Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 20628 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 20628 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME COGNOME nato a Civitella Del Tronto il 28/09/1947
avverso la sentenza del 23/09/2024 della Corte d’appello di L’Aquila Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; Udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME Letta la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di L’Aquila ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Teramo, in data 28 ottobre 2022, che ha condannato NOME COGNOME alla pena di giustizia per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale ex art. 216 comma 1 n.1) e 223 comma 1 e 2 n. 2) legge fall.
Il Tribunale ha dichiarato l’imputato colpevole nella qualità di amministratore e legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE Di Luigi Dante RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita dal Tribunale di Teramo con sentenza del 15.10.2020, ritenendo provata la distrazione di somme di denaro (per complessivi 139.035,00), operata attraverso versamenti e bonifici in favore della società RAGIONE_SOCIALE della quale l’imputato era unico socio e amministratore, creata nel 2018 con la stessa sede legale (oltre che operativa) e oggetto sociale della fallita, quando era divenuto manifesto lo stato di decozione della stessa e a seguito di dissapori con i dipendenti che ne avevano successivamente chiesto il fallimento.
L’imputato , per il tramite del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi.
2.1. Con primo motivo denuncia vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del dolo.
Deduce la carenza di motivazione e che la prova dell’elemento psicologico del reato sarebbe stata desunta dalla mera sussistenza del fatto sotto il profilo materiale. Si duole della mancata considerazione di elementi di segno contrario rispetto all’assunto accusatorio in quanto: non sono state valutate le dichiarazioni del consulente contabile il quale ha attestato la regolarità della documentazione e che la società, alla data del 30 settembre 2020, aveva un utile di bilancio di sessantamila euro , senza pendenze erariali; l’esposizione ver so le banche era minima (pari a venticinquemila euro) a fronte di un fatturato di oltre duecentomila euro; il consulente del lavoro aveva individuato nei dissapori con i dipendenti l’unica causa della crisi aziendale.
2.2. Con secondo motivo denuncia violazione di legge in relazione agli artt. 62 bis, 132 e 133 cod. pen. e vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Deduce la mancata considerazione degli elementi specifici dedotti attraverso i motivi nuovi presentati in sede di giudizio di appello: il Tribunale aveva valorizzato, ai fini del diniego delle invocate circostanze, le dichiarazioni del curatore fallimentare sulla mancata collaborazione da parte dell’imputato rispetto alla ricostruzione dei movimenti economici della società fallita senza, tuttavia, considerare che lo stesso curatore era stato revocato da parte del Tribunale fallimentare per avere indebitamente effettuato versamenti di denaro dalla società in bonis (RAGIONE_SOCIALE nelle casse della società fallita.
2.3. Con terzo motivo denuncia violazione di legge in relazione all’art. 53 della legge n. 689 del 1981, come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022, e vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione della pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, deducendo la mancanza di motivazione idonea ad evidenziare
un giudizio prognostico negativo sulla personalità dell’imputato ed un concreto pericolo di violazione delle prescrizioni imposte.
3.Il Sostituto Procuratore generale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è nel suo complesso infondato.
1. Il primo motivo è manifestamente infondato.
La difesa deduce una carenza di motivazione della sentenza impugnata in ordine all’elemento soggettivo del reato ricostruito in modo inferenziale sulla base di elementi oggettivi ritenuti idonei a disvelare l’intenzione dell’imputato di conferire al patrimonio sociale una destinazione diversa dal soddisfacimento di fini sociali, mediante distrazione di una cospicua somma di denaro, fatta confluire dalle casse di quest’ultima nelle casse di altra società (RAGIONE_SOCIALE riconducibile al medesimo imputato, oltre che avente il medesimo oggetto sociale. In particolare, è stato accertato, ed è incontestato, che il ricorrente: nel 2018, quando già era evidente il dissesto della società fallita (RAGIONE_SOCIALE, ha costituito altra società, RAGIONE_SOCIALE interamente sotto il suo controllo, avente la stessa sede operativa, oggetto sociale e compagine soggettiva della prima; dalla società fallita, e a beneficio della nuova società, sono stati effettuati indebiti versamenti di denaro, privi di ogni giustificazione; tali ultimi versamenti venivano contabilizzati come ‘capitale sociale’ o ‘debito verso soci/finanziamenti infruttiferi’ piuttosto che come voce di debito verso la società fallita; in capo alla società fallita sono state risultate concentrate le sole passività costituite dai debiti verso ex dipendenti, per il trattamento di fine rapporto ad essi spettante, oltre che i debiti verso l ‘ erario e verso un istituto di credito. Il ragionamento seguito dalla Corte territoriale, nel respingere doglianza difensiva analoga a quella veicolata attraverso il ricorso, deve ritenersi esente da vizi e con forme all’insegnamento di questa Corte secondo cui , nel reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, la prova dell’elemento soggettivo può ben essere desunta dai c.d. “indici di fraudolenza” delle condotte, poste in essere nella fase precedente al fallimento, allorquando la condizione patrimoniale e finanziaria della società era già in crisi (Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, COGNOME, Rv. 270763).
Inoltre, l’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, secondo quanto ribadito dalle stesse Sezioni Unite di questa Corte, è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la
consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266805).
La fattispecie in esame dà conto, in termini di immediata evidenza dimostrativa (e al di fuori di qualsiasi logica presuntiva), della “fraudolenza” del fatto di bancarotta patrimoniale e, dunque, non solo dell’elemento materiale, ma anche del dolo del reato in esame, tenuto conto della sequenza delle condotte realizzate, in successione, in un’unica ottica di spoliazione dell’impresa poi fallita ovvero in una fase di già conclamata decozione della stessa e del filo conduttore unitario che ha ispirato i singoli segmenti, collegato a ragioni di dissapori con i dipendenti della stessa società.
Le doglianze difensive sono generiche e non si confrontano con le ragioni della decisione impugnata, risultando collegate a circostanze assertive e di contorno, del tutto prive di incidenza sulla idoneità della condotta ad esporre a pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma.
Anche il richiamo alle dichiarazioni rese dal consulente contabile e dal consulente del lavoro della società fallita è del tutto inidoneo ad evidenziare un profilo di illogicità nella motivazione, in quanto prescinde dalla lettura delle stesse dichiarazioni e dalla circostanza, evidenziata anche dalla sentenza di primo grado, secondo la quale proprio questi ultimi hanno fornito una chiave di lettura della condotta di spoliazione del patrimonio della società fallita, posta in essere dal ricorrente, ricollegandola alla ‘rottura’ intervenuta fra quest’ultimo e i suoi ex dipendenti per questioni collegate al dovuto pagamento del trattamento di fine rapporto.
2. Sono manifestamente infondate anche le doglianze proposte con il secondo motivo che investono la legittimità del trattamento sanzionatorio in punto di mancata concessione delle attenuanti generiche. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di legittimità la determinazione in concreto del trattamento sanzionatorio è frutto di una valutazione di merito insindacabile in sede di legittimità. Inoltre, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010 Rv. 248244; Sez. 1 sent. n. 3772 del 11.01.1994, rv 196880). La concessione delle attenuanti generiche richiede, infatti, l’apprezzamento di elementi positivi che orientino la discrezionalità affidata al giudice nella definizione del
trattamento sanzionatorio verso l’attribuzione di una sanzione meno afflittiva. Si ribadisce, dunque, che il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l’assenza di elementi o circostanze di segno positivo, tanto più dopo la riforma dell’art. 62-bis cod. pen., disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell’imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Rv. 270986).
Nel caso di specie la Corte di merito ha definito il trattamento sanzionatorio nel rispetto di tali indicazioni, peraltro partendo dalla sanzione minima edittale ed applicando la riduzione di pena correlata al rito prescelto, offrendo una motivazione che non si presta ad alcuna censura in questa sede.
Le censure difensive appaiono del tutto prive, inoltre, di specificità e non colgono nel segno neppure quando pretendono di rilevare una presunta contraddittorietà insita nel fatto di avere la sentenza di primo grado sottolineato la mancata collaborazione dell’imputato nei confronti del curatore per la ricostruzione delle movimentazioni economiche dovuta alla circostanza che il medesimo curatore sarebbe stato successivamente revocato da parte del tribunale fallimentare, trattandosi comunque di rilievo inidoneo a fornire giustificazione rispetto alla condotta distrattiva dell ‘imputato, costituente il fulcro dell’accusa a suo carico.
3. Il terzo motivo è infondato.
L’art. 58 della legge n. 689 del 1981, intitolato ‘Potere discrezionale del giudice nell’applicazione e nella scelta delle pene sostitutive’, prevede al comma 1, nel nuovo testo, che questi, nei limiti fissati dalla legge e tenuto conto dei criteri indicati nell’art. 133 cod. pen., se non ordina la sospensione condizionale della pena, può applicare le pene sostitutive della pena detentiva quando risultano più idonee alla rieducazione del condannato e quando, attraverso opportune prescrizioni, assicurano la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati.
Anche il risalto dato alle ulteriori informazioni attinenti le condizioni personali, familiari, sociali o patrimoniali dell’imputato corrobora la conclusione che non sussista alcun automatismo fra l’entità della pena irrogata, ove al di sotto del limite in dividuato dalla legge, e l’applicazione delle pene sostitutive, dipendendo le stesse da una valutazione caso per caso e da variabili attinenti alla persona dell’imputato , oltre che dall’imprescindibile volontà dello stesso , chiamato in ogni caso ad esprimere il proprio «consenso».
Come già ritenuto da questa Corte in riferimento alle “sanzioni sostitutive” disciplinate dall’originario art. 53 legge n. 689 del 1981 (Sez. 3, n. 19326 del 27/01/2015, Rv. 263558), la sostituzione delle pene detentive brevi è rimessa ad
una valutazione discrezionale del giudice, che deve essere condotta con l’osservanza dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., prendendo in esame, tra l’altro, le modalità del fatto per il quale è intervenuta condanna e la personalità del condannato; e tale indicazione di principio è senza dubbio trasponibile anche alle nuove “pene sostitutive”, atteso che la disciplina normativa introdotta con la novella del 2022, continua a subordinare la sostituzione a una valutazione giudiziale ancorata ai parametri di cui al citato art. 133 cod. pen., puntualmente richiamato anche dall’attuale tenore dell’art 58 della legge n. 689 del 1981 (Sez. 6, n. 33027 del 10/05/2023, Rv. 285090).
Nel caso in esame, peraltro, la doglianza difensiva è del tutto generica in quanto non accompagnata dalla prospettazione di elementi che possano fare ritenere sussistenti, in concreto, i presupposti per l’applicazione in favore dell’imputato di una sanzione sostitutiva della pena detentiva irrogata o espressamente indicativi di un interesse dell’imputato verso tale modalità di espiazione della pena.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 02/04/2025.