Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 12359 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 12359 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 14/11/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a CARPENEDOLO il 16/02/1954 COGNOME NOME nato a BRESCIA il 27/11/1958
avverso la sentenza del 08/03/2024 della CORTE APPELLO di BRESCIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME udite le conclusioni del Sostituto Procuratore generale COGNOME che ha chiesto di rigettare i ricorsi; udite le conclusioni dell’avv. NOME COGNOME per entrambi i ricorrenti, che ha chiesto di accogliere i ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1. La sentenza impugnata è stata pronunziata 1’8 marzo 2024 dalla Corte di appello di Brescia, che ha riformato – riducendo la durata delle pene accessorie la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Brescia, resa all’esito di rito abbreviato, che aveva condannato COGNOME NOME NOME e COGNOME NOME per il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva, in relazione alla società “RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita il 21 novembre 2017.
Secondo l’impostazione accusatoria, ritenuta fondata dei giudici di merito, i due imputati, nella qualità di amministratori, avrebbero distratto il credito di euro 32.460,00 vantato della società nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, mediante compensazione con i debiti che la fallita aveva nei confronti dei fornitori e, precisamente, con il debito di euro 25.000,00 verso la “RAGIONE_SOCIALE” e con il debito di euro 7.460,00 verso la “RAGIONE_SOCIALE“.
Avverso la sentenza della Corte di appello, entrambi gli imputati, con separati atti, hanno proposto ricorso per cassazione a mezzo dei loro difensori.
Il ricorso dell’avv. NOME COGNOME per COGNOME NOME COGNOME si compone di tre motivi.
3.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 216 legge fall.
Rappresenta che i giudici di merito hanno affermato che: mancava qualsiasi documentazione che confermasse l’impegno del COGNOME di pagare i debiti verso le due società creditrici della fallita; solo l’effettivo pagamento dei debiti della fall avrebbe giustificato la compensazione dei debiti; erano «inattuali» i debiti gravanti sulla società fallita.
Secondo il ricorrente, la motivazione della sentenza impugnata, nelle parti in questione, sarebbe mancante o comunque contraddittoria.
Al riguardo, lamenta la mancata valutazione del documento del 7 gennaio 2016, prodotto dalla difesa, con il quale «la “RAGIONE_SOCIALE” comunicava al debitore NOME COGNOME l’intervenuta compensazione, conseguente all’accollo, da parte del COGNOME, dei debiti della società nei confronti dei fornitori». Lamenta, altresì, l mancata valutazione della consulenza tecnica di parte, dalla quale risultava che: «il credito della società nei confronti del COGNOME era maturato progressivamente a partire dall’anno 2005»; i debiti della società nei confronti dei due fornitori erano, certi liquidi ed esigibili; le due società fornitrici non si erano insinuate nel passiv Il consulente di parte, inoltre, aveva evidenziato che risultava del tutto irrilevante
la mancata prova dell’effettivo pagamento, in quanto, a seguito dell’accollo, il COGNOME aveva comunque assunto i debiti nei confronti dei fornitori. L’accollo, dunque, aveva determinato un vantaggio patrimoniale per la società, che si era tradotto nell’elisione della relativa posta debitoria.
3.2. Con un secondo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 216 legge fall.
Contesta la motivazione della sentenza impugnata, sostenendo che, nella parte relativa alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, sarebbe illogica.
A tal fine, rappresenta che la Corte di appello, con particolare riferimento alla sussistenza del dolo, ha affermato che: l’operazione era stata realizzata in piena crisi e pochi mesi prima di porre in liquidazione la società; il dolo non poteva essere escluso dalla circostanza che gli imputati avevano rinunciato a farsi retribuire; l’entità del danno arrecato alla società rendeva evidente la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato e la scarsa rilevanza del presunto parere di un tecnico sulla possibilità, da un punto di vista contabile, di effettuare l’operazione.
Il ricorrente contesta tali affermazioni, evidenziando che: l’operazione in questione era stata effettuata il 7 gennaio 2016 (come risulterebbe dal documento allegato), sebbene contabilizzata solo il 31 dicembre 2016; nel corso dell’anno 2016, la società era ancora operativa, avendo ricevuto commesse e disponibilità al finanziamento da parte degli istituti di credito; la circostanza che gli imputati non pretendevano uno stipendio e quella che avevano concesso alla società, a titolo di comodato gratuito, un immobile di loro proprietà erano logicamente incompatibili con il dolo; contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, come emergeva dalla consulenza tecnica di parte, l’operazione in questione non aveva comportato alcun danno effettivo a carico della società.
3.3. Con un terzo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 217 legge fall.
Sostiene che la sentenza impugnata sarebbe priva di motivazione o comunque corredata da motivazione contraddittoria, nella parte in cui ha escluso la possibile riqualificazione del fatto nella diversa fattispecie della bancarotta semplice, facendo riferimento agli stessi argomenti utilizzati per affermare la natura distrattiva dell’operazione, che, per le ragioni esposte nell’ambito dei precedenti motivi di ricorso, sarebbero privi di fondamento.
Il ricorso dell’avv. NOME COGNOME per COGNOME NOME, si compone di tre motivi.
4.1. Con un primo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 216 e 223 legge fall.
Sostiene che la ricostruzione dei giudici di merito muoverebbe dall’assunto erroneo secondo il quale i debiti della fallita nei confronti dei fornitori sarebbero inesistenti, in quanto non più attuali.
Il ricorrente contesta tale affermazione, evidenziando che, come risulterebbe da entrambe le consulenze tecniche di parte, i crediti che vantavano i fornitori erano certi, liquidi ed esigibili.
La società era stata sollevata da tali debiti per effetto dell’accollo, come risultava anche dalla mancata insinuazione dei due fornitori nel passivo fallimentare.
Risultava dunque evidente che alcun danno risultava arrecato alla società, che aveva beneficiato dell’accollo, in compensazione dei crediti vantati nei confronti del COGNOME.
4.2. Con un secondo motivo, deduce i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 216 e 223 legge fall.
Sostiene che il COGNOME, in ogni caso, sarebbe estraneo all’operazione in questione, che sarebbe stata predisposta e realizzata dal COGNOME, su suggerimento del consulente contabile della società. Il COGNOME, d’altronde, non avrebbe tratto alcun beneficio dall’operazione, che ai suoi occhi – ingegnere meccanico, privo di competenze contabili – risultava patrimonialmente in equilibrio e quindi inidonea a cagionare alcun danno alla società.
Mancherebbe, in ogni caso, completamente la volontà dell’imputato di danneggiare la società.
Il ricorrente sostiene, inoltre, che la Corte territoriale non si sarebbe confrontata con le nette censure che la difesa aveva mosso con l’atto di appello.
4.3. Con un terzo motivo, deduce il vizio di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 217 e 224 legge fall.
Contesta la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la possibile riqualificazione del fatto nella diversa fattispecie della bancarotta semplice, sostenendo che la Corte di appello non si sarebbe effettivamente confrontata con le osservazioni della difesa, che aveva evidenziato che la rinuncia all’incasso del credito vantato nei confronti del COGNOME, in cambio dell’accollo di un debito prevedibilmente non esigibile, costituirebbe solo un’operazione economicamente imprudente.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Entrambi i ricorsi devono essere rigettati.
Il ricorso di COGNOME NOME NOME deve essere rigettato.
2.1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
I giudici di merito, infatti, hanno ritenuto che l’operazione con la quale gli imputati avevano rappresentato nelle scritture la compensazione fosse un mero artificio contabile, non potendosi operare la compensazione di un credito che la società vantava nei confronti del Pasotti con debiti che gravavano nei confronti di terze persone. Hanno escluso che potesse ritenersi integrato un accollo del Pasotti dei debiti che gravavano sulla società, in assenza di un impegno giuridicamente valido che dimostrasse l’assunzione da parte dell’imputato dei debiti della società. Hanno evidenziato che, in ogni caso, anche il presunto accollo non avrebbe liberato la società dai debiti, essendo rimasti i terzi creditori del tutto estranei alla presunta operazione. In ogni caso, dunque, alla perdita del credito vantato dalla fallita nei confronti del COGNOME non era effettivamente corrisposto alcun vantaggio compensativo per la società.
Si tratta di una motivazione congrua in fatto e in linea con la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, al fine di escludere la natura distrattiva di un’operazione, può rilevare solo un accollo liberatorio per il debitore accollato, a seguito di una manifestazione di volontà in tal senso del creditore accollatario (cfr. Sez. 5, n. 20807 del 05/03/2018, COGNOME, Rv. 273032; Sez. 5, n. 48061 del 02/10/2019, COGNOME, Rv. 278313).
Quanto alla presunta mancata valutazione della consulenza tecnica di parte e del documento allegato ricorso, va ribadito che «nella motivazione della sentenza il giudice del gravame non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, sicché debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata» (Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, COGNOME, Rv. 281935; cfr. anche Sez. 2, n. 46261 del 18/09/2019, COGNOME, Rv. 277593).
Va, d’altronde, rilevato che gli argomenti della consulenza tecnica invocati dal ricorrente erano stati correttamente disattesi dalla Corte di appello, che aveva, in linea con la giurisprudenza di legittimità, escluso in ogni caso la rilevanza di un accollo non liberatorio. Quanto al documento del 7 gennaio 2016, allegato al ricorso, si tratta di una missiva (con firma illeggibile) della società fallita inviata a «RAGIONE_SOCIALE», con la quale quest’ultimo veniva invitato a compensare il «credito verso la Ditta COGNOME RAGIONE_SOCIALE» (ossia COGNOME Sergio veniva invitato a compensare il debito verso la ditta COGNOME RAGIONE_SOCIALE), «avendo provveduto COGNOME Sergio ad accollarsi il debito nei confronti dei debitori». Si tratta di una missiva poco
comprensibile e che non sembra essere in grado di disarticolare la decisione dei giudici di merito, che avevano ritenuto che non sussistesse un documento giuridicamente valido che dimostrasse l’accollo e che, in ogni caso, risultasse privo di rilevanza un accollo non liberatorio.
2.2. Il secondo motivo è infondato.
I giudici di merito, invero, hanno adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, senza incorrere in alcun vizio logico determinante, risultante dal testo della sentenza impugnata.
Con particolare riferimento agli elementi evidenziati dal ricorrente, hanno rilevato che: l’operazione era stata realizzata il 31 dicembre 2016, con le relative annotazioni nella contabilità, non essendovi alcun documento giuridicamente valido che attestasse in precedenza la conclusione del presunto accollo; in quel periodo la società si trovava in piena crisi, atteso che, già dal 2014, vi erano stati evidenti segnali di difficoltà (si era registrato anche un peggioramento della situazione debitoria nei confronti degli istituti di credito, che si sarebbe «trascinata fino alla data del fallimento») e che, negli anni 2015 e 2016, si erano verificate rilevanti perdite, tanto che, nel luglio 2017, era stata avviata la liquidazione della società, fallita nel successivo mese di novembre.
Quanto al fatto che gli amministratori non avrebbero preteso stipendi per l’attività da loro svolta, i giudici di merito, sulla base della relazione del curatore hanno posto in rilievo che i soci amministratori, pur in assenza di un formale stipendio, traevano dalla società disponibilità economiche, attraverso il prelievo diretto di somme dalle casse sociali.
Quanto alla presunta non dannosità dell’operazione, che emergerebbe consulenza tecnica di parte, va ribadito che i giudici di merito hanno correttamente ritenuto che solo un eventuale accollo liberatorio sarebbe stato idoneo a non rendere dannosa per la società l’operazione in questione.
Quanto al parere che un «non meglio precisato commercialista» avrebbe fornito agli imputati sulla fattibilità dell’operazione, hanno posto in rilievo che tale circostanza non era dimostrata ed era del tutto inverosimile.
Quanto alla circostanza che (nel novembre 2016) gli amministratori avrebbero concesso alla società, a titolo di comodato gratuito, un loro immobile, va precisato che tale deduzione è formulata dal ricorrente con riferimento all’elemento soggettivo del reato, essendo, a suo parere, tale circostanza incompatibile con il dolo dell’operazione distrattiva.
Tanto premesso, va rilevato che i giudici di merito hanno desunto il dolo dai seguenti elementi: la distrazione era stata realizzata dagli amministratori mediante un artificio contabile; era di rilevante importo; era stata effettuata in
favore di uno degli amministratori; il COGNOME e il COGNOME erano consapevoli della grave situazione economica della società.
Ebbene, la logicità di tale motivazione non sembra pregiudicata dal fatto che gli amministratori avrebbero concesso alla società, a titolo gratuito, un loro immobile. Tale circostanza, infatti, si presenta del tutto generica, in assenza di qualsiasi deduzione (e tantomeno dimostrazione) del valore dell’immobile in questione e dell’effettività di un suo godimento da parte della società.
2.3. Il terzo motivo del ricorso del COGNOME e il terzo motivo del ricorso del COGNOME – che possono essere trattati congiuntamente, proponendo sostanzialmente le medesime questioni – sono infondati.
I giudici di merito, invero, hanno adeguatamente motivato in ordine alla richiesta, avanzata della difesa, di riqualificazione del fatto nel reato di bancarotta semplice. Hanno, in particolare, evidenziato che tale riqualificazione era preclusa dal fatto che non si trattava di un’operazione imprudente, bensì di un artifizio contabile posto in essere a vantaggio del Pasotti, che si vedeva sollevato dai debiti assunti nei confronti della società, senza alcun corrispettivo.
Il ricorso di COGNOME NOME deve essere rigettato.
3.1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
La Corte di appello, infatti, non ha fondato la decisione sulla presunta inesistenza dei crediti vantati dai fornitori, ma ha ritenuto che l’operazione con la quale gli imputati avevano rappresentato nelle scritture la compensazione fosse un mero artificio contabile, non potendosi operare la compensazione di un credito che la società vantava nei confronti del Pasotti con debiti che gravavano nei confronti di terze persone. Hanno escluso che potesse ritenersi integrato un accollo del Pasotti dei debiti che gravavano sulla società, in assenza di un impegno giuridicamente valido che dimostrasse un accollo dei debiti della società. Hanno evidenziato che, in ogni caso, anche il presunto accollo non avrebbe liberato la società dai debiti, essendo rimasti i terzi creditori del tutto estranei alla presunta operazione.
Quanto ai crediti vantati dai fornitori, la Corte di appello non ha affermato che questi fossero inesistenti, ma si è limitata a rilevare che, visto il tempo trascorso dal maturare dei crediti, era possibile che i creditori non li considerassero più concretamente recuperabili. Si tratta, in ogni caso, di una circostanza che assume scarsissimo rilievo nell’ambito della motivazione della Corte di appello, che, come detto, si fonda sulla mancanza della prova di un impegno giuridicamente rilevante in ordine al presunto accollo da parte del COGNOME e sul mancato effetto liberatorio di tale presunta assunzione del debito.
Il danno per la società rimane, perché la società non ha incassato il credito che vantava nei confronti del COGNOME e, a fronte di tale sacrificio, non ha ricevuto
alcun concreto vantaggio, atteso che non è stata liberata dai propri debiti verso i fornitori, rimasti del tutto estranei all’operazione.
3.2. Il secondo motivo è inammissibile.
I giudici di merito e, in particolare, quello di primo grado (la cui motivazione è riportata nella sentenza d’appello) hanno reso una motivazione congrua in ordine alla responsabilità del COGNOME. In particolare, hanno evidenziato che: i due imputati erano soci ciascuno al 50% della fallita; entrambi amministravano la società; dall’istruttoria (e anche dalle dichiarazioni rese dal COGNOME) era emerso che i due avevano sempre agito «all’unisono e in pieno accordo tra di loro»; l’operazione aveva anche la finalità (di diretto interesse per il COGNOME) di occultare, attraverso l’artificio contabile, lo stato di decozione in cui versava la società.
Si tratta di una motivazione congrua, rispetto alla quale il ricorrente non ha posto in rilievo alcun travisamento di prova o vizio logico determinante risultante dal testo della sentenza, ma si è limitato ad addurre delle generiche asserzioni, completamente versate in fatto.
Quanto al mancato confronto con le censure mosse dalla difesa, il motivo si presenta del tutto generico, non avendo il ricorrente specificato quali specifiche censure non sarebbero state valutate dalla Corte di appello.
3.3. Il terzo motivo è infondato, per le ragioni esposte analizzando il terzo motivo del ricorso del COGNOME.
Al rigetto dei ricorsi, consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso, il 14 novembre 2024.