contestato il reato di bancarotta impropria per aver causato il dissesto della società attraverso operazioni dolose. In particolare, per anni avevano sistematicamente omesso il versamento di contributi e imposte, accumulando un debito erariale di oltre 1,5 milioni di euro. Questa gestione, culminata nell’abbandono di fatto dell’attività, aveva portato inevitabilmente alla dichiarazione di fallimento.
Al liquidatore, invece, era stato imputato il reato di bancarotta semplice documentale, per non aver tenuto i libri e le scritture contabili obbligatorie nel periodo del suo incarico, antecedente alla data del fallimento.

I Motivi del Ricorso

Gli imputati hanno presentato ricorso in Cassazione. Gli amministratori sostenevano che il mancato pagamento delle imposte non costituisse un’operazione dolosa causale del fallimento, ma un mero ‘risparmio di spesa’, e che la loro condotta fosse, al più, colposa e non dolosa. Contestavano, inoltre, il mancato riconoscimento di attenuanti.
Il liquidatore, dal canto suo, eccepiva di non aver mai ricevuto una formale richiesta di consegna dei documenti dal curatore fallimentare e che, in ogni caso, il suo breve incarico (appena quattro mesi) avrebbe dovuto condurre al riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.

La Decisione della Cassazione sulla Bancarotta Impropria

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente i ricorsi degli amministratori. I giudici hanno ribadito che il reato di bancarotta impropria da operazioni dolose è un ‘reato a forma libera’. Ciò significa che può essere integrato da una pluralità di atti, anche singolarmente non illeciti, che nel loro complesso risultino funzionali a causare il fallimento. L’omissione sistematica e protratta del versamento dei debiti fiscali e previdenziali è una classica ipotesi di tale condotta.
Un punto cruciale della sentenza riguarda l’elemento psicologico del reato. Non è necessaria la volontà specifica di far fallire la società (dolo specifico), ma è sufficiente il cosiddetto ‘dolo generico’. L’amministratore deve essere consapevole di porre in essere un’operazione pericolosa per la salute economico-finanziaria della società, accettandone il rischio. Nel caso di specie, un debito erariale di tale entità, a fronte di un attivo pari a zero, rendeva oggettivamente prevedibile il dissesto. Per questo motivo, la condotta degli amministratori integrava pienamente il reato di bancarotta impropria.

La Posizione del Liquidatore: Bancarotta Semplice e Tenuità del Fatto

Diversa è stata la sorte del ricorso del liquidatore. La Corte ha ritenuto infondato il primo motivo: l’obbligo di tenere le scritture contabili e di consegnarle agli organi della procedura fallimentare deriva direttamente dalla legge e non necessita di una specifica richiesta del curatore. Si tratta di un reato di pura condotta, volto a tutelare la possibilità per i creditori di ricostruire il patrimonio aziendale.
Tuttavia, la Cassazione ha accolto il secondo motivo, relativo alla causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.). La Corte d’appello aveva respinto tale richiesta in modo generico, senza considerare adeguatamente il limitato arco temporale dell’incarico del liquidatore. Pertanto, la sentenza è stata annullata su questo punto, con rinvio a un nuovo giudice per una valutazione più approfondita della specifica posizione del liquidatore.

Le Motivazioni

Le motivazioni della Corte si fondano su una distinzione chiara tra le diverse responsabilità. Per gli amministratori, la condotta protratta per anni, con l’accumulo di un debito ingente e l’azzeramento delle attività, non può essere considerata una semplice negligenza. È un’operazione dolosa che ha un nesso causale diretto con il fallimento. Il dolo è ‘in re ipsa’, cioè evidente nella natura stessa dell’operazione e nella sua astratta prevedibilità di causare il dissesto. Per il liquidatore, invece, pur confermando l’esistenza del reato documentale, la Corte sottolinea la necessità di valutare la proporzionalità della sanzione penale, tenendo conto di tutte le circostanze concrete, inclusa la durata del suo coinvolgimento.

Le Conclusioni

La sentenza in esame lancia un messaggio inequivocabile agli amministratori di società: le difficoltà economiche non possono mai giustificare l’omissione sistematica degli obblighi fiscali e contributivi. Tale comportamento, quando conduce al fallimento, configura il grave reato di bancarotta impropria. La pronuncia consolida un orientamento giurisprudenziale rigoroso che non richiede la prova di un intento fraudolento finalizzato al fallimento, ma si accontenta della consapevolezza di porre in essere atti gestori intrinsecamente pericolosi per la continuità aziendale. Al contempo, apre alla possibilità di una valutazione più attenta della posizione di figure, come il liquidatore, il cui ruolo è stato marginale o temporalmente limitato, ai fini dell’applicazione della non punibilità per tenuità del fatto.

L’omesso versamento sistematico di imposte e contributi può integrare il reato di bancarotta impropria?
Sì. La Corte di Cassazione ha stabilito che l’omissione sistematica e protratta del versamento dei debiti fiscali e previdenziali, se causa del dissesto, costituisce una delle ‘operazioni dolose’ che integrano il reato di bancarotta impropria, poiché mette a rischio la salute economico-finanziaria della società.

Per la condanna per bancarotta impropria è necessario che l’amministratore volesse specificamente far fallire la società?
No, non è necessario. Per la configurazione del reato è sufficiente il ‘dolo generico’, ovvero la consapevolezza da parte dell’amministratore di compiere un’operazione pericolosa per l’azienda e l’accettazione del rischio che da essa possa derivare il dissesto. Non occorre la prova della volontà diretta a provocare il fallimento.

Il liquidatore di una società è sempre responsabile per la mancata tenuta delle scritture contabili, anche per un breve periodo?
Il liquidatore ha l’obbligo legale di tenere e consegnare le scritture contabili, e la sua omissione integra il reato di bancarotta semplice documentale a prescindere da una richiesta del curatore. Tuttavia, la brevità del suo incarico e altre circostanze concrete possono essere valutate dal giudice per applicare la causa di non punibilità per ‘particolare tenuità del fatto’, come indicato dalla Cassazione nel caso di specie.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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