Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 7816 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 7816 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 09/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a FIRENZE il 04/06/1955
avverso la sentenza del 19/04/2024 della CORTE di APPELLO di FIRENZE
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
letta la requisitoria con cui il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
lette le conclusioni scritte presentate dagli avv.ti NOME COGNOME e COGNOME i quali, nell’interesse, rispettivamente, della parte civile e dell’imputato, hanno chiesto, il primo il rigetto e, il secondo, l’accoglimento del ricorso,
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 19 aprile 2024, la Corte di appello di Firenze ha confermato la sentenza del Tribunale di Siena in data 18 febbraio 2021 con la quale NOME COGNOME era stato condannato alla pena di 4 anni di reclusione in quanto riconosciuto colpevole del delitto di bancarotta fraudolenta impropria ai sensi degli artt. 223, comma 2, n. 1, r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fall.), per avere, nella sua qualità di presidente del consiglio di amministrazione della società RAGIONE_SOCIALE concorso nel cagionarne il dissesto, esponendo, nel bilancio relativo all’esercizio 2010, al fine di ingannare i soci o comunque il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, fatti non rispondenti al ver (indicando un patrimonio netto di 82.880,00 euro benché lo stesso fosse negativo per 584.295,00 euro ed esponendo un risultato economico in utile di 51.127,00 euro nonostante che esso fosse in perdita di 606.048,00 euro, con sovrastime derivate dall’iscrizione in bilancio, alla voce «ricavi delle vendite e dell prestazioni», della falsa somma di 1.128.000,00 euro, benché essa ammontasse a 460.825,00 euro e dall’iscrizione, alla voce «crediti esigibili entro l’esercizi successivo», della falsa somma di 1.582.820,00 euro benché essa ammontasse a 915.645,00, euro) e omettendo di adottare, a partire dall’esercizio 2010, i provvedimenti di ricapitalizzazione o di scioglimento imposti dagli artt. 2482-bis e 2482-ter cod. civ. pur in presenza delle relative condizioni, per questa via continuando ad accumulare perdite per 635.541,00 euro sino al fallimento del 7 novembre 2014 (che aveva registrato uno stato passivo pari a circa 19.700.012,19 euro, stratificatosi prevalentemente a partire dal 2011). Con lo stesso provvedimento COGNOME è stato condannato alle pene accessorie della inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e della incapacità a esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di 4 anni e a quella dell’interdizione dai pubblici uffici per la durata di 5 anni. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso COGNOME a mezzo del difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME deducendo quattro distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione dell’art. 2621, primo comma, cod. civ. in relazione all’art. 223, comma 2, n. 1, legge fall. L’art. 2621 cod. civ., richiamato dall’art. 222, legge fall., è stato modificato dal legge n. 69 del 2015 e, dunque, in epoca successiva sia al materiale perfezionarsi delle condotte di falso in bilancio, risalenti al 2011, sia alla data della sentenza dichiarativa del fallimento; modifica che avrebbe realizzato una riformulazione
sostanziale della fattispecie. Dunque, in applicazione dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, regolati dall’art. 2 cod. peri., avrebbe dovuto applicarsi la disposizione entrata in vigore successivamente alla redazione e alla approvazione del bilancio della RAGIONE_SOCIALE relativo all’esercizio 2010, in quanto più favorevole, considerata l’aggiunta dell’avverbio «concretamente» che avrebbe determinato la necessità di una «idoneità decettiva della condotta». Infatti, l’appostazione delle voci attive riferite all’anno 2010, anziché all’anno successivo, non avrebbe determinato alcun «concreto» effetto decettivo ovvero alcuna concreta «induzione in errore», posto che non vi sarebbe stato alcun errore sull’effettiva consistenza e potenzialità patrimoniale della società al momento dell’approvazione del bilancio e, quindi, della successiva comunicazione sociale, distonica forse con la prassi contabile, ma non falsa e tanto meno finalizzata a trarre in inganno i destinatari della divulgazione, posto che quando «il pubblico» fu messo a conoscenza del bilancio 2010 (con le appostazioni afferenti ai futuri incassi delle somme) i relativi importi sarebbero stati già nella disponibilità della società. Dunque, dall’insussistenza del reato presupposto conseguirebbe anche il travolgimento della bancarotta impropria.
Quanto al supposto obbligo dell’amministratore di provvedere con urgenza alla ricapitalizzazione ovvero allo scioglimento della società, secondo la giurisprudenza di legittimità «l’adozione della deliberazione di ripianamento delle perdite o di trasformazione, atta a rimuovere la causa di scioglimento costituita dalla riduzione del capitale, conseguente a perdite d’esercizio, ad ammontare inferiore al minimo di legge, non è preclusa dal fatto di essere assunta successivamente all’esercizio nel corso del quale si sono verificate le perdite» (Cass. civ., Sez. 6, n. 2984 del 1/02/2022), posto che l’applicazione del criterio della prudenza nella guida di una società costituisce, per l’amministratore, un obbligo di natura amministrativa e contabile, ma anche di strategia produttiva e commerciale finalizzata al raggiungimento dello scopo dell’ente. E dal momento che la situazione della RAGIONE_SOCIALE al momento della scelta tra la ricapitalizzazione, la trasformazione o la messa in liquidazione, era patrimonialmente diversa rispetto a quella che si presentava al 31 dicembre 2010, non vi sarebbero state le condizioni per la ricapitalizzazione o la messa in liquidazione, non essendo in atto una crisi di solvibilità, sicché l’ipotesi prospettata dalle sentenze di merito avrebbe portato a una scelta prematura e irrazionale.
2.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione dell’art. 223, comma 2, n. 1, legge fall., all’art. 2621, comma primo, cod. civ. e all’art. 43, comma primo, cod. pen. Secondo la Suprema Corte, «in tema di falso in bilancio, dove l’elemento soggettivo presenta una struttura complessa comprendendo il dolo generico (avente ad oggetto la rappresentazione del mendacio), il dolo specifico (profitto
ingiusto) e il dolo intenzionale di inganno dei destinatari, il predetto elemento soggettivo non può ritenersi provato in ragione della mera violazione di norme contabili sulla esposizione delle voci in bilancio, né può ravvisarsi nello scopo di far vivere artificiosamente la società, dovendo, invece, essere desunto da inequivoci elementi che evidenzino, nel redattore del bilancio, la consapevolezza del suo agire abnorme o irragionevole attraverso artifici contabili (Sez. 5, n. 46689 del 30/06/2016, Coatti, Rv. 268673 – 01). Nondimeno, la Corte di appello avrebbe valorizzato unicamente «lo scopo di far vivere artificiosamente la società» che sarebbe stato escluso dalla Suprema Corte quale “viatico” per giungere ad un apprezzamento di disvalore dell’operato dell’agente ex art. 2621 cod. civ.
Per altro verso, la Corte di appello avrebbe posto a carico dell’imputato l’attività del commercialista di RAGIONE_SOCIALE, a partire dall’orientamento di legittimità secondo cui grava sull’imprenditore l’onere della scelta del professionista incaricato e la connessa culpa in eligendo. In questo modo, tuttavia, sarebbe stato valorizzato un comportamento dettato da imperizia e, quindi, da colpa; e si ascriverebbe a Bilenchi un «controllo dell’operato del professionista» che presuppone ampia conoscenza delle regole che sovraintendono alla materia, le quali avrebbero provocato un dilemma computistico di non facile soluzione; conoscenza inesigibile per un semplice amministratore di società, il quale deve avere conoscenze di produzione e di commercializzazione o di rapporti con terzi clienti. Peraltro, il bilancio di RAGIONE_SOCIALE dell’anno 2010 sarebbe stato approvato all’unanimità dai soci, tra cui le società creditrici (RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE Tecnico COGNOME RAGIONE_SOCIALE Professionale) assistite dai rispettivi consulenti commercialisti, tra cui il dott. NOME COGNOME, commercialista dello Studio RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE e di RAGIONE_SOCIALE, che non si sarebbe certo prestato a provocare un danno ai propri clienti per favorire la RAGIONE_SOCIALE, consentendole una spericolata forzatura contabile. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
2.3. Con il terzo motivo, il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione dell’art. 223, comma 2, n. 1, legge fall., in relazione all’art. 2621, comma primo, cod. civ. e all’art. 40 cod. pen. Benché l’art. 223, comma 2, n. 1, legge fall. richieda che l’amministratore della società fallita abbia cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società commettendo uno dei fatti previsti, tra gli altri, dall’art. 2621 cod. civ., la Corte fiorentina non indicherebbe il rapporto di causalità tra le “false” comunicazioni sociali e il fallimento, limitandosi a rappresentare che «una corretta indicazione in bilancio avrebbe evidenziato la concreta prospettiva di rovescio, di tal che la falsa comunicazione sociale contenuta nel bilancio 2010» si sarebbe posta «in relazione causale con il successivo incremento delle passività, quindi con la dichiarazione di fallimento». Ciò contrasterebbe con l’insegnamento della
Suprema Corte secondo cui la mera consecutio del fallimento rispetto al falso in bilancio non genera alcuna conseguenza sul piano della bancarotta impropria, dovendo il nesso eziologico essere provato; e considerato che l’evento dannoso per il ceto creditorio risiederebbe nell’incremento del passivo conseguente alla falsa comunicazione di una società che versi in stato di dissesto (v. la pag. 18 della sentenza del Tribunale), incremento che, nel caso in esame, non vi sarebbe stato, in quanto le entrate appostate si sarebbero effettivamente realizzate, con ripianamento della situazione debitoria. Quanto, poi, all’affermazione dei Giudici di secondo grado per cui il nesso di causalità si sarebbe concretizzato nella ritardata declaratoria di fallimento, dipendente dalla commissione dall’illecito di cui all’art. 2621 cod. civ., non vi sarebbe prova alcuna di questa “assiomatica” risoluzione. La situazione patrimoniale di RAGIONE_SOCIALE sarebbe stata ben più complessa di come riportata dal Tribunale, che non avrebbe tenuto conto del valore effettivo della consistente superficie su cui gli edifici erano stati realizzat tanto che le banche si sarebbero determinate a fornire un credito elevato al sodalizio, domandando garanzie personali estremamente basse, a riprova dell’esistenza di una reale copertura finanziaria dell’operazione.
2.4. Con il quarto motivo, il ricorso deduce, ex art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione dell’art. 223, comma 2, n. 1, legge fall., all’art. 2621, comma primo, cod. civ. e all’art. 41 cod. pen. I fallimento di RAGIONE_SOCIALE non sarebbe stato conseguenza dell’esposizione di voci attive in bilancio dell’anno 2010, ma di eventi estranei a tali appostazioni quali, ad esempio, il necessario e imprevisto ampliamento dell’hotel a pena di annullamento del rapporto di interessenza ventennale con la catena Hilton (garanzia imperdibile di prosperità futura), le difficoltà progettuali insorte e, soprattutto, problematiche finanziarie sopraggiunte a seguito della sottoscrizione di “derivati” collegati alle variazioni del tasso di interesse dei mutui.
In data 13 dicembre 2024 è pervenuta in Cancelleria una memoria a firma dell’avv. COGNOME difensore del dott. NOME COGNOME costituitosi parte civile in qualità di curatore del fallimento RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, con la quale sono state depositate le conclusioni scritte, chiedendosi il rigetto del ricorso, la conferma della sentenza impugnata e la condanna al rimborso delle spese legali come da nota allegata.
4. In data 30 dicembre 2024 è pervenuta in Cancelleria una memoria ex art. 121 cod. proc. pen. con la quale l’avv. NOME COGNOME difensore dell’imputato, ha svolto alcune considerazioni in replica alle conclusioni scritte del Procuratore generale, con cui ha ribadito che la mancanza di prova di un concreto pregiudizio finanziario provocato dalle “false” comunicazioni sociali non consentirebbe di
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integrare il reato di bancarotta e che non sarebbe dimostrata né la volontaria appostazione in bilancio, per l’anno 2010, di voci attive in realtà inesistenti, né la discendenza diretta della bancarotta dal delitto di false comunicazioni sociali.
CONSIDERATO IN DIRITrO
Il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.
Va premesso che la fattispecie prevista dall’art. 223, comma secondo, n. 1, legge fall., per il quale COGNOME è stato riconosciuto responsabile, si configura come un reato di evento doloso, nel quale la condotta consiste nella commissione di talune delle fattispecie di reato contemplate dagli artt. 2621 e seguenti cod. civ. e l’evento è, invece, costituito dal dissesto della società, che la condotta deve avere cagionato o concorso a cagionare. Nel caso di specie, è stato ritenuto dimostrato che l’imputato abbia commesso fatti sussumibili nella fattispecie di false comunicazioni sociali prevista dal citato art. 2621 cod. civ. e che tale condotta abbia concorso a determinare il dissesto sociale unitamente ad altre condotte ascritte allo stesso COGNOME, stavolta di natura omissiva, consistite nella mancata adozione di misure di ricapitalizzazione o di messa in liquidazione della società.
Tanto osservato preliminarmente, occorre muovere, secondo l’ordine logico, dal primo motivo di doglianza, con il quale la Difesa deduce che, al caso di specie, fosse applicabile la disciplina delle false comunicazioni sociali successiva a quella vigente all’epoca di commissione dei fatti, in quanto più favorevole all’imputato. Ciò in quanto la falsa appostazione in bilancio non avrebbe avuto quella concreta idoneità decettiva che è richiesta dalla nuova fattispecie, introdotta dalla legge n. 69 del 2015.
3.1. Va premesso che, in origine, l’art. 2621 cod. civ., facendo salvo quanto previsto dall’art. 2622 cod. civ., puniva il fatto degli amministratori, dei direttor generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori, i quali con l’intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine d conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai socio al pubblico, esponessero fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni ovvero omettessero informazioni la cui comunicazione fosse imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa apparteneva, con modalità idonee a indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione. Dopo la riforma del 2015, la disposizione incriminatrice punisce, invece, il fatto dei medesimi soggetti che, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni
sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongano fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettano fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore.
Le modifiche di più evidente rilievo riguardano la diversa qualificazione dell’illecito, che da contravvenzione è diventato delitto, l’eliminazione sia dell’intenzione di ingannare i soci o il pubblico dalla definizione del dolo specifico della condotta, sia dell’inciso «ancorché oggetto di valutazione» che, nel testo previgente, accompagnava la descrizione dell’oggetto del mendacio, la differente definizione del falso per omissione, che ora consiste nella mancata rappresentazione di fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, l’inserimento dell’avverbio «concretamente» per definire la necessaria idoneità decettiva della condotta, l’eliminazione di tutte le ipotesi di esclusione della punibilità.
3.2. Orbene, rileva il Collegio che anche ritenendo, come sostenuto dalla Difesa, che la norma incriminatrice di riferimento sul falso in bilancio fosse, nel caso in esame, quella di nuovo conio, le sentenze di merito hanno puntualmente evidenziato che la concreta modalità di redazione del bilancio, avvenuta in violazione dei principi contabili stabiliti dall’OIC nn. 11 e 15 attraverso l’imputazione all’anno 2010 di ricavi per 667.175 euro ottenuti dalla vendita di alcuni immobili del lotto 5 di Colle Val d’Elsa senza che vi fosse stata l’acquisizione della proprietà degli stessi (come, invece, imposto anche dall’art. 109, comma 2, lett. a), del testo unico imposte sui redditi), avesse falsamente rappresentato la situazione economica della società come se essa fosse in attivo, e precisamente con un utile di 21.772,00 euro, occultando il fatto che la stessa aveva, invece, subito significative perdite, pari a complessivi 251.253 euro. Ne consegue che nessun dubbio può fondatamente avanzarsi in ordine alla concreta capacità decettiva della falsa comunicazione sociale, come del resto riconosciuto dalle due sentenze di merito.
Venendo al secondo motivo di ricorso, va ricordato che in tema di bancarotta impropria da reato societario di falso in bilancio, quest’ultimo deve perfezionarsi in tutte le sue componenti, anche soggettive, con la conseguenza che, ai fini della integrazione del reato fallimentare, deve sussistere anche il dolo generico di falso e il dolo specifico del fine di conseguire un ingiusto profitto (Sez. 5, n. 47900 del 13/10/2023, COGNOME, Rv. 285558 – 03). Nel caso di specie, secondo la Difesa, non sarebbe stata dimostrata la consapevolezza in capo all’amministratore della
violazione delle regole di redazione del bilancio, imputabili al commercialista, né tantomeno la volontà di conseguire un ingiusto profitto.
4.1. Osserva, nondimeno, il Collegio che la tesi difensiva è stata motivatamente respinta dalla Corte territoriale, che con argomentazione niente affatto illogica, ha evidenziato il mutamento, avvenuto solo a fine 2010 e dopo che l’amministratore si era accorto della erosione del capitale sociale, della prassi operativa fino ad allora tenuta in materia di redazione del bilancio; un mutamento che, come riferito dal teste COGNOME, era stato condiviso con l’amministratore (v. pag. 18 della sentenza di primo grado). Tale motivazione è stata però avversata dal ricorso con modalità essenzialmente confutative, ossia limitandosi a proporre una differente ricostruzione fattuale e ad affermare una generica erroneità della soluzione accolta dalle due sentenze di merito, sul presupposto che potesse ritenersi preferibile la versione difensiva dell’accaduto. Tuttavia, è appena il caso di ricordare che in tema di controllo sulla motivazione, alla Corte di cassazione è normativamente preclusa la possibilità non solo di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l’apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall’esterno, essendo il sindacato di legittimità limitato alla verifica della coerenza strutturale della sentenza in sé e per sé considerata, condotta alla stregua degli stessi parametri valutativi da cui essa è “geneticamente” informata, ancorché questi siano ipoteticamente sostituibili da altri (Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260 – 01).
4.2. Quanto, poi, all’ulteriore aspetto concernente il dolo specifico richiesto dall’art. 2621 cod. civ., la sentenza impugnata ha sottolineato come senza l’artificiosa attribuzione di un falso valore alle voci attive del bilancio sarebbe stato rappresentato un capitale sociale al di sotto del minimo legale, che avrebbe comportato l’obbligo di ripianare le perdite o, in alternativa, di sciogliere la società secondo quanto stabilito dall’art. 2484, n. 4, cod. civ.; sicché l’ingiusto profitto perseguito deve ritenersi correttamente ravvisabile proprio nella possibilità offerta dalla falsa comunicazione sociale di sottrarsi a tali doverosi adempimenti, proponendosi al mercato come una società in bonis attraverso la rappresentazione di un valore economico superiore a quello reale. E che l’indicazione di un’acquisizione proprietaria non avvenuta potesse essere il frutto di un errore imputabile al commercialista è stato ritenuto inverosimile, anche in tal caso non illogicamente, a partire dalla complessiva lettura della vicenda societaria, che come indicato a pag. 11 della sentenza di appello ha rivelato, anche in epoca successiva, come negli esercizi successivi al 2010, a fronte di bilanci parimenti incompatibili con la prosecuzione dell’attività sociale, l’amministratore avesse continuato a non adottare le misure previste dalle citate disposizioni del codice
civile, essendo stata smentita dai bilanci del 2011 e 2012, entrambi in perdita, l’affermazione secondo cui la società sarebbe successivamente ritornata in bonis. Ciò che, al di là dell’improprio riferimento alla categoria della culpa in eligendo da parte della Corte territoriale (v. pag. 9), dà comunque la misura di una congrua e logica della valutazione del materiale probatorio e delle conclusioni che ne sono state tratte sul piano della ricostruzione dei fatti e della conseguente qualificazione giuridica degli stessi.
Inoltre, una volta chiarita la consapevolezza in capo all’amministratore della violazione contabile e della sua finalità decettiva rispetto ai creditori e agli altri soggetti economici che venivano in contatto con la società, le sentenze impugnate hanno anche congruamente dato atto della configurabilità del dolo generico rispetto all’evento del reato costituito dal dissesto, correttamente ricostruito non nella prospettiva di una non richiesta intenzionalità dell’insolvenza, quanto in quella di una consapevole rappresentazione della probabile – ma ciononostante perseguita – diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico della società (in termini Sez. 5, n. 47900 del 13/10/2023, COGNOME, Rv. 285558 – 03; Sez. 5, n. 36012 del 14/07/2022, Santi, non massimata; Sez. 5, n. 50489 del 16/05/2018, Nicosia, Rv. 274449 – 01; Sez. 5, n. 42257 del 06/05/2014, COGNOME, Rv. 260356 – 01; Sez. 5, n. 23091 del 29/03/2012, COGNOME, Rv. 252804 – 01).
Venendo, indi, alle censure difensive che concernono la configurabilità di un rapporto di causalità tra la sopravvalutazione dell’attivo e i conseguenti artifici contabili, da un lato, e il dissesto della società fallita, dall’altro, le considerazion svolte in ricorso, in particolare con il primo, il terzo e il quarto motivo, sono complessivamente infondate.
5.1. Va premesso che, come ha ben chiarito il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il reato di bancarotta impropria da reato societario sussiste anche quando la condotta illecita abbia concorso a determinare solo un aggravamento del dissesto già in atto della società (Sez. 5, n. 29885 del 09/05/2017, COGNOME, Rv. 270877 – 01; Sez. 5, n. 15613 del 05/12/2014, dep. 2015, COGNOME, Rv. 263803 – 01; Sez. 5, n. 17021 del 11/01/2013, COGNOME, Rv. 255090 – 01; Sez. 5, n. 16259 del 04/03/2010, COGNOME, Rv. 247254 – 01). Si è, pertanto, affermato, in una situazione analoga a quella qui in rilievo, che «integra il reato da bancarotta impropria da reato societario la condotta dell’amministratore che espone nel bilancio dati non veri al fine di occultare l’esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell’attività di impresa in assenza di interventi ricapitalizzazione o di liquidazione, con conseguente accumulo di perdite ulteriori, poiché l’evento tipico di questa fattispecie delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto» (Sez. 5, n. 42811
del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 261759 – 01, secondo cui l’evento tipico «comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto; conducendo a tale conclusione sia il dato letterale della norma incriminatrice, sia la considerazione della naturale progressività dei fenomeni determinativi del dissesto di un’impresa»; in termini analoghi v. Sez. 5, n. 1754 del 20/09/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282537 – 01; Sez. 5, n. 42272 del 13/06/2014, COGNOME, Rv. 260394 – 01; Sez. 5, n. 28508 del 12/04/2013, COGNOME, Rv. 255575 – 01).
Tale considerazione preliminare assume rilievo fondamentale in rapporto alla valutazione di una situazione economica della società che, nel 2010, era connotata in termini assai negativi, avendo le sentenze di merito evidenziato che la RAGIONE_SOCIALE era in perdita e che soltanto grazie alla indicazione in bilancio di valori sovrastimati, non essendo alcuni immobili ancora formalmente entrati nel suo patrimonio, era stato possibile far apparire in attivo una società che non lo era affatto. Ed allora, se si assume tale premessa logico-fattuale, non può seriamente discutersi quanto ritenuto dai Giudici di merito in ordine al fatto che la falsa rappresentazione della situazione economica della RAGIONE_SOCIALE abbia, se non causato un dissesto che si era già manifestato, concorso ad occultarlo, e in questo modo, concorso, altresì, a consentire quelle ulteriori condotte, attive e omissive, che, nel tempo, avevano contribuito a determinare la situazione finale di dissesto che avrebbe portato al fallimento della società.
5.2. In proposito, le censure della difesa si muovono, sostanzialmente, su tre piani.
Il primo è che la falsa comunicazione sociale sarebbe stata sostanzialmente ininfluente rispetto alla situazione economica della società, atteso che gli importi, erroneamente iscritti a bilancio già nel 2010, sarebbero comunque entrati nel patrimonio della società nel corso del 2011 e addirittura prima della approvazione del bilancio, avvenuta nell’aprile di tale anno.
Il secondo piano contesta che l’amministratore fosse obbligato a provvedere con urgenza alla ricapitalizzazione ovvero allo scioglimento della società, potendo tali operazioni essere compiute anche successivamente all’esercizio nel corso del quale si sono verificate le perdite. Di modo che, una volta che, nel corso del 2011, le somme erano effettivamente entrate nel patrimonio della società, sarebbero venute meno le condizioni per la ricapitalizzazione o la messa in liquidazione.
Il terzo piano, evidenziato nell’ultimo motivo di ricorso, è quello che imputa il dissesto della società a tutt’altre vicende e, in particolare, all’imprevisto ampliamento di un hotel, alle difficoltà progettuali insorte e alle problematiche finanziarie sopraggiunte a seguito della sottoscrizione di “derivati” collegati alle variazioni del tasso di interesse dei mutui.
5.3. Ora, con riferimento al primo profilo, già la sentenza di primo grado ha evidenziato come nel 2010 il contesto gestionale della società risultasse compromesso e come esso si aprisse a una concreta prospettiva di rovescio finanziario non soltanto per la RAGIONE_SOCIALE ma anche per gli stessi soci, i quali si trovavano pesantemente esposti verso il ceto bancario, per un totale di 14 milioni di euro nel 2010, con obbligazioni di garanzia personale (v. pag. 16 della sentenza di primo grado). Già tale circostanza, dunque, dimostra come la falsa comunicazione sociale nel bilancio 2010, con la quale sì è di fatto occultata la situazione patrimoniale della società, si sia posta in relazione concausale con il successivo incremento delle passività, unitamente alla omissione delle misure, a partire dalla convocazione dell’assemblea dei soci richiesta dall’art. 2447 cod. civ., necessarie a ripianare la situazione sociale o a chiedere la liquidazione, omissione che a pag. 11 della sentenza impugnata si ribadisce essersi protratta anche successivamente all’esercizio del 2010, ovvero anche dopo l’approvazione dei bilanci 2011 e 2012, entrambi in perdita (v. pag. 17 della sentenza di primo grado).
Sul punto, invero, l’affermazione difensiva secondo cui sull’amministratore non sarebbe gravato alcun obbligo di procedere alla immediata ricapitalizzazione della società e che, anzi, la mancata adozione di immediate contromisure avrebbe corrisposto a un doveroso esercizio di prudenza, non può essere condivisa, tenuto conto di quanto previsto dai citati artt. 2482-ter e 2484, comma primo, n. 4, cod. civ., a mente dei quali, a seguito della riduzione del capitale sociale al disotto del minimo, deve procedersi «senza indugio» (ovvero nel più breve tempo possibile: così Sez. 5, n. 11887 del 13/10/2000, COGNOME, Rv. 217986 – 01), alla ricapitalizzazione o allo scioglimento e non certo alla falsa rappresentazione in bilancio di attività e passività della società. La giurisprudenza civile citata dalla difesa, secondo cui l’adozione della deliberazione di ripianamento delle perdite o di trasformazione non è preclusa dal fatto di essere assunta successivamente all’esercizio nel corso del quale si sono verificate le perdite, va, dunque, letta nel suo reale significato. Infatti, la sentenza citata in ricorso ha ribadito che, in caso di società a responsabilità limitata, ove si verifichino perdite che comportino la riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale, l’assemblea per deliberare la ricostituzione del capitale o la trasformazione della società deve essere convocata senza indugio, ma che non è previsto alcun termine decadenziale per l’adozione di tali statuizioni, fermo restando che la mancanza di sollecitudine nella convocazione dell’assemblea può costituire causa di responsabilità degli amministratori nei confronti della società stessa (Cass. civ., Sez. 6, n. 2984 del 01/02/2022, Rv. 663819 – 01). In questa prospettiva, l’affermazione della mancanza di un termine decadenziale per la relativa delibera viene semplicemente individuata, nella pronuncia in questione, quale premessa logica per affermare che
non può ritenersi illegittima l’adozione della delibera di reintegrazione del capitale eroso dalle perdite non oltre l’esercizio di riferimento e non certo per sostenere che essa possa essere adottata in ogni tempo, tenuto conto della chiara locuzione, «senza indugio», utilizzata dalla richiamata norma del codice civile.
In ultimo, quanto, alle considerazioni difensive svolte con il quarto motivo è appena il caso di rilevarne la natura eminentemente fattuale, avendo il ricorso richiamato circostanze e accadimenti del tutto avulsi dalla motivazione dei due provvedimenti di merito, nel contesto di un tentativo di accreditare una alternativa ricostruzione dei fatti rispetto a quella accolta dalle due sentenze di merito; operazione pacificamente non consentita in sede di legittimità.
Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
6.1. Inoltre, l’imputato deve essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che devono essere liquidate in complessivi 4.000,00 euro, ai sensi degli artt. 12 e 16, d.m. n. 55 del 2014, come modificato dal d.m. n. 37 del 2018, tenuto conto – in relazione alle voci precisate nella nota spese depositata – dell’attività svolta e delle questioni trattate, cui devono aggiungersi gli accessori di legge, costituiti, ex art. 2, d.m. n. 55 del 2014, dalle spese forfettarie, da calcolarsi in misura del 15%, oltre all’IVA e al contributo per la Cassa previdenziale, da computarsi sull’imponibile.
PER QUESTI MOTIVI
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro 4000,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in data 9 gennaio 2025
Il Consigliere estensore
Il Presidente