Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 12617 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 12617 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 10/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a PANDINO il 12/04/1959
avverso la sentenza del 08/11/2024 della CORTE APPELLO di MILANO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME
udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso;
udito il difensore del ricorrente, avv. NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento dei motivi proposti;
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano confermava la pronuncia di condanna di primo grado del ricorrente per i delitti di cui agli artt. 223, comma 2, n. 2 e 216, comma 1, n. 2, I.fall. in quanto, quale presidente del Consiglio di amministrazione della RAGIONE_SOCIALE aveva compiuto più fatti di bancarotta, consistenti: a) nel cagionare il fallimento della società per effetto di operazioni dolose consistite nella sistematica omissione del pagamento degli oneri fiscali e contributivi, accumulando così un debito nei confronti dell’erario pari ad euro 398.464,06 a fronte di un passivo totale di euro 488.739,16; b) nell’omessa tenuta di libri e scritture contabili, nonché nella mancata redazione di bilanci e presentazione delle dichiarazioni fiscali in modo da non consentire la ricostruzione del patrimonio della società e del movimento degli affari, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto
Avverso la richiamata sentenza della Corte di Appello di Milano l’imputato propone ricorso per cassazione, affidandosi, mediante il difensore di fiducia, avv. NOME COGNOME, a tre motivi, di seguito ripercorsi entro i limiti previsti dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo denuncia inosservanza della legge penale con riferimento agli artt. 223 e 216 I. fall. nonché vizio di motivazione in ordine alla mancata assoluzione dal reato.
A fondamento della censura espone che le decisioni di merito si erano basate sulle dichiarazioni del curatore fallimentare che, tuttavia, non aveva a disposizione, in quanto oggetto di sequestro, una parte rilevante della documentazione sociale, sicché si era limitato a ricostruire la vicenda sommariamente, attingendo ad articoli di stampa e a notizie mediatiche.
Rileva, più in particolare, rispetto all’ipotesi delittuosa consistente nell’aver cagionato il dissesto per effetto di operazioni dolose, che la decisione impugnata non avrebbe tenuto conto dei motivi di appello con i quali era stato dedotto che la cooperativa era stata legittimamente costituita ai sensi dell’art. 3, comma 2, della legge 8 agosto 1985, n. 443, come cooperativa artigiana nella quale, dunque, i soci artigiani, nella loro veste di lavoratori autonomi, erano tenuti a provvedere direttamente al pagamento degli oneri contributivi. Sicché la circostanza che, poi, a seguito di un accertamento dell’INPS in forza del quale il rapporto di lavoro dei soci era stato riqualificato come quello di lavoratori dipendenti, era sorto un rilevante deposito contributivo, era inidonea a configurare il reato ascritto.
Quanto alla bancarotta fraudolenta documentale sottolinea che essa non avrebbe potuto configurarsi, stante l’assenza del dolo specifico di arrecare pregiudizio ai creditori, poiché le scritture contabili non erano state consegnate solo in quanto erano state sequestrate dall’autorità giudiziaria.
2.2. Mediante il secondo motivo l’imputato denuncia inosservanza della legge penale con riferimento all’art. 217 I. fall. nonché vizio di motivazione in ordine alla mancata derubricazione del reato nella fattispecie di bancarotta documentale semplice, atteso che il vincolo del sequestro apposto sulla stessa gli aveva impedito di consegnare la documentazione contabile agli organi fallimentari.
2.3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia inosservanza della legge penale in riferimento all’art. 62-bis cod. pen., nonché vizio di motivazione quanto all’omessa concessione delle circostanze attenuanti generiche prevalenti rispetto alle contestate aggravanti, e ciò sia per il suo stato di incesuratezza, sia per la condotta leale tenuta e il suo inserimento in un contesto sociale del tutto tranquillizzante.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.II primo motivo, nella parte in cui il ricorrente contesta la condanna per il delitto consistente nell’aver cagionato il fallimento mediante operazioni dolose, non è fondato.
In particolare, le suggestive argomentazioni della difesa dell’imputato si fondano sulla prospettazione per la quale egli aveva legittimamente omesso di pagare i contributi stante la costituzione dell’impresa nella forma della cooperativa artigiana e che il debito contributivo era seguito all’accertamento operato dall’INPS, che aveva riqualificato come dipendente e non autonomo il rapporto dei soci lavoratori. Di qui egli non avrebbe posto in essere una condotta assimilabile a quella propria dell’aver cagionato il fallimento per effetto di operazioni dolose rientrante sotto l’egida della norma incriminatrice.
Queste censure, tuttavia, non colgono nel segno.
1.1.0ccorre premettere, a riguardo, che il lavoro artigiano, ai sensi dell’art. 2222 cod. civ., è una delle forme in cui può esplicarsi un contratto d’opera in modalità autonoma. Tale attività può essere esercitata sia in forma individuale che associata, come previsto dall’art. 3 della legge 25 luglio 1956, n. 860, e dagli artt. 2, 3, secondo comma, e 4 dalla successiva legge 8 agosto 1985, n. 443.
In particolare, l’art. 2 di quest’ultima legge stabilisce che «è imprenditore artigiano colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo». Inoltre, l’art. 3, secondo comma prevede che l’impresa artigiana possa essere costituita in forma di cooperativa.
E, tuttavia, se il prestatore d’opera che sia socio di una società cooperativa può essere considerato come artigiano, e quindi tenuto autonomamente al versamento dei contributi previa iscrizione alla Gestione previdenziale speciale autonoma degli artigiani, occorre considerare che, in realtà, questa non è l’unica modalità nella quale il socio lavoratore può svolgere le proprie prestazioni all’interno della cooperativa artigiana.
Invero, vi è che l’art. 1, terzo comma, della legge 3 aprile 2001, n. 142, puntualizza che «il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all’instaurazione del rapporto associativo un ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione coordinata non occasionale, con cui contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali».
Sul piano formale la connotazione del rapporto giuridico tra la società cooperativa e il lavoratore artigiano è rinvenibile sia nello statuto associativo, nel quale sono individuate le modalità di raggiungimento dell’oggetto sociale dell’attività imprenditoriale a cui le attività dei singoli devono tendere, sia nel contratto tra il lavoratore e la cooperativa, nel quale è specificatamente indicata la tipologia di rapporto lavorativo instaurato.
Nondimeno, rispetto a tali elementi negoziali, a prevalere è la corretta qualificazione del rapporto in forza delle modalità concrete con la quale la prestazione è operata, nel senso che se anche il socio artigiano è inquadrato come lavoratore autonomo, deve essere considerato ad ogni effetto, compreso quello relativo all’individuazione del soggetto tenuto al versamento dei contributi previdenziali, come la prestazione lavorativa è effettivamente svolta, potendosi pervenire ad un inquadramento del socio quale lavoratore subordinato ove emerga che nella fase esecutiva la prestazione sia stata svolta assoggettandosi al potere direttivo del datore di lavoro ex art. 2094 cod. civ. (Sez. L, n. 4308 del 06/04/2000, Rv. 535381).
Come è stato ripetutamente chiarito, infatti, dalla Sezione Lavoro di questa Corte, il nomen iuris attribuito dalle parti oppure l’iscrizione del lavoratore nell’albo delle imprese artigiane o in una gestione previdenziale separata, come del resto la cadenza e la misura fissa della retribuzione o l’assenza di rischio,
costituiscono elementi meramente sussidiari ai fini dell’accertamento della natura, subordinata o meno, di un rapporto di lavoro, giacché l’elemento distintivo del rapporto di lavoro subordinato consiste nell’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, che si estrinseca in specifiche disposizioni, le quali si risolvono nell’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale (Sez. L, n. 9151 del 13/05/2004, Rv. 572859).
Di qui, con riferimento alla problematica in esame, è stato in modo più specifico puntualizzato che il socio di una società cooperativa artigiana, che svolga lavoro personale, anche manuale, nell’impresa, è considerato, ai fini contributivi e delle prestazioni, come un dipendente della società, la quale è tenuta a versare i contributi sugli utili (“retribuzioni”) corrisposti allo stesso per lavori assunti dalla società nella misura prevista per i dipendenti del settore artigiano (ex ceteris, Sez. lav., n. 66 del 08/01/2007, Rv. 594247).
1.2. E, allora, se è vero che i soci di una cooperativa artigiana possono essere lavoratori autonomi che devono versare essi stessi i contributi previdenziali, nondimeno nella fattispecie per cui è processo è stato accertato dall’INPS, come hanno congruamente sottolineato i giudici di merito (pag. 10 sentenza di grado), che, in realtà, i soci medesimi svolgevano un’attività connotata dai caratteri dell’eterodirezione propria, ai sensi dell’art. 2094 cod. civ., dei lavoratori subordinati (arg., a contrario, da Sez. 3, n. 4037 del 12/03/1997, Rv. 208270), e che erano stati peraltro “costretti”, una volta costituita la Società cooperativa fallita, a sottoscrivere una scrittura privata in cui manifestavano la volontà di essere assunti come lavoratori artigiani autonomi sebbene avessero continuato a svolgere la propria attività come lavoratori dipendenti secondo le medesime modalità seguite precedentemente in un’altra cooperativa riconducibile al ricorrente nella quale erano inquadrati come dipendenti.
E, invero, che la forma cooperativa artigiana era stata scelta dall’imputato, a seguito di una verifica della Guardia di finanza su un’altra cooperativa, proprio per evitare il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali, è stato riferito proprio dallo stesso. Che, dunque, poteva ben prevedere le conseguenze che sarebbero potute derivare, com’è puntualmente avvenuto, per la società cooperativa, qualora fosse stata operata dall’INPS la corretta qualificazione del rapporto di lavoro dei dipendenti, e, in particolare, il sorgere di una rilevante posizione debitoria per omesso versamento dei contributi che avrebbe potuto condurre la società al dissesto.
Il che consente, anche sul piano soggettivo, di ritenere che sussistano, come hanno correttamente ritenuto le pronunce di merito, gli elementi costitutivi del
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delitto ascritto al ricorrente, atteso che, come è stato parimenti più volte sottolineato nella giurisprudenza di legittimità, il reato consistente nell’aver cagionato il fallimento per effetto di operazioni dolose si sostanzia in un’eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, nella quale l’onere probatorio dell’accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura “dolosa” dell’operazione alla quale segue il dissesto, nonché dell’astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell’azione anti-doverosa, non essendo necessarie, ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell’evento fallimentare. Di qui, per la configurabilità del reato è necessaria la rappresentazione dell’azione nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i doveri propri del soggetto che svolge un ruolo gestorio nella società a fronte degli interessi dell’impresa (Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Cassa di Risparmio di Rieti, Rv. 247315). Vi è infatti che l’art 223, comma 1, I.fall. prevede due autonome fattispecie criminose; esse, dal punto di vista oggettivo, non presentano sostanziali differenze, mentre, da quello soggettivo, vanno tenute distinte, perché nella ipotesi di causazione dolosa del fallimento, questo è voluto specificamente, mentre nel fallimento conseguente ad operazioni dolose, esso è solo l’effetto di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell’operazione ha accettato il rischio della stessa, di talché la prima fattispecie è a dolo specifico, mentre la seconda è a dolo generico (Sez. 5, n. 11945 del 22/09/1999, de Rosa G, Rv. 214856-01). In sostanza, nell’ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa (Sez. 5, n. 45672 del 01/10/2015, COGNOME, Rv. 265510). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Con riferimento al reato di bancarotta fraudolenta documentale le doglianze del ricorrente sono, invece, fondate.
Tale delitto è stato infatti contestato nel senso che l’imputato ometteva di tenere i libri e le scritture contabili.
In detta ipotesi, come è noto, e secondo la stessa prospettazione accusatoria, è necessario accertare il dolo specifico ai fini della configurabilità del delitto. E, invero, costituisce principio ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, in tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’occultamento delle scritture contabili, per la cui sussistenza è necessario il dolo specifico di arrecare pregiudizio ai creditori, consistendo nella fisica sottrazione delle stesse alla disponibilità degli organi fallimentari, anche sotto forma della
loro omessa tenuta, costituisce una fattispecie autonoma ed alternativa nell’ambito dell’art. 216, comma primo, n. 2), legge fall. – rispetto alla fraudolenta tenuta di tali scritture che, invece, integra un’ipotesi di reato a dolo generico e presuppone un accertamento condotto su libri contabili effettivamente rinvenuti ed esaminati dai predetti organi (ex ceteris, Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, COGNOME, Rv. 279838 – 01; Sez. 5, n. 26379 del 05/03/2019, COGNOME, Rv. 276650 – 01).
Sotto tale aspetto, le decisioni di merito non hanno speso una motivazione adeguata sulla sussistenza del dolo specifico in capo al ricorrente.
In primo luogo, non si comprende se è stata accertata, o meno, l’esistenza delle scritture contabili e, in questa seconda ipotesi, se le stesse erano state effettivamente poste sotto sequestro. Invero, come osserva la decisione di primo grado, questa circostanza sarebbe stata oggetto della prospettazione alternativa del ricorrente rispetto all’ipotesi accusatoria dell’omessa tenuta delle scritture contabili.
A voler anche ritenere, poi, che dette scritture fossero esistenti e oggetto di sequestro da parte dell’autorità giudiziaria, come sembra invece assumere la sentenza impugnata, non è certo sufficiente, per la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto nel senso sopra indicato, che l’imputato non le abbia richieste all’autorità giudiziaria, atteso che si tratterebbe di una condotta, sorretta dalla mera colpa e che, peraltro, analoga richiesta avrebbe potuto essere effettuata dal Curatore.
Né può, come ha affermato la decisione del Tribunale, prospettarsi il dolo specifico richiesto per la configurabilità della fattispecie incriminatrice per la sola complessiva condotta decettiva della COGNOME, vieppiù in quanto essa si è estrinsecata nel mancato versamento degli oneri contributi, la cui debenza era stata tuttavia già accertata dall’INPS (che, infatti, è stato ammesso al passivo del fallimento).
L’accoglimento dei motivi di ricorso dello COGNOME rispetto al delitto di bancarotta fraudolenta documentale, comporta l’assorbimento del terzo motivo relativo al trattamento sanzionatorio.
Pertanto la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al reato di bancarotta fraudolenta documentale con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.
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Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di bancarotta fraudolenta documentale con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.
Rigetta il ricorso nel resto. Così deciso in Roma il 10 marzo 2025 Il Consigliere Estensore
Il Presidente