Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 37135 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 37135 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/09/2025
In nome del Popolo RAGIONE_SOCIALE
QUINTA SEZIONE PENALE
Composta da
NOME NOME COGNOME
– Presidente –
Sent. n. sez. 954/2025
NOME COGNOME
UP – 16/09/2025
NOME OCCHIPINTI
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
NOME COGNOME
NOME COGNOME
– Relatore –
ha pronunciato la seguente
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a L’AQUILA il DATA_NASCITA COGNOME NOME nata a L’AQUILA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 11/11/2024 della CORTE di APPELLO di L’AQUILA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udite le conclusioni del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto di rigettare i ricorsi; udite le conclusioni AVV_NOTAIO, per gli imputati, che ha chiesto di accogliere i ricorsi.
Con sentenza del 28 febbraio 2023, il Tribunale di LÕAquila aveva condannato COGNOME NOME e COGNOME NOME alla pena di anni tre di
reclusione, per il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva, in relazione alla societˆ RAGIONE_SOCIALEÓ, fallita il 3 luglio 2017.
Con sentenza dellÕ11 novembre 2024, la Corte di appello di LÕAquila ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado, riconoscendo a entrambi gli imputati le attenuanti generiche, rideterminando la pena principale in anni due di reclusione, revocando la pena accessoria dellÕinterdizione dai pubblici uffici, rideterminando la durata delle pene accessorie fallimentari e riconoscendo, al solo COGNOME, i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale.
Secondo l’impostazione accusatoria, ritenuta fondata dai giudici di merito, il COGNOME (nella qualitˆ di legale rappresentante della fallita) e la moglie COGNOME NOME (nella qualitˆ di legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE) avrebbero distratto il ramo d’azienda denominato RAGIONE_SOCIALE, avente a oggetto l’esercizio di attivitˆ di ristorazione, cedendolo alla RAGIONE_SOCIALE (di cui erano soci al 50% ciascuno dei figli degli imputati) al prezzo di euro 20.000, del tutto irrisorio rispetto al valore del bene e comunque nemmeno corrisposto. Il prezzo pattuito sarebbe stato di gran lunga inferiore al valore del ramo d’azienda, atteso che questo era stato giˆ concesso in affitto, in virtù di contratto stipulato il 1¡ marzo 2013 con la RAGIONE_SOCIALE, di durata quadriennale tacitamente rinnovabile, per un canone mensile di euro 9.000.
Avverso la sentenza della Corte di appello, entrambi gli imputati, con un unico atto, hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo del loro difensore di fiducia.
2.1. Con un primo motivo, deducono il vizio di motivazione, in relazione allÕart. 533 cod. proc. pen.
Sostengono che la Corte di appello avrebbe violato il canone di giudizio dellÕoltre ogni ragionevole dubbio, avendo ritenuto inattendibile la consulenza tecnica di parte, in ordine alla congruitˆ del corrispettivo della vendita del ramo d’azienda, solo ÇperchŽ avrebbe fatto riferimento a due poste debitorie, che i giudici hanno ritenuto non provate, e per l’irrilevanza del riferimento all’art. 2560 cod. civ.È, quando, invece, la consulenza si baserebbe anche su altre considerazioni e su Çpertinenti argomentazioni tecnico scientificheÈ. In considerazione della rilevanza della questione relativa al valore dell’azienda ceduta, invece, sarebbe stato necessario fare riferimento solo ad argomentazioni tecnico-scientifiche, eventualmente procedendo a una perizia. Secondo i ricorrenti, rimarrebbe il serio dubbio che il consulente di parte avesse correttamente indicato come negativo il valore del ramo d’azienda ceduto, atteso che le sue conclusioni non sarebbero state confutate da alcun giudizio tecnico scientifico.
2.2. Con un secondo motivo, deducono i vizi di motivazione e di violazione di legge, in relazione allÕart. 216 legge fall.
Contestano la motivazione del provvedimento impugnato, nella parte relativa alla valutazione dell’azienda ceduta.
In particolare, la contestano nella parte in cui la Corte di appello ha affermato che: l’esistenza di un contratto di affitto in corso, che prevedeva il pagamento di un canone annuo di euro 108.000, lasciasse presumere lÕincasso di tale introito per una durata sostanzialmente indefinita; non era rilevante il fatto che l’affittuario avesse chiuso l’attivitˆ alla fine dell’anno 2016, atteso che si trattava di una circostanza emersa solo successivamente alla stipula della cessione.
La prima affermazione, secondo i ricorrenti, peccherebbe di astrattezza, in quanto darebbe rilievo alle previsioni negoziali di proroga tacita, senza considerare le prospettive reali di prosecuzione dell’attivitˆ.
La seconda affermazione non risulterebbe supportata da alcun elemento concreto di prova.
2.3. Con un terzo motivo, deducono il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione allÕart. 219 legge fall.
I ricorrenti contestano il mancato riconoscimento della circostanza attenuante dell’esiguitˆ del danno, sostenendo che la Corte di appello, se avesse correttamente valutato le somme che la societˆ cessionaria aveva corrisposto al proprietario dellÕimmobile ove veniva svolta lÕattivitˆ di ristorazione, si sarebbe accorta che il danno patrimoniale arrecato alla massa dei creditori sarebbe pari a euro 8.737, incidente in misura non considerevole, avuto riguardo allÕentitˆ del passivo fallimentare complessivo.
La corretta determinazione del danno arrecato avrebbe dovuto portare la Corte territoriale a riconoscere lÕattenuante di cui allÕart. 219, comma 3, legge fall. e anche a valutare la possibilitˆ di applicare l’art. 131-bis cod. pen.
2.4. Con un quarto motivo, deducono il vizio di violazione di legge, in relazione agli artt. 163 e 164 cod. pen. e 460 cod. proc. pen.
Sostengono che la Corte di appello non avrebbe riconosciuto alla COGNOME il beneficio della sospensione condizionale della pena, in considerazione di una precedente condanna, alla pena di euro 1.250 di ammenda, per il reato di cui allÕart. 44 d.P.R. n. 380 del 2001.
Tanto premesso, i ricorrenti contestano la decisione della Corte di appello, sostenendo che la preclusione al riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena deriverebbe esclusivamente da una precedente condanna a una pena detentiva per la commissione di un delitto oppure da una condanna a una pena detentiva che, cumulata a quelle precedentemente subite, superi il limite dei due anni. Nel caso in esame, invece, l’imputata aveva riportato una precedente
condanna solo per una contravvenzione e gli era stata inflitta solo una pena pecuniaria. Non risulterebbe, dunque, sussistente nŽ la preclusione della precedente condanna per un delitto nŽ il superamento del limite dei due anni di pena detentiva. La Corte di appello, inoltre, avrebbe dovuto rilevare che il precedente reato risultava estinto, ai sensi dell’art. 460 comma 5, cod. proc. pen., atteso che la condanna era stata inflitta con decreto penale di condanna.
1. Il ricorso deve essere rigettato.
1.1. Il primo e il secondo motivo Ð che possono essere trattati congiuntamente, essendo entrambi versati in fatto Ð sono inammissibili.
Con tali motivi, invero, i ricorrenti contestano la motivazione della sentenza impugnata, senza dedurre alcun vizio logico desumibile dal testo della sentenza, alcun effettivo travisamento di prova, nŽ alcuna violazione di legge. Le loro deduzioni, in realtˆ, sono dirette a ottenere una non consentita rivalutazione delle fonti probatorie e un inammissibile sindacato sulla ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di appello (cfr. Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano).
Quanto al canone di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, invocato dal ricorrente, va rilevato che esso non pu˜ essere adoperato quale parametro di violazione di legge, perchŽ in tal modo si finirebbe per censurare la motivazione al di lˆ dei casi di cui allÕart. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., richiedendo cos’ al giudice di legittimitˆ unÕautonoma valutazione delle fonti di prova che esula dai suoi poteri (Sez. 3, n. 24574 del 12/03/2015, Zonfrilli, Rv. 264174). Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimitˆ, infatti, il parametro di valutazione di cui all’art. 533 cod. proc. pen. ha ampi margini di operativitˆ solo nella fase di merito, quando pu˜ essere proposta una ricostruzione alternativa, mentre in sede di legittimitˆ tale regola rileva solo allorchŽ la sua inosservanza si traduca in una manifesta illogicitˆ della motivazione (Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, DÕCOGNOME e altri, Rv. 270108).
Deve essere, in ogni caso, rilevato che la Corte di appello ha reso una motivazione ampia e priva di vizi logici in ordine alla congruitˆ del prezzo di vendita del ramo di azienda, valutando adeguatamente anche la consulenza tecnica di parte.
LÕazienda era stata ceduta per l’importo di euro 20.000, mai versato e comunque incongruo, a una societˆ costituita solo alcuni giorni prima, amministrata dalla coimputata COGNOME (moglie del COGNOME) e partecipata
unicamente dai figli della coppia. In relazione a tale fatto, era stata proposta azione revocatoria, che aveva avuto esito positivo.
LÕincongruenza del prezzo era dimostrata in maniera palese dal fatto che il ramo d’azienda ceduto era oggetto di contratto di affitto, per un canone di euro 9.000 mensili, che, alla data della stipula della cessione, Çera suscettibile di produrre incassi, derivanti dall’affitto, per euro 108.000 annui, per una durata sostanzialmente indefinita, in conseguenza delle previsioni negoziali di proroga tacitaÈ. Solo a guardare i canoni concretamente versati dalla RAGIONE_SOCIALEÓ alla cessionaria dal gennaio allÕagosto 2016, risultava versato un importo di euro 80.000, che, sottraendo gli euro 4.200 mensili da corrispondere per la locazione dellÕimmobile ove veniva esercitata lÕattivitˆ di ristorazione, aveva portato a un introito di euro 45.000, ben superiore al prezzo di vendita.
Tale giudizio è stato supportato dai seguenti elementi: la societˆ acquirente era stata costituita poco tempo prima della stipula del contratto di cessione, era amministrata dalla COGNOME e apparteneva ai figli degli imputati; il prezzo non era stato versato ed era di valore non congruo, avuto riguardo alle considerevoli entrate che il contratto di fitto garantiva; il COGNOME non si era preoccupato di pretendere il pagamento del canone dalla cessionaria; nŽ il cedente nŽ la cessionaria avevano comunicato alla RAGIONE_SOCIALEÓ lÕavvenuta cessione.
Va rilevato che tale giudizio si pone in linea con la giurisprudenza di legittimitˆ che, al fine dell’accertamento del pericolo concreto e del dolo generico, ha evidenziato che il giudice deve basarsi sugli ordinari criteri, valorizzando, in particolare, la ricerca di “indici di fraudolenzaÈ, tra i quali il contesto in cui l’impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell’imprenditore o dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte nei fatti depauperativi; la ÒdistanzaÓ del fatto generatore di uno squilibrio tra attivitˆ e passivitˆ rispetto a qualsiasi canone di ragionevolezza imprenditoriale; la disamina del fatto distrattivo alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’impresa e della congiuntura economica in cui la condotta pericolosa per le ragioni del ceto creditorio si è realizzata (cfr. Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, Sgaramella, Rv. 270763).
La Corte di appello si è confrontata anche con la consulenza tecnica di parte, evidenziandone i limiti.
In particolare, ha rilevato che il consulente di parte, nello stabilire la congruitˆ del prezzo, aveva dato rilievo a presunti debiti preesistenti che sarebbero stati assunti dalla cessionaria, non tenendo, per˜, conto del fatto che, ai sensi dellÕart. 2560 cod. civ., in assenza di consenso dei creditori ceduti, la cessione non aveva liberato la cedente. Il consulente, inoltre, aveva dato rilievo a presunti debiti che non risultavano dimostrati, come quello di euro 30.000 per la restituzione di una
presunta cauzione, che in realtˆ non risultava versata, e a un presunto pagamento di euro 17.362,73, che, in realtˆ, risultava effettivamente versato solo per il minore importo di euro 4.200 (cfr. pagine 14 e ss. della sentenza impugnata).
Quanto alla prospettata necessitˆ di procedere a una perizia, va ricordato che la perizia è un mezzo di prova “neutro”, sottratto alla disponibilitˆ delle parti e rimesso alla discrezionalitˆ del giudice (cfr. Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A., Rv. 270936). Nel caso in esame, la Corte di appello ha fornito adeguata e coerente motivazione in ordine allÕesercizio del suo potere discrezionale, evidenziando che l’espletamento di una perizia per stabilire il valore dell’azienda ceduta risultava del tutto inutile, atteso che lÕincongruitˆ del prezzo risultava giˆ evidente e che il corrispettivo, in ogni caso, non risultava versato (cfr. pagina 16 della sentenza impugnata).
Quanto al contratto di fitto di azienda, inoltre, va rilevato che i giudici di merito, sebbene abbiano posto in rilievo che si trattava di un contratto di possibile durata indefinita, hanno, poi, evidenziato soprattutto che si trattava di un contratto in corso, che lÕaffittuario stava effettivamente pagando il canone di fitto e che la riscossione del canone, successivamente alla cessione dell’azienda (sottratte le somme versate per la locazione dell’immobile), aveva concretamente portato allÕincasso della somma di euro 45.000 (ben superiore al prezzo della cessione del ramo di azienda), sottratta alla garanzia dei creditori della fallita.
Quanto, in particolare, alla circostanza relativa alla successiva chiusura dell’attivitˆ da parte dell’affittuario, va rilevato che si tratta di unÕargomentazione non decisiva, atteso che comunque lÕimporto dei canoni concretamente versati successivamente alla cessione superava di gran lunga il prezzo di vendita (che non era stato neppure versato) e che si trattava di un evento successivo alla stipula del contratto di cessione e che i ricorrenti non hanno dimostrato che esso fosse concretamente prevedibile al momento della stipula del contratto.
1.2. Il terzo motivo è infondato.
Va, invero, rilevato che, al fine del riconoscimento dellÕattenuante di cui allÕart. 219 legge fall., non è corretta la parametrazione tra lÕentitˆ del danno arrecato ai creditori e il passivo fallimentare.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, l’entitˆ del danno provocato dai fatti configuranti bancarotta patrimoniale va commisurata al valore complessivo dei beni che sono stati sottratti all’esecuzione concorsuale, piuttosto che al pregiudizio sofferto da ciascun partecipante al piano di riparto dell’attivo e indipendentemente dalla relazione con l’importo globale del passivo (cfr. Sez. 5, n. 49642 del 02/10/2009, COGNOME, Rv. 245822; Sez. 5, n. 8037 del 03/06/1998, COGNOME, Rv. 211637; Sez. 5, n. 13285 del 18/01/2013, COGNOME, Rv. 255063).
Il riferimento allÕart. 131-bis cod. pen. risulta del tutto generico, non avendo i ricorrenti spiegato perchŽ una condotta che cagioni un danno di euro 8.737 dovrebbe integrare un fatto di particolare tenuitˆ.
Senza contare che la determinazione dellÕentitˆ del danno è stata effettuata dai ricorrenti sulla base di una ricostruzione esclusivamente di merito, relativa alle somme che la societˆ cessionaria avrebbe corrisposto al proprietario dellÕimmobile ove veniva svolta lÕattivitˆ di ristorazione.
1.3. Il quarto motivo è inammissibile.
Il motivo risulta generico. Invero, a fronte della prognosi negativa formulata dalla Corte dÕappello Ð sebbene fondata essenzialmente sullÕunico precedente per un reato contravvenzionale Ð la parte non ha indicato in modo specifico gli elementi che avrebbero dovuto giustificare una valutazione favorevole circa il pericolo di recidiva.
Al rigetto dei ricorsi, consegue, ai sensi dellÕart. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Cos’ deciso, il 16 settembre 2025
Il Consigliere estensore Il Presidente NOME COGNOME NOME COGNOME