Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 34809 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 34809 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 26/09/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a SAONARA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 14/01/2025 della CORTE APPELLO di TRIESTE
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, il quale ha chiesto dichiararsi il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 2 luglio 2024, la Corte d’appello di Trieste ha confermato la condanna pronunciata in primo grado nei confronti di NOME COGNOME, in qualità di amministratore di diritto dal 2011 al 2014, nonché di liquidatore dal gennaio 2014 al maggio 2015, della RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita nel 2017, per i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e di bancarotta semplice per aver aggravato il dissesto della predetta società, astenendosi dal richiederne il fallimento.
Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, per il tramite del proprio difensore, affidando le proprie censure ai motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo, si duole di violazione di legge e vizio di motivazione, per non avere la Corte d’appello dimostrato la ricorrenza del dolo generico. Alcun indice della consapevolezza, in capo all’imputato, di partecipare alle condotte distrattive contestate è stato adeguatamente valorizzato in motivazione. La sentenza gravata è anche contraddittoria perché, da un lato, dà per presupposta tale consapevolezza, dall’altro definisce il ricorrente mero prestanome, ancorché soltanto quod poenam. Lamenta la difesa, infine, travisamento di prova, per aver la Corte territoriale travisato le dichiarazioni dell’amministratore di fatto COGNOME (riportate a p. 6 del ricorso).
2.2 Col secondo motivo, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 168, primo comma, n. 1, cod. pen., per avere la Cor distrettuale revocato la sospensione condizionale della pena, in precedenza concessa, sulla base di un reato commesso prima del passaggio in giudicato (nel 2016) della sentenza che aveva concesso il beneficio. L’errore del giudice d’appello consisterebbe nell’aver fatto coincidere la consumazione del reato con la dichiarazione di fallimento (2017), dunque nell’avere meccanicamente inteso la «commissione» del nuovo reato come sinonimo di «consumazione». Se è vero che, nei reati di bancarotta, la consumazione del reato coincide col momento della pronuncia di dichiarazione del fallimento (atteso che quest’ultima ha natura di elemento costitutivo del reato), è vero anche che, in caso di reati a evento differito si dovrebbe preferire il criterio della condotta. Il ricorrente valorizza, a tal proposito, pronunce della Suprema Corte in cui si è rimarcato il carattere non sempre unitario della nozione di tempo del commesso reato, nozione che deve essere collegata, ai fini della sua corretta interpretazione, ai singoli istituti e alla relativa ratio. Attesa la natio special-preventiva dell’istituto della sospensione condizionale, basata sulla «scommessa» che il condannato si astenga dalla
commissione di futuri reati, occorre aver riguardo al momento consumativo della condotta illecita che, nel caso di specie, deve farsi risalire al momento in cui le condotte distrattive sono state attuate.
È pervenuta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, il quale ha chiesto dichiararsi il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è, nel suo complesso, infondato, per le ragioni di seguito illustrate.
Il primo motivo è inammissibile, in quanto aspecifico, omettendo la difesa di confrontarsi effettivamente con la motivazione dell’impugnata sentenza (sulla mancanza di specificità del motivo, che va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, dal momento che quest’ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità per violazione dell’art. 591 comma 1, lett. c), cod. proc. pen., v., ex plurimis, Sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, COGNOME, Rv. 260608 – 01; Sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, COGNOME, Rv. 255568 – 01; Sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, COGNOME, Rv. 253849 – 01; Sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, COGNOME, n. m.).
Dirimente, ai fini della corretta dimostrazione della ricorrenza del dolo generico in capo all’imputato, è quanto osservato dalla Corte territoriale a proposito delle concrete modalità con cui il ricorrente ha svolto il suo ruolo di amministratore di diritto: il suo costante agire a stretto contatto con l’amministratore di fatto e l’assiduo presenziare nella sede della fallita società sono stati correttamente valorizzati come indici della generica consapevolezza della valenza – anche soltanto potenzialmente – negativa delle operazioni illecite di volta in volta «sovraordinate ed eseguite» dall’amministratore di fatto «con la collaborazione del legale rappresentante» (v. p. 9 della motivazione della gravata sentenza). Alla luce di tali rilievi, la Corte d’appello ha correttamente applicato al caso di specie il principio giurisprudenziale secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta, l’amministratore di diritto risponde unitamente all’amministratore di fatto per non avere impedito l’evento che aveva l’obbligo di impedire, essendo sufficiente, sotto il profilo soggettivo, la generica consapevolezza che l’amministratore effettivo distragga, occulti, dissimuli, distrugga o dissipi i beni sociali, la quale non può dedursi dal solo fatto che il soggetto abbia accettato di
ricoprire formalmente la carica di amministratore (Sez. 5, n. 7332 del 07/01/2015, Fasola, Rv. 262767 – 01).
Impregiudicato quanto appena ricordato circa la puntualizzazione, operata in motivazione, circa l’attivo ruolo del COGNOME nella veste di amministratore di diritto, si osserva che se anche la Corte d’appello si fosse limitata a evidenziarne l’attitudine di mero prestanome (e qui viene in rilievo la censura difensiva, là dove lamenta la contraddittorietà della sentenza gravata perché, da un lato, afferma la sussistenza del dolo generico e, dall’altro, definisce il ricorrente mero prestanome, ancorché soltanto quod poenam), la responsabilità per l’ascritto delitto sarebbe comunque correttamente affermata alla luce del principio secondo cui «in tema di reati fallimentari, è sufficiente ad integrare il dolo, in forma diretta o eventuale, dell’amministratore formale la generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto (Sez. 5, n. 32413 del 24/09/2020, Loda, Rv. 279831 – 01). È stato inoltre puntualizzato che, allorché si tratti di soggetto che accetti il ruolo di amministratore esclusivamente allo scopo di fare da prestanome, la sola consapevolezza che dalla propria condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato (dolo generico) o l’accettazione del rischio che questi si verifichino (dolo eventuale) possono risultare sufficienti per l’affermazione della responsabilità penale (cfr. Rv. 262767, già citata).
Quanto, infine, al travisamento di prova, dedotto in relazione alle dichiarazioni dell’amministratore di fatto COGNOME, la censura è priva di pregio, ove si consideri la consolidata giurisprudenza di legittimità, secondo cui il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso (quale quello in scrutinio) di «cosiddetta “doppia conforme”, sia nell’ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti» (Sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L, Rv. 272018 – 01; v. anche Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, COGNOME, Rv. 283370 – 01). Nessuna di tali ipotesi ricorre nel caso in scrutinio: è il ricorrente stesso a notare che il COGNOME riferiva essere gli amministratori di diritto «uomini di supporto … collaboratori fattivi e quindi necessariamente consci delle operazioni che si compivano». Tali dati probatori non soltanto non introducono alcun elemento di contraddittorietà rispetto a quanto ritenuto dalla Corte distrettuale circa la sussistenza del dolo generico in capo all’imputato, fornendo bensì conferma della
consapevolezza di quest’ultimo delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto. Quanto, infine, all’obiezione difensiva che insiste sull’assenza, in motivazione, dell’indicazione di specifiche operazioni societarie contestate (p. 6 del ricorso), valga quanto già ricordato a proposito della sufficienza, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ascritto, della generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla società per il tramite dell’amministratore di fatto (Sez. 5, Loda, Rv. 279831, cit.).
3. Il secondo motivo è infondato. Nel confermare la revoca della sospensione condizionale della pena, già disposta, ex art. 168, primo comma, n. 1, cod. pen., dal giudice di primo grado, la Corte territoriale ha ricordato che all’imputato era stato concesso il beneficio in parola con una sentenza divenuta irrevocabile nel 2016.
A supporto della propria decisione, la Corte d’appello ha ritenuto che il reato di bancarotta, per cui è intervenuta condanna, si fosse consumato con la pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento del 23 febbraio 2017, non già con la data di cessazione della carica, da parte del COGNOME, nel maggio 2015. Il ricorrente critica questa impostazione, posto che il giudice d’appello, nel far coincidere la consumazione del reato con la dichiarazione di fallimento (2017), avrebbe meccanicamente inteso la «commissione» del nuovo reato come sinonimo di «consumazione», ciò che, in un reato a evento differito come quello di bancarotta, striderebbe con la struttura stessa del delitto de quo e col carattere, non sempre unitario, della nozione di tempo del commesso reato.
Le censure difensive non possono trovare accoglimento. Come chiarito da Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266804, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività, sicché, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, i fatti di distrazione assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza. È, dunque, l’effettiva offesa alla conservazione dell’integrità del patrimonio dell’impresa, costituente la garanzia per i creditori della medesima (Corte cost., ord. n. 268 del 1989), che funge da parametro della concreta applicazione della norma incriminatrice e consente di configurare il reato in esame come di pericolo concreto. Tuttavia, la dichiarazione di fallimento pur costituendo una condizione oggettiva di punibilità, rientra tra le condizioni consistenti in accadimenti che,
presupponendo una condotta già offensiva del bene protetto, non accentrano su se stesse l’intera offesa, ma, aggravandola o comunque rendendola attuale, rendono opportuna la punibilità di un fatto già di per sé offensivo.
Sulla falsariga di Sez. U. AVV_NOTAIO, questa Corte ha puntualizzato che la natura di reato di pericolo concreto della bancarotta fraudolenta prefallimentare per distrazione non è in contrasto con la qualifica della dichiarazione di fallimento come condizione obiettiva di punibilità (Sez. 5, n. 2899 del 02/10/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 274610 – 01, in motivazione). In precedenza, già Sez. 5, n. 13910 del 08/02/2017, COGNOME, Rv. 269388 – 01, chiariva che la dichiarazione di fallimento, ponendosi come evento estraneo all’offesa tipica e alla sfera di volizione dell’agente, costituisce una condizione obiettiva di punibilità, che circoscrive l’area di illiceità penale alle sole ipotesi nelle quali, alle condotte del debitore, di per sé offensive degli interessi dei creditori, segua la dichiarazione di fallimento (v. anche, in motivazione, il richiamo alla sentenza n. 1085 del 1988 Corte cost. quanto al sottrarsi delle condizioni obiettive di punibilità alla regola della rimproverabilità ex art. 27, comma primo, Cost.).
Conferma di tale conclusione si trae dalla costante giurisprudenza di legittimità in tema di bancarotta cd. «riparata», che si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così annullando il pregiudizio per i creditori o anche solo la potenzialità di un danno (Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, COGNOME, Rv. 261347).
Si rammenta che – come di recente ribadito da Sez. 5, n. 14932 del 28/02/2023, Mercuri, Rv. 284383 richiamando diversi arresti di questa Corte – la bancarotta «riparata» si configura, determinando l’insussistenza dell’elemento materiale del reato, quando la sottrazione dei beni venga annullata da un’attività di segno contrario, che reintegri il patrimonio dell’impresa prima della soglia cronologica costituita dalla dichiarazione di fallimento, così annullando il pregiudizio per i creditori o anche solo la potenzialità di un danno (Sez. 5, n. 52077 del 04/11/2014, COGNOME, Rv. 261347), sicché l’attività di segno contrario che annulli la sottrazione deve reintegrare il patrimonio dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento, evitando che il pericolo per la garanzia dei creditori acquisisca effettiva concretezza (Sez.5, n. Sez. 5, n. 50289 del 07/07/2015, COGNOME, Rv. 265903). Ai fini della configurabilità della bancarotta “riparata” non è necessaria la restituzione del singolo bene sottratto, ma un’attività di integrale reintegrazione del patrimonio anteriore alla declaratoria di fallimento (Sez.5, n.34290 del 02/10/2020, COGNOME, non mass.). È onere dell’amministratore, che si è reso responsabile di atti di distrazione e sul quale grava una posizione di garanzia
rispetto al patrimonio sociale, provare l’esatta corrispondenza tra i versamenti compiuti e gli atti distrattivi precedentemente perpetrati (Sez. 5, n. 57759 del 24/11/2017, Liparoti, Rv. 271922).
Poiché l’agente ha la possibilità di annullare, prima della dichiarazione di fallimento, gli effetti delle proprie condotte distrattive, appare corretto ritenere che, ove non intervenga detta riparazione, il reato si consideri ‘commesso al momento della dichiarazione di fallimento.
Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, va rilevata la correttezza della decisione della Corte d’appello nel confermare la revoca del beneficio in parola.
Per le ragioni illustrate, il Collegio ritiene che il ricorso vada rigettato. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 26/09/2025 Il consigliere estensore COGNOME Il presidente