Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 11096 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 11096 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 09/01/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a Milano in data DATA_NASCITA, COGNOME NOME, nato a Castellaneta il DATA_NASCITA, avverso la sentenza della Corte di appello di Milano in data 12/06/2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria scritta presentata ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, con cui il Pubblico ministero, in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità dei ricorsi.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del Tribunale di Milano in data 9 novembre 2021, NOME e NOME COGNOME furono condannati, rispettivamente, alla pena di 5 anni di reclusione e di 2 anni di reclusione in quanto riconosciuti colpevoli: il primo dei reati di cui agli artt. 223, comma 1, 216, comma 1, n. 2, r.d. n. 267 del 1942, per avere sottratto o distrutto, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, i libri e le altre scri contabili della RAGIONE_SOCIALE obbligatorie per legge.(capo Al) e di
cui all’art. 223, comma 2, n. 2, r.d. n. 267 del 1942, per avere concorso a cagionare il fallimento della predetta RAGIONE_SOCIALE mediante operazioni dolose consistite nel sistematico omesso versamento di imposte erariali e contributi previdenziali per un ammontare complessivo di 1.722.970,56 euro, a fronte di un passivo fallimentare pari a 1.925.403,92 euro (capo A.2): fatti commessi in Milano in data 8 settembre 2017; il secondo del solo delitto contestato al capo A.2), venendo invece assolto, per non avere commesso il fatto, dal delitto contestato al capo Al).
Con sentenza in data 12 giugno 2023, la Corte di appello di Milano ha accolto la richiesta di applicazione concordata della pena formulata, ai sensi dell’art. 599bis cod. proc. pen., dal Pubblico ministero e dalla difesa di NOME COGNOME; e riconosciuto il vincolo della continuazione con i fatti accertati con la sentenza n. 8891/18 emessa dal Tribunale di Milano, da ritenersi più gravi, ha rideterminato la pena per i reati oggetto del presente procedimento, quale aumento per la continuazione, nella misura di 1 anno e 2 mesi di reclusione. Quanto alla posizione di NOME COGNOME, invece, la Corte territoriale ha respinto l’appello, confermando le statuizioni della pronuncia di primo grado.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME a mezzo del difensore di fiducia, AVV_NOTAIO, deducendo, con un unico motivo di impugnazione, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen. , la inosservanza o erronea applicazione degli artt. 125 cod. proc. pen., 62-bis e 133 cod. pen., nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio. Il ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), c) ed e), cod. proc. pen., che la Corte territoriale abbia ratificato l’accordo raggiunto dalle parti senza motivare in merito alla correttezza, in termini di equità e opportunità, della pena concordata rispetto alla concreta lesività del fatto, che nella specie sarebbe stata contenuta, e alla personalità dell’imputato.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione anche NOME COGNOME a mezzo del difensore di fiducia, AVV_NOTAIO, deducendo due distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
4.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alle risultanze processuali, posto che NOME COGNOME avrebbe dovuto essere assolto anche per il reato di cui al capo A.2) dell’imputazione. L’affermazione di responsabilità si baserebbe unicamente sulla relazione del
curatore fallimentare, da cui emergerebbe che NOME COGNOME era stato amministratore della RAGIONE_SOCIALE fallita dal momento della sua costituzione fino al 7 agosto 2014. Pertanto, nessuno dei fatti di bancarotta fiscale potrebbe essergli ascritto, non essendovi prova alcuna che il dissesto finanziario abbia avuto origine durante il periodo in cui l’imputato ricopriva la carica di amministratore. Inoltre, la mancata consegna dei libri contabili a partire dal 2015, dopo la cessazione dalla carica di amministratore, sarebbe significativa della sua estraneità ai fatti. Il coimputato (NOME COGNOME, padre dell’odierno ricorrente) si sarebbe assunto la completa responsabilità dei fatti per cui è procedimento, spiegando sia le motivazioni per cui inizialmente aveva fatto assumere la carica al figlio (all’epoca poco più che ragazzino), riservando a sé stesso il ruolo di amministratore di fatto, sia quelle per cui si sarebbe realizzato il dissesto (contenzioso giudiziario con RAGIONE_SOCIALE). Contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata, inoltre, si osserva che fuori dai casi in cui l’amministratore di diritto concorra con la condotta fraudolenta dell’amministratore di fatto, la sola assunzione della funzione di garanzia non comporterebbe la necessaria consapevolezza di partecipare a un evento fraudolento, dovendo il profilo soggettivo della responsabilità essere accertato caso per caso e non potendo riconoscersi rilievo al dato squisitamente formale, assumendo centralità il criterio funzionalistico o dell’effettività della gestione sociale, secondo cui la responsabilità penale deve ricadere sul soggetto che effettivamente gestisce l’impresa.
4.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla quantificazione della pena, non avendo la sentenza impugnata esplicitato il ragionamento logico-giuridico adottato in relazione alla quantificazione della pena, che si assume essere eccessiva alla luce dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è infondato e, pertanto, deve essere respinto. Il ricorso proposto da NOME COGNOME deve essere, invece, dichiarato inammissibile.
Muovendo dall’analisi del ricorso di NOME COGNOME, va evidenziato che esso concerne una sentenza di applicazione della pena concordata a norma dell’art. 599-bis, comma 1, cod. proc. pen. Tale disposizione, introdotta dalla legge n. 103 del 23 giugno 2017, stabilisce che la Corte di appello provvede, in camera di consiglio, quando le parti ne fanno espressa richiesta, dichiarando di concordare sull’accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello, con rinuncia agli altr eventuali profili di doglianza. Se i motivi dei quali viene chiesto l’accoglimento
comportano una nuova determinazione della pena, il pubblico ministero e l’imputato indicano al giudice anche la pena sulla quale sono d’accordo.
A seguito dell’introduzione della disposizione in esame, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto tuttora applicabile il principio – elaborato nel vigore del similare istituto previsto dell’art. 599, comma 4, cod. proc. pen. – secondo cui il giudice di appello, nell’accogliere la richiesta di pena concordata, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi d’impugnazione, deve limitare la sua cognizione, a causa dell’effetto devolutivo, ai motivi non rinunciati, determinando la rinuncia ai motivi una preclusione processuale che impedisce al giudice di prendere cognizione di quanto deve ormai ritenersi non gli sia devoluto.
Ne consegue che deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione proposto in relazione alla misura della pena concordata, atteso che il negozio processuale liberamente stipulato dalle parti, una volta consacrato nella decisione del giudice, non può essere unilateralmente modificato, salva l’ipotesi di illegalità della pena concordata (Sez. 3, n. 19983 del 9/06/2020, COGNOME, Rv. 279504 – 01).
Nel caso in esame, la difesa dell’imputato e il AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO territoriale avevano raggiunto un accordo, davanti al Giudice di secondo grado, in ordine alla determinazione della pena finale, indicandone specificamente la misura nei termini poi accolti, con motivazione del tutto adeguata in punto di congruità della pena, dalla Corte di appello, che ha sottolineato come la sanzione fosse stata determinata in termini corrispondenti alla gravità oggettiva e soggettiva dei fatti, ritenendo il complessivo trattamento sanzionatorio adeguato all’offesa arrecata con l’accertata condotta illecita e all’effettivo e concreto ruolo svolto dall’imputato nell’ambito della compagine societaria. Da ciò è conseguita la rinuncia a qualsivoglia motivo di censura da parte dell’imputato, con conseguente inammissibilità di ogni odierna doglianza in punto di pena.
Quanto al ricorso di NOME COGNOME, va premesso che l’imputato, assolto per il delitto contestato al capo Al), è stato, invece, condannato per il delitto previsto dall’art. 223, comma 2, n. 2, r.d. n. 267 del 1942, contestato al capo A.2), ovvero per avere cagionato il fallimento della RAGIONE_SOCIALE attraverso il compimento di operazioni dolose consistite nel sistematico omesso versamento di imposte erariali e contributi previdenziali.
La fattispecie in questione si configura come reato «a forma libera» (così Sez. F, n. 39192 del 20/08/2015, COGNOME, Rv. 264606 – 01) in cui la condotta tipica può consistere in «qualsiasi comportamento del titolare del potere sociale che, concretandosi in un abuso o in una infedeltà delle funzioni o nella violazione dei doveri derivanti dalla sua qualità, cagioni lo stato di decozione della RAGIONE_SOCIALE, con pregiudizio della medesima, dei soci, dei creditori e dei terzi interessati» (Sez. 5, n. 6992 del 8/04/1988, COGNOME, Rv. 178604 – 01). Tali comportamenti possono
consistere anche in condotte omissive, quali la sistematica elusione dei doveri imposti dalla legge all’organo amministrativo, quando questa comporti il fallimento della RAGIONE_SOCIALE e un depauperamento del patrimonio non giustificato dall’interesse per l’impresa (Sez. 5, n. 43562 del 11/06/2019, COGNOME, Rv. 277125 – 01; Sez. 5, n. 29586 del 15/05/2014, COGNOME, Rv. 260492 – 01). In questa prospettiva si è ritenuto, ad esempio, che integrasse il delitto de quo l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto e dei contributi previdenziali e assistenziali che abbia causato il dissesto della RAGIONE_SOCIALE, potendo il reato fallimentare concorrere con quello tributario e con quello previdenziale in ragione della diversità sia dei beni tutelati, sia della struttura dei reati (Sez. 5, n. 30735 del 5/04/2019, Cassano, Rv. 276996 – 01; Sez. 5, n. 12426 del 29/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 259997 – 01, che ha qualificato come operazione dolosa il mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità).
3.2. Quanto, in particolare, alla responsabilità di NOME COGNOME, la sentenza impugnata ha, innanzitutto, evidenziato come la gran parte degli omessi versamenti riguardasse proprio il periodo iniziale della costituzione della RAGIONE_SOCIALE, tra il 25 settembre 2012 e il 2014, ovvero proprio nel periodo in cui l’imputato era stato in carica, dalla quale era cessato proprio nel 2014, allorché gli era subentrato il padre. In secondo luogo, la sentenza ha evidenziato come il dissesto fosse stato cagionato anche dalla condotta omissiva dello stesso COGNOME, posto che i mancati adempimenti formali connessi alla sua carica di amministratore
di diritto, in uno con «il mancato esercizio dei poteri di gestione e di controllo sull’operato dell’amministratore di fatto», erano stati certamente idonei a determinare la situazione patrimoniale che aveva portato la RAGIONE_SOCIALE al fallimento, secondo la regola dell’art. 40, secondo comma, cod. pen. da correlarsi all’art. 2392, comma 2, cod. civ., che pone in capo all’amministratore di diritto l’obbligo giuridico di vigilare e di attivarsi in presenza di atti pregiudizievoli.
Con specifico riferimento relativo all’elemento soggettivo, la Corte territoriale ha congruamente motivato la sussistenza del dolo a partire dalla considerevole entità delle somme non versate e, soprattutto, dalla piena consapevolezza dell’imputato, desunta alla stregua di massime di comune esperienza, di omettere ogni adempimento periodico, anche di natura formale, connesso ai pagamenti dovuti all’Erario e agli enti previdenziali, cui era tenuto nella sua qualità di amministratore. Tanto più che il rapporto familiare con il padre-amministratore di fatto agevolava e rendeva naturale la puntuale comunicazione e la condivisione di informazioni e di scelte operative riguardanti la RAGIONE_SOCIALE.
Tale ricostruzione, non manifestamente illogica, appare del tutto conforme all’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui è sufficiente a integrare il dolo dell’amministratore di diritto la generica consapevolezza, pur non riferita alle singole operazioni, delle attività illecite compiute dalla RAGIONE_SOCIALE per i tramite dell’amministratore di fatto (Sez. 5, n. 32413 del 24/09/2020, COGNOME, Rv. 279831 – 01; Sez. 5, n. 7332 del 7/01/2015, COGNOME, Rv. 262767 – 01). In proposito, va peraltro osservato che anche la soluzione accolta dalla Suprema Corte nella sentenza richiamata dalla difesa (v. Sez. 5, n. 37453 del 7/09/2021, COGNOME, non massimata), non si discosta, in realtà, dall’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, essendo stata soltanto affermata, nell’occasione, l’ovvia necessità, nei casi in cui l’amministratore sia «apparente», di una puntuale verifica dei criteri di imputazione soggettiva, dal momento che la consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non implica necessariamente la consapevolezza delle iniziative criminose dell’amministratore di fatto.
Inammissibile è infine il secondo motivo del ricorso proposto da NOME COGNOME.
La sentenza impugnata, invero, aveva già dato atto della genericità delle censure formulate nell’atto di appello in relazione al trattamento sanzionatorio. Come evidenziato dalla Corte territoriale, la pena concretamente inflitta è stata stabilita nel minimo edittale anche per effetto del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche; e, inoltre, essa è stata condizionalmente sospesa, sicché nessun margine residuava per una sua ulteriore riduzione. A fronte di tale puntuale motivazione, il ricorso si è limitato a censurare, in maniera assolutamente
generica, la pena inflitta all’imputato, senza tenere conto delle argomentazioni svolte dalla Corte territoriale.
Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso proposto da NOME COGNOME deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Il ricorso presentato da NOME COGNOME deve essere, invece, dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della cassa delle ammende, equitativamente fissata in 3.000,00 euro.
PER QUESTI MOTIVI
Rigetta il ricorso proposto da COGNOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto da COGNOME e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Il Presi nte
Così deciso in data 9 gennaio 2024
Il Consigliere estensore