Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 13848 Anno 2025
REPUBBLICA ITALIANA
Penale Sent. Sez. 5 Num. 13848 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 27/03/2025
In nome del Popolo Italiano
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUINTA SEZIONE PENALE
Composta da:
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
Presidente –
NOME COGNOME
– Relatore –
Sent. n. sez. 404/2025 UP – 27/03/2025 R.G.N. 2541/2025
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME nato a RHO il 14/02/1960
avverso la sentenza del 18/11/2024 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata, emessa in data 18 novembre 2024, la Corte di Appello di Milano, in riforma della sentenza del G iudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Milano, ha rideterminato la pena nei confronti di NOME
1.1. L’imputato è stato condannato per i reati di bancarotta fraudolenta distrattiva e bancarotta fraudolenta per operazioni dolose
In particolare, è stato contestato all’imputato nella sua qualità di amministratore unico della RAGIONE_SOCIALE dalla sua costituzione del 29 novembre 2013 sino alla dichiarazione di fallimento (sentenza del Tribunale di Milano del 18 dicembre 2020) – di avere prelevato, nel corso del 2020, dal conto corrente intestato alla società fallita la somma complessiva
di euro 35.000,00, con causale ‘restituzione prestito soci’ (Capo A), nonché il sistematico inadempimento delle obbligazioni tributarie (capo B), accumulando un debito nei confronti dell’erario pari ad euro 637.387,56, a fronte di un passivo di euro 1.090.000,00.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione COGNOME COGNOME a mezzo del difensore di fiducia, Avv. NOME COGNOME deducendo un unico motivo di impugnazione, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen. per travisamento degli elementi di prova ed erronea qualificazione giuridica dei fatti, nonché contraddittorietà della motivazione.
In particolare, il ricorrente contesta la prova del coefficiente soggettivo dei reati commessi e la mancata riqualificazione delle condotte di bancarotta fraudolenta distrattiva e per operazioni dolose in quelle di bancarotta semplice ex art. 217 l. fall.
La somma di euro 35.000,00 è stata prelevata al fine di rifinanziare la società ed il prelievo non ha pregiudicato la massa dei creditori.
Inoltre, il mancato pagamento delle tasse non è riconducibile nel paradigma delle operazioni dolose ex art. 223 l. fall., essendo espressiva di mala gestio , perché il mancato pagamento delle tasse era finalizzato al risanamento della società.
Con requisitoria scritta del 4 marzo 2025, il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, dott.ssa NOME COGNOME ha chiesto rigettarsi il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è nel suo complesso infondato.
In effetti le censure difensive non si confrontano con le principali argomentazioni della sentenza impugnata, sollecitando una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità, sulla base di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944).
Inoltre, è noto che: “il ricorso per cassazione con cui si lamenta il vizio di motivazione per travisamento della prova, non può limitarsi, pena l’inammissibilità, ad
addurre l’esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, quando non abbiano carattere di decisività, ma deve, invece: a ) identificare l’atto processuale cui fa riferimento; b ) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c ) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale incompatibilità all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato” (Sez. 6, n. 10795 del 16/02/2021, F., Rv. 281085). È necessario, dunque, che l’assunta utilizzazione di un’informazione inesistente o l’omessa valutazione della prova esistente siano decisive al fine di sovvertire l’apparato motivazionale sottoposto a critica (Sez. 6, n. 36512 del 16/10/2020, COGNOME, Rv. 280117).
In ordine alle censure dal ricorrente mosse alla struttura motivazionale della pronuncia impugnata, va ricordato che la sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo, quando le due decisioni di merito concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate e ampiamente chiarite nella sentenza di primo grado (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, COGNOME, Rv. 191229; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, COGNOME, Rv. 257595; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, COGNOME, Rv. 252615; da ultimo v. Sez. 6, n. 8309 del 14/01/2021, COGNOME, non mass.). Pertanto, specie in presenza di una “doppia conforme”, come nel caso di specie, il giudice di appello, nella motivazione della sentenza, non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente ogni risultanza processuale, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale, egli spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente i fatti decisivi. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le argomentazioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593; Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, COGNOME, Rv. 260841).
Ciò premesso, deve precisarsi che la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita può essere desunta dalla mancata dimostrazione, ad opera dell’amministratore, della destinazione dei suddetti beni (Sez. 5, n. 7048 del
27/11/2008, COGNOME, Rv. 243295). I creditori ripongono la garanzia dell’adempimento delle obbligazioni dell’impresa sul patrimonio di quest’ultima e l’art. 87, comma terzo, legge fall (anche nella sua formulazione precedente alla sua riforma) assegna al fallito obbligo di verità circa la destinazione dei beni di impresa al momento dell’interpello formulato dal curatore al riguardo, con espresso richiamo alla sanzione penale.
Osservazioni che giustificano l’apparente inversione dell’onere della prova ascritta al fallito nel caso di mancato rinvenimento di cespiti da parte della procedura e di assenza di giustificazioni a proposito (o di giustificazione resa in termini di spese, perdite ed oneri attinenti o compatibili con le fisiologiche regole di gestione). Trattasi, invero, di sollecitazione al diretto interessato della dimostrazione della concreta destinazione dei beni o del loro ricavato, risposta che (presumibilmente) soltanto egli, che è (oltre che il responsabile) l’artefice della gestione, può rendere (Sez. 5, n. 8260 del 22/09/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 267710; Sez. 5, n. 2732 del 16/12/2021, dep. 2022, COGNOME, Rv. 282652).
Peraltro, in tema di bancarotta fraudolenta per distrazione, l’accertamento dell’elemento oggettivo della concreta pericolosità del fatto distrattivo e del dolo generico deve valorizzare la ricerca di “indici di fraudolenza”, rinvenibili, ad esempio, nella disamina della condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda, nel contesto in cui l’impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, nella irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni di ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall’altro, all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa (Sez. 5, Sentenza n. 38396 del 23/06/2017, COGNOME, Rv. 270763).
Così che anche invocate “scelte imprenditoriali” che conducano ad un esito depauperativo del patrimonio della fallita acquistano rilievo penale. Rilievo che non è escluso dal fatto che al momento delle condotte la società fosse, in ipotesi, priva di squilibri economici e finanziari, posto che si è detto come l’epoca del depauperamento può assumere rilevanza ai fini della sussistenza degli indici di fraudolenza e, dunque, del dolo, solo nel caso in cui la condotta dell’agente presenti elementi non univoci di qualificazione giuridica in termini di distrazione, ma non certo quando il depauperamento consegua ad una deliberata condotta di sottrazione, priva di un’alternativa ipotesi qualificatoria (Sez. 5, n. 45230 del 16/09/2021, COGNOME, Rv. 282284; Sez. 5, n. 7437 del 15/10/2020, dep. 2021, COGNOME, Rv. 280550).
Inoltre, l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale è costituito dal dolo generico; pertanto, è sufficiente che la condotta di colui che pone in essere o concorre nell’attività distrattiva sia assistita dalla consapevolezza che le
operazioni che si compiono sul patrimonio sociale siano idonee a cagionare un danno ai creditori, senza che sia necessaria l’intenzione di causarlo (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266805 – 01).
La sentenza impugnata, con motivazione immune da vizi logici, ha chiarito la sussistenza del delitto di bancarotta fraudolenta distrattiva dal punto di vista oggettivo e soggettivo, evidenziando che, relativamente al prelievo della somma di euro 35.000,00 dal conto corrente intestato alla RAGIONE_SOCIALE con causale ‘reso prestito personale’, il ricorrente non ha giustificato l’effettiva destinazione né è stato in grado di individuare il sinallagma in entrata.
L’odierno ricorrente ha asserito di avere utilizzato le somme prelevate per contanti per far fronte alla crisi economica connessa alla emergenza sanitaria da Covid 19, ma non ha fornito prova alcuna delle sue affermazioni.
Quanto al pagamento di debiti connessi alla crisi economica conseguente alla pandemia, la giustificazione fornita appare estremamente generica, non avendo l’imputato fornito indicazioni sui soggetti creditori e quali siano stati gli importi corrisposti a ciascuno di essi, cosicché la Corte di appello ha correttamente concluso che le condotte per le quali è stata pronunciata condanna integrino altrettante distrazioni patrimoniali ai danni della società.
La sentenza impugnata ha operato buon governo del consolidato e costante principio indicato da questa Corte secondo cui integrano il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione tutte le operazioni economiche che, esulando dagli scopi dell’impresa, determinano, senza alcun utile per il patrimonio sociale, un effettivo depauperamento di questo in danno dei creditori, anche attraverso il distacco di beni da detto patrimonio, senza immettervi alcun corrispettivo, così da impedirne l’apprensione da parte degli organi fallimentari (Sez. 5, n. 36850 del 06/10/2020, Rv. 280106).
I giudici del merito hanno ritenuto provato che il prelevamento integrasse distrazione di risorse economiche della società fallita non solo in virtù dell’omessa dimostrazione della destinazione delle somme, ma anche sulla base di una serie di elementi di natura logica che fanno apparire non credibile la tesi sostenuta dall’imputato.
In particolare, la Corte di appello ha evidenziato che, già a partire dal 2018, la società presentava un patrimonio netto negativo, trovandosi in difficoltà.
Sulla base di tali elementi, che fanno apparire sussistenti i cosiddetti “indici di fraudolenza”, correttamente è stata ritenuta dimostrata la circostanza che le somme prelevate non siano state destinate alla soddisfazione delle esigenze imprenditoriali della società fallita, in applicazione del principio di diritto sopra esposto.
In conclusione, la Corte di Appello ha desunto la responsabilità del ricorrente dalla circostanza che il prelievo è avvenuto per attività non documentata, sicché si è trattato di incameramento di denaro diretto al depauperamento societario.
Dunque, anche in questo caso il giudice di appello ha desunto la sussistenza del dolo in capo al prevenuto dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa, attraverso le quali, con processo logico-deduttivo, la corte territoriale è coerentemente risalita alla sfera intellettiva e volitiva del soggetto, in modo da evidenziarne la cosciente volontà e rappresentazione degli elementi oggettivi del reato.
La motivazione fornita dai giudici del merito appare adeguata e priva di contraddizioni o manifeste illogicità.
Il motivo con il quale si contesta la configurabilità della bancarotta fraudolenta per operazioni dolose, conseguenza del mancato pagamento delle tasse, è infondato.
Si ritiene corretta l’ applicazione del principio la qualificazione di operazione dolosa data al protratto, esteso e sistematico inadempimento delle obbligazioni contributive, che, aumentando ingiustificatamente l’esposizione nei confronti degli enti previdenziali, rendeva prevedibile il conseguente dissesto della società (Sez. 5, n. 47621 del 25/09/2014, Rv. 261684; conf. tra le altre, Sez. 5, n. 15281 del 08/11/2016, dep. 2017, Rv. 270046; Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014, Rv. 260492).
La condotta di cagionamento del fallimento con operazioni dolose è fattispecie a dolo generico, in cui rileva, cioè, la coscienza e volontà delle stesse operazioni; nella bancarotta impropria, nell’ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è, cioè, configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa (Sez. 5, n. 348 del 07/12/2021, dep. 2022, Rv. 282396).
La Corte di appello ha correttamente affermato che l’imputato poteva ragionevolmente prevedere che potesse derivare il fallimento, anche in ragione dell’inevitabile carico sanzionatorio, proprio per l’ampiezza del fenomeno e per la sua sistematicità, che, di fatto, ha caratterizzato un ampio arco temporale (cfr. sul punto, Sez. 5, n. 15281 del 08 novembre 2016, dep. 2017, Rv. 270046).
Indimostrata risulta l’affermazione del ricorrente che il mancato pagamento delle tasse era conseguenza del tentativo di risollevare le sorti economiche della società, tenuto conto -per come prima riferito -che sin dal 2018 dai bilanci emergeva un patrimonio netto negativo, senza che il ricorrente nella sua qualità di amministratore avesse intrapreso azioni dirette alla ricostituzione del capitale sociale ovvero finalizzato alla messa in liquidazione.
In conclusione, la Corte di merito, avendo chiarito le ragioni per le quali ha ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi, oggettivo e soggettivo, dei delitti di bancarotta fraudolenta patrimoniale e di bancarotta fraudolenta per operazioni dolose, ha esplicitamente motivato in ordine al rigetto del motivo di gravame volto alla riqualificazione dei fatti quale bancarotta semplice patrimoniale.
Al rigetto dell’impugnazione consegue obbligatoriamente – ai sensi dell’art. 616, cod. proc. pen. – la condanna del proponente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma il 27/03/2025
Il Consigliere estensore Il Presidente NOME COGNOME NOME COGNOME