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Bancarotta fraudolenta: vendita ramo d’azienda

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per bancarotta fraudolenta distrattiva a carico di due coniugi. Avevano ceduto un ramo d’azienda di ristorazione, dal valore elevato e con un cospicuo canone d’affitto, a una società riconducibile ai figli per un prezzo irrisorio e mai corrisposto. La Corte ha ritenuto palese l’incongruità del prezzo e ha validato la decisione dei giudici di merito, rigettando i ricorsi degli imputati.

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Pubblicato il 26 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Bancarotta Fraudolenta: la Cessione del Ramo d’Azienda a Prezzo Vile

La bancarotta fraudolenta distrattiva rappresenta una delle più gravi fattispecie di reati fallimentari, posta a tutela del patrimonio aziendale come garanzia per i creditori. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito i principi fondamentali per identificare tale reato, con particolare riferimento alla cessione di un ramo d’azienda a un prezzo palesemente incongruo. Il caso analizzato riguarda la condanna di due coniugi per aver distratto un redditizio ramo di ristorazione dalla società prossima al fallimento, vendendolo a una nuova entità societaria controllata dai propri figli a un prezzo irrisorio e mai effettivamente pagato.

I Fatti del Caso

Due coniugi, amministratori di fatto e di diritto di due distinte società, sono stati accusati e condannati per aver orchestrato la vendita di un ramo d’azienda di ristorazione dalla società destinata al fallimento a una nuova società. Quest’ultima era stata costituita poco prima dell’operazione ed era partecipata al 50% da ciascuno dei figli degli imputati.

L’elemento centrale dell’accusa era il prezzo di cessione, fissato a soli 20.000 euro. Tale cifra era considerata del tutto irrisoria per due ragioni principali:

1. Il ramo d’azienda era già oggetto di un contratto di affitto con una terza società, che versava un canone mensile di 9.000 euro (108.000 euro annui).
2. Il prezzo di 20.000 euro non è mai stato corrisposto alla società venditrice.

Di fatto, l’operazione ha sottratto alla società fallita un bene estremamente redditizio, privando i creditori di una fonte di reddito sicura e consistente. La Corte d’Appello aveva parzialmente riformato la sentenza di primo grado, riducendo la pena a due anni di reclusione e concedendo le attenuanti generiche, ma confermando la responsabilità penale. Contro questa decisione, gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato i ricorsi inammissibili, rigettando tutte le argomentazioni difensive e confermando la condanna per il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva. I giudici hanno ritenuto la motivazione della Corte d’Appello logica, coerente e priva di vizi, sottolineando come la ricostruzione dei fatti fosse basata su prove concrete e inequivocabili.

Le Motivazioni: Indizi di Fraudolenza e Valutazione del Ramo d’Azienda

La Corte di Cassazione ha basato la sua decisione su una serie di elementi chiari, definiti “indici di fraudolenza”, che dimostravano l’intento doloso degli imputati. L’incongruità del prezzo era palese, non solo simbolica. Il ramo d’azienda, al momento della cessione, era in grado di generare incassi annui per 108.000 euro, una cifra che rendeva la vendita a 20.000 euro un’operazione economicamente insensata se non per scopi illeciti.

I giudici hanno evidenziato i seguenti elementi a supporto della condanna:

* Rapporti Familiari: La società acquirente era stata costituita poco prima della cessione e apparteneva interamente ai figli degli imputati.
* Mancato Pagamento: Il prezzo, già irrisorio, non era mai stato versato.
* Flusso di Reddito: La presenza di un contratto di affitto in corso garantiva un flusso di cassa certo e significativo, che da solo dimostrava il valore del bene ceduto.
* Inutilità della Perizia: La Corte ha ritenuto superflua una perizia tecnica per accertare il valore del ramo d’azienda, poiché l’incongruità del prezzo era talmente evidente da non richiedere ulteriori accertamenti tecnici.
* Irrilevanza della Consulenza di Parte: La consulenza tecnica presentata dalla difesa, che indicava un valore negativo del ramo d’azienda, è stata respinta. Essa si basava su presunti debiti non provati e che, in ogni caso, secondo l’art. 2560 c.c., non avrebbero liberato la società cedente senza il consenso dei creditori.

Inoltre, la Corte ha respinto il motivo relativo al mancato riconoscimento dell’attenuante del danno di lieve entità, chiarendo che il danno nella bancarotta patrimoniale va commisurato al valore complessivo dei beni sottratti, non al pregiudizio del singolo creditore o al passivo totale.

Le Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio cruciale nella lotta ai reati fallimentari: la valutazione della congruità di un’operazione di cessione non si ferma all’apparenza formale, ma deve basarsi sulla sostanza economica. La presenza di un reddito certo e dimostrabile, come un canone di affitto, diventa un parametro oggettivo e quasi inattaccabile per determinare il valore di un bene. Gli “indici di fraudolenza”, come i legami familiari tra le parti e la creazione di società “scatola”, sono elementi che i giudici considerano attentamente per smascherare l’intento distrattivo. Per gli imprenditori, questa decisione serve da monito: operazioni che depauperano il patrimonio aziendale a favore di soggetti collegati, soprattutto in prossimità di una crisi, saranno scrutinate con estremo rigore e difficilmente potranno superare il vaglio della giustizia penale.

Come si valuta il danno in un caso di bancarotta fraudolenta distrattiva?
L’entità del danno non si rapporta al passivo fallimentare complessivo, ma si commisura al valore totale dei beni che sono stati illecitamente sottratti alla garanzia dei creditori.

Quali sono gli ‘indici di fraudolenza’ che la Corte considera per provare l’intento doloso?
La Corte valuta un insieme di circostanze, tra cui: la costituzione di una società acquirente poco prima della cessione, la presenza di stretti legami familiari tra venditore e acquirente, un prezzo di vendita irrisorio e non pagato, e il fatto che il bene ceduto producesse un reddito certo e considerevole.

È sempre necessaria una perizia tecnica per dimostrare che il prezzo di vendita di un bene aziendale era troppo basso?
No. La sentenza chiarisce che quando l’incongruità del prezzo è palese ed evidente, come nel caso in cui il bene generava un reddito annuo di gran lunga superiore al prezzo di vendita, l’espletamento di una perizia diventa superfluo e la prova può basarsi su altri elementi oggettivi.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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