Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 30526 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 30526 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 06/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nata a FAENZA il 10/07/1964
avverso la sentenza del 17/09/2024 della CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Ritenuto in fatto
Con sentenza in data 17 settembre 2024, la Corte d’appello di Bologna, in parziale riforma della decisione del GUP del Tribunale di Ravenna, ha ritenuto NOME COGNOME in qualità di legale rappresentante e socia illimitatamente responsabile della ‘RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita il 1.11.2016, responsabile dei delitti di bancarotta fraudolenta per distrazione (capo A1 e A2) e di bancarotta semplice (capo B), condannandola alla pena di giustizia. Ha inoltre
dichiarato non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME anch’egli legale rappresentante e socio della omonima società, per morte dello stesso.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, articolando sei motivi di censura, di seguito riassunti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Il primo motivo deduce vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’accertamento dell’elemento materiale del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione. A fronte dei molteplici piccoli prelievi dalle casse sociali poste in essere dall’imputata (capo A1), che, secondo quanto dichiarato al curatore, servivano al sostentamento della medesima e della sua famiglia, la Corte territoriale non avrebbe esaminato in modo adeguato la questione giuridica prospettata con i motivi di appello in ordine alla configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta distrattiva. La sentenza impugnata si sarebbe limitata ad aderire all’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità , che ritiene sussistente detto reato nel caso di compensi percepiti dagli amministratori della società in assenza di una formale deliberazione degli organi societari, senza tuttavia confrontarsi con il diverso orientamento secondo cui, sussistendo il diritto al compenso dell’amministratore per l’attività s volta, ai fini della configurabilità del reato è necessario accertare se i prelievi siano o meno congrui rispetto all’impegno profuso. Inoltre, nessuna specifica argomentazione sarebbe stata svolta con riguardo al caso di specie, ove, essendo la società fallita, una società di persone, non troverebbe applicazione l’art. 2389 cod. civ., il quale con riguardo alle società di capitale prescrive che l’ammontare dei compensi dovuti all’amministratore deve essere stabilito nell’atto costitutivo o dall’assemblea.
2.2. Il secondo motivo denuncia vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’accertamento dell’elemento soggettivo del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione. La Corte territoriale non avrebbe affrontato la doglianza difensiva con cui si evidenziava la necessità di verificare se, a fronte di piccoli prelievi ‘in conto utili’, fosse configurabile la sussistenza del dolo, ovvero dovesse piuttosto ravvisarsi un atteggiamento di tipo colposo.
2.3. Il terzo motivo deduce vizio di violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla qualificazione giuridica dei fatti ascritti nel capo A1) dell’imputazione. La Corte d’appello avrebbe omesso di esaminare il motivo di gravame con il quale si sosteneva la riconducibilità al reato di bancarotta preferenziale delle condotte di prelievo contestate, le quali costituivano retribuzione per le attività svolte dall’imputata per garantire il funzionamento della società. La sentenza impugnata non avrebbe, inoltre, considerato che nel 2008 e poi nel 2011, la COGNOME e il COGNOME avevano immesso nelle casse sociali delle risorse
personali, derivanti dalla vendita di due immobili, sicché le somme prelevate ben potevano costituire una restituzione di quelle versate.
2.4. Il quarto motivo lamenta il vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in ordine all’accertamento degli elementi costitutivi del reato di bancarotta distrattiva contestato al capo A2) dell’imputazione, avente ad oggetto beni ed attrezzature di cui alle fatture nn. da 71 a 77 del 2015.
La sentenza impugnata avrebbe omesso di confrontarsi con la prospettazione difensiva che evidenziava come dette fatture avessero ad oggetto attrezzature della società che erano state pagate in parte mediante bonifici bancari, in parte in contanti e in parte mediante accollo alla ditta del figlio dei debiti della fallita verso fornitori e che le somme ricavate erano state utilizzate dalla società per saldare i propri debiti. Ciò sarebbe stato comprovato dal COGNOME attraverso il deposito di apposita documentazione al curatore fallimentare e troverebbe conferma in quanto da costui riscontrato e nella circostanza che il debito in favore dei fornitori emergente dallo stato passivo della procedura era quantitativamente contenuto. Inoltre, difetterebbe ogni valutazi one circa la configurabilità dell’elemento soggettivo in capo alla ricorrente.
2.5. Il quinto motivo deduce vizio di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al reato di bancarotta semplice (capo B). La Corte territoriale avrebbe omesso di accertare la sussistenza nella condotta dell’imputata della colpa grave, la quale non potrebbe essere desunta dal mero ritardo nella richiesta di fallimento. Inoltre, poiché, come risulta dalla relazione del curatore, la società aveva avuto un andamento altalenante e i soci avevano immesso nella stessa tutte le loro disponibilità, il relativo ritardo nella richiesta di fallimento era finalizzato a garantire la continuità aziendale in una prospettiva di ripresa dalla crisi.
2.6. Il sesto motivo denuncia vizio di violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo al giudizio di bilanciamento delle circostanze attenuanti generiche rispetto alla contestata aggravante, non avendo tenuto conto del fatto che la ricorrente aveva cercato di preservare i dipendenti e i fornitori dalle conseguenze della crisi societaria, né l’impegno dalla stessa profuso attraverso la vendita di due immobili per riequilibrare la situazione patrimoniale della società.
Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
Il ricorso è nel suo complesso infondato.
Occorre muovere dalla premessa che la sentenza della Corte d’appello ha confermato la decisione di primo grado quanto all’affermazione di responsabilità della ricorrente.
Secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, l’esito conforme delle decisioni pronunciate nei due gradi di giudizio consente di operare la lettura congiunta delle sentenze di primo e secondo grado, trattandosi di motivazioni che si fondono in un unico corpo di argomenti a sostegno delle conclusioni raggiunte.
Ricorre invero la cd. ‘doppia conforme’ quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale ( ex plurimis , Sez. 2 n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218), al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione.
Il primo e il terzo motivo, in quanto connessi, possono essere trattati congiuntamente. Essi sono manifestamente infondati.
3.1. La questione prospettata dalla ricorrente attiene alla configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione in relazione alla condotta dell’amministratore di una società di persone che prelevi dalle casse sociali somme asseritamente al medesimo spettanti a titolo di retribuzione, ove tali compensi non siano indicati nello statuto e non siano stati determinati con delibera assembleare.
Deve preliminarmente essere precisato che il diritto al compenso dell’amministratore societario non discende dall’art. 36 Cost. Invero la giurisprudenza civile afferma -in modo granitico e sui diversi fronti: tributario, laburistico, societario e fallimentare -che l’amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una società di capitali sono legati alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del re quisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 cod. proc. pen. (Sez. U, n. 1545 del 20/01/2017, Rv. 642004 03), né rientra nell’ambito di tutela assicurato dall’art. 36 Cost.; tanto che, ad esempio, si ritiene legit tima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni (Sez. 1 civ. n. 285 del 09/01/2019, Rv. 652071 – 01).
Il medesimo principio è stato affermato dalla giurisprudenza penale anche con riguardo all’amministratore di una società di persone, atteso che il rapporto di immedesimazione organica che si instaura non è assimilabile né ad un contratto d’opera né ad un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato che
giustifichino di per sé il credito per il lavoro prestato (Sez. 5, n. 14010 del 12/02/2020, COGNOME, Rv. 279103 -01).
Quanto appena precisato concerne la figura dell’amministratore societario nelle sue funzioni tipiche di gestione e rappresentanza dell’ente, ossia come soggetto che, immedesimandosi nella società, le consente di agire e raggiungere i propri fini imprenditoriali.
Diverso il caso in cui s’instauri, tra la società e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma le caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d’opera, che postula, tuttavia, vu oi l’oggettivo svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti al rapporto organico vuoi la ricorrenza della subordinazione, sia pure nelle forme peculiari compatibili con la prestazione lavorativa dirigenziale (così in motivazione Sez. U, n. 1545 del 20/01/2017, cit.); ipotesi che però non è pertinente alla fattispecie in esame.
3.2. Per tale ragione la giurisprudenza penale è pervenuta a configurare il delitto di bancarotta per distrazione, e non quello di bancarotta preferenziale, nel caso di amministratore che prelevi dalle casse sociali somme asseritamente corrispondenti a cre diti dal medesimo vantati per il lavoro prestato nell’interesse della società, senza l’indicazione di elementi che ne consentano un’adeguata valutazione, atteso che il rapporto di immedesimazione organica che si instaura tra amministratore e società, non è assimilabile né ad un contratto d’opera né ad un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato che giustifichino di per sé il credito per il lavoro prestato, dovendo invece l’eventuale sussistenza, autonoma e parallela, di un tale rapporto essere verificata in concreto attraverso l’accertamento dell’oggettivo svolgimento di attività estranee alle funzioni inerenti all’immedesimazione organica. Tale conclusione rileva ancor più per le società di persone come la fallita, che è una s.n.c., ove il potere di amministrare è strettamente connesso alla responsabilità illimitata del socio, che ha un preciso interesse a svolgere l’attività gestoria appunto (Sez. 5, n. 14010 del 12/02/2020, COGNOME, cit.).
3.3. La giurisprudenza di legittimità ha precisato che il diritto al compenso spetta all’amministratore di una società di capitali, in conseguenza dell’accettazione della carica, in forza del principio per cui, salva la previsione di gratuità, l’incarico d i amministratore ha carattere oneroso (cfr. in motivazione Sez. 5, n. 36416 del 11/05/2023, Ciri, Rv. 285115 – 01). In tal caso, tuttavia, spetta al giudice di merito verificare se, in assenza di una delibera assembleare o di una quantificazione statutaria del compenso per l’attività svolta, cui ha diritto il soggetto che abbia ritualmente accettato la carica di amministratore di una società di capitali, il prelevamento da parte di quest’ultimo di denaro dalle casse della
società in dissesto configuri il delitto di bancarotta preferenziale o, diversamente, quello di bancarotta fraudolenta per distrazione, a seconda che il diritto al compenso sia correlato o meno a una prestazione effettiva e il prelievo sia o meno congruo rispetto all’impegno profuso (cfr. Sez. 5, n. 36416 del 11/05/2023, Ciri, Rv. 285115 -01). Secondo la richiamata pronuncia l’assenza della delibera e della disposizione statutaria in relazione alla quantificazione del compenso onera il giudice di merito di verificare la congruità del compenso prelevato dall’amministratore per se stesso, sia rispetto alla prestazione assicurata, sia in ordine alla funzionalizzazione della stessa all’interesse della società.
Analoga conclusione vale, per le considerazioni svolte, anche con riguardo alle società di persone.
Ne discende che il ricorso, con il quale si intenda contrastare la condanna per bancarotta fraudolenta patrimoniale, deve indicare, a pena di inammissibilità per genericità, gli specifici elementi idonei a dimostrare il diritto al compenso e la congruità delle somme prelevate; tenuto conto che commette il reato di bancarotta per distrazione e non quello di bancarotta preferenziale l’amministratore di una società di capitali che preleva dalle casse sociali somme asseritamente corrispondenti a crediti da lui vantati a titolo di compenso per la funzione svolta, senza l’indicazione di dati ed elementi di confronto che ne consentano un’adeguata valutazione, quali, ad esempio, gli impegni orari osservati, gli emolumenti riconosciuti a precedenti amministratori o a quelli di società del medesimo settore, i risultati raggiunti (Sez. 5, n. 49509 del 19 luglio 2017, Alija, Rv. 271464).
3.4. Nel caso in esame, gli assunti della ricorrente sulla misura del compenso spettante, a fronte del rilevante importo della somma prelevata (pari complessivamente a 342.269 in quattro anni), sono generici, apodittici e non assolvono agli oneri allegativi indicati, di tal che risultano inidonei a superare la soglia del giudizio di legittimità.
4. Il secondo motivo è infondato.
In ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo che secondo la ricorrente nella specie difetterebbe -occorre richiamare l’orientamento del tutto consolidato della giurisprudenza di questa Corte, di recente ribadito dalle Sezioni unite, secondo cui l ‘elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266805). Si è inoltre precisato che tale consapevole volontà e di quella di compiere atti che possano
cagionare o cagionino danno ai creditori deve essere desunta da tutti gli elementi che caratterizzano la condotta dell’imputato, «valorizzando ‘indici di fraudolenza’ necessari a dar corpo alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa funzionale ad assicurare la garanzia dei suoi creditori e alla relativa proiezione soggettiva, ossia all’accertamento, in capo all’agente, della consapevolezza e della volontà della condotta in concreto pericolosa» (Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, COGNOME, Rv. 270763 -01, in motivazione).
Nella specie, la Corte territoriale, condividendo le conclusioni del primo giudice, con ragionamento logico e coerente, ha ritenuto che il continuativo prelievo di somme che, complessivamente, si sono rivelate di importo ingente, attestasse la consapevolezza della ricorrente di dare a tali somme una destinazione diversa dalle esigenze aziendali, tanto più che la stessa era certamente a conoscenza dell ‘ingente esposizione debitoria, in particolare nei confronti dell’erario, in cui versava la società.
Il quarto motivo, concernente la distrazione di taluni cespiti aziendali, è infondato.
5.1. La sentenza impugnata, attraverso il richiamo della decisione di primo grado, ha puntualmente rilevato che, l’affermazione della ricorrente, secondo cui le fatture concernenti tali cespiti risultavano pagate in parte mediante bonifici bancari e in contanti e in parte mediante accollo alla ditta del figlio dei debiti nei confronti dei fornitori, non ha trovato riscontro. A dispetto di quanto asserito nel ricorso, l’imputata non ha mai chiarito né dimostrato tali assunti, né l’effettiva destinazione delle somme ricavate dalla vendita dei beni aziendali per saldare i debiti della società.
Secondo il pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità, la prova della distrazione o dell’occultamento dei beni della società dichiarata fallita è desumibile dalla mancata dimostrazione, da parte dell’amministratore, della destinazione dei be ni suddetti, poiché la responsabilità dell’imprenditore per la conservazione della garanzia patrimoniale verso i creditori e l’obbligo di verità, penalmente sanzionato, gravante ex art. 87 legge fall. sul fallito interpellato dal curatore circa la destinaz ione dei beni dell’impresa, giustificano l’apparente inversione dell’onere della prova a carico dell’amministratore della società fallita, in caso di mancato rinvenimento di beni aziendali o del loro ricavato (Sez. 5, n. 17228 del 17/01/2020, Costantino, Rv. 279204 -01; Sez. 5, n. 8260 del 22/9/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 267710; Sez. 5, n. 11095 del 13/2/2014, COGNOME, Rv. 263740; Sez. 5, n. 22894 del 17/4/2014, COGNOME, Rv. 255385; Sez. 5, n. 7048 del 27/11/2008, dep. 2009, COGNOME, Rv. 243295).
5.2. Riguardo poi alla sussistenza dell’elemento soggettivo, occorre ribadire che le sentenze di primo e di secondo grado si saldano tra loro e formano un unico complesso motivazionale, avendo i giudici di appello esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice; ne consegue che il motivo di ricorso in esame, non avendo riguardato elementi nuovi, ma essendosi limitato a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione impugnata, risulta infondato.
6. Il quinto motivo è infondato.
Correttamente la difesa ha rilevato che l’omissione della tempestiva richiesta di dichiarazione del proprio fallimento, quale condotta tipizzata di aggravamento del dissesto, deve essere sorretta dal coefficiente psicologico della colpa grave, in sé non desumibile dalla sola omissione degli amministratori, in quanto condotta, quest’ultima, astrattamente riconducibile ad una pluralità di scelte gestionali (Sez. 5, n. 38077 del 15/07/2015, Preatoni, Rv. 264743; Sez. 5, n. 43414 del 25/09/2013, Pg in proc. COGNOME e altri, Rv. 257533; Sez. 5, n. 18108 del 12/03/2018, COGNOME, Rv. 272823).
La Corte territoriale, tuttavia, lungi dal far discendere la sussistenza di colpa grave a carico dell’imputata dalla mera circostanza del ritardato deposito della domanda di fallimento, ha indicato gli elementi dai quali ha desunto la consistenza del profilo psicologico della condotta contestata, attraverso il sintetico richiamo alla relazione del curatore fallimentare, nella quale si evidenziava come lo stato di «tensione finanziaria» della società fosse evidente fin dal 2008, anno a partire dal quale avevano cominciato ad accumularsi perdite e come i soci utilizzavano il mancato pagamento delle imposte e dei contributi dei lavoratori dipendenti per pagare le retribuzioni degli stessi e per autofinanziarsi. Da tali elementi è logicamente desumibile la consapevole rappresentazione delle conseguenze di un eventuale ed ulteriore ritardo nella presentazione dell’istanza di fallimento.
7. Anche il sesto motivo, con il quale si censura il giudizio di valenza delle circostanze attenuanti generiche rispetto alle contestate aggravanti, è privo di pregio. Tale motivo non è consentito in sede di legittimità ed è manifestamente infondato implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito che sfugge al sindacato di legittimità, qualora non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che, per giustificare la soluzione dell’equivalenza, si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, COGNOME, Rv. 245931). Le conclusioni cui sono pervenuti i giudici del merito, i quali hanno ritenuto equo il giudizio di equivalenza
delle circostanze, anche in considerazione della adeguatezza della pena in tal modo determinata, in relazione al disvalore dei fatti e alla personalità dell’imputata, gravata da precedenti penali, si sottraggono pertanto alle censure svolte dalla ricorrente.
Alla luce delle considerazioni esposte, il ricorso risulta complessivamente infondato sicché deve essere rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così è deciso, 06/06/2025
Il Consigliere estensore Il Presidente
NOME COGNOME NOME COGNOME