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Bancarotta fraudolenta: la responsabilità del prestanome

La Corte di Cassazione conferma la condanna per bancarotta fraudolenta dell’amministratore di diritto di una società, anche se gestita di fatto da un altro soggetto. La Corte ha ritenuto che il mancato esercizio dei doveri di controllo, unito alla consapevolezza anche solo generica delle attività illecite che hanno causato il dissesto, sia sufficiente per integrare la responsabilità penale.

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Pubblicato il 7 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Bancarotta fraudolenta: La responsabilità penale dell’amministratore “prestanome”

La gestione di una società comporta oneri e responsabilità precise. Ma cosa accade quando le redini dell’azienda sono tenute da un “amministratore di fatto”, mentre la carica formale è ricoperta da un altro soggetto, spesso un “prestanome”? Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito i contorni della responsabilità penale per bancarotta fraudolenta dell’amministratore di diritto, anche quando quest’ultimo non partecipa attivamente alla gestione quotidiana.

I Fatti del Caso: La Società Cooperativa e il Dissesto

Il caso esaminato riguarda il fallimento di una società cooperativa, causato principalmente da un sistematico e ingente inadempimento degli obblighi fiscali e contributivi. Due figure erano al centro del procedimento: un padre, riconosciuto come amministratore di fatto e condannato per aver sottratto le scritture contabili e causato il dissesto, e suo figlio, che aveva ricoperto la carica di amministratore di diritto per un periodo significativo, in particolare nella fase iniziale di vita della società.

Il figlio, condannato nei primi due gradi di giudizio, ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo la sua totale estraneità ai fatti. A suo dire, aveva accettato la carica solo formalmente, essendo all’epoca molto giovane, mentre la gestione completa era nelle mani del padre. Sosteneva, quindi, di non avere la consapevolezza necessaria per essere ritenuto colpevole del reato di bancarotta fraudolenta.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto il ricorso del figlio, confermando la sua condanna. Al contrario, ha dichiarato inammissibile il ricorso del padre, il quale aveva concordato la pena in appello. La decisione si fonda su un principio cardine del diritto societario e penale: la carica di amministratore non è una mera formalità, ma comporta precisi doveri di vigilanza e controllo.

Le Motivazioni: La responsabilità per bancarotta fraudolenta dell’amministratore di diritto

La Corte ha articolato le sue motivazioni su due punti fondamentali: il dovere di vigilanza e la configurazione del dolo.

Il Dovere di Vigilanza e il Dolo

Secondo i giudici, l’amministratore di diritto ha un obbligo giuridico di vigilare sull’operato della società e di intervenire in presenza di atti pregiudizievoli, come stabilito dal Codice Civile (art. 2392) e dal Codice Penale (art. 40, co. 2). La sua inerzia e il mancato esercizio dei poteri di controllo sono stati considerati una causa diretta del dissesto patrimoniale che ha portato al fallimento.

Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, la Corte ha ritenuto che non fosse necessaria la prova di una partecipazione diretta a ogni singola operazione illecita. È stata considerata sufficiente una “generica consapevolezza” delle attività illecite compiute dall’amministratore di fatto. Tale consapevolezza è stata desunta da elementi oggettivi, come:
* La considerevole entità delle somme non versate all’Erario e agli enti previdenziali.
* La sistematica omissione di ogni adempimento, anche formale, connesso ai pagamenti dovuti.
* Il rapporto familiare tra i due amministratori, che rendeva naturale e agevole la condivisione di informazioni e scelte operative.

In sostanza, accettare il ruolo di amministratore “apparente” non esclude la consapevolezza delle iniziative criminose portate avanti dall’amministratore di fatto.

La Posizione dell’Amministratore di Fatto

Per quanto riguarda la posizione del padre, la Corte ha ribadito un principio processuale consolidato: una volta che le parti concordano la pena in appello (secondo l’art. 599-bis c.p.p.), il ricorso per cassazione contro la misura della sanzione diventa inammissibile, a meno che la pena non sia palesemente illegale. L’accordo processuale, ratificato dal giudice, preclude ulteriori contestazioni.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

Questa pronuncia rafforza un importante monito per chi accetta di ricoprire cariche amministrative. Il ruolo di amministratore di diritto non può essere considerato una semplice formalità priva di conseguenze. La legge impone un dovere di vigilanza attiva sulla gestione sociale, la cui omissione può portare a una condanna per bancarotta fraudolenta in concorso con l’amministratore di fatto. La sentenza chiarisce che per configurare il dolo è sufficiente la consapevolezza generale delle irregolarità, senza che sia richiesta la prova di un coinvolgimento diretto in ogni atto illecito. Chi assume una carica formale, quindi, si fa garante della legalità della gestione e non può invocare la propria passività per sfuggire a gravi responsabilità penali.

L’amministratore di diritto, che non gestisce attivamente la società, risponde per il reato di bancarotta fraudolenta?
Sì, risponde penalmente se omette di esercitare il suo dovere giuridico di vigilanza e controllo sull’operato dell’amministratore di fatto. La sua inerzia, unita alla consapevolezza anche solo generica delle attività illecite che portano al dissesto, è sufficiente per affermare la sua responsabilità in concorso.

Cosa è sufficiente per dimostrare la colpevolezza dell’amministratore di diritto in un caso di bancarotta fraudolenta?
Secondo la sentenza, è sufficiente integrare il dolo dimostrando la generica consapevolezza delle attività illecite compiute dalla società. Questa consapevolezza può essere desunta da elementi oggettivi, come la vastità e sistematicità delle omissioni fiscali e contributive, e non richiede la prova della partecipazione diretta a ogni singola operazione fraudolenta.

È possibile contestare in Cassazione una pena che è stata concordata tra le parti in appello?
No, di norma non è possibile. La sentenza chiarisce che il ricorso per cassazione contro la misura di una pena concordata in appello (ex art. 599-bis c.p.p.) è inammissibile. L’accordo processuale tra accusa e difesa, una volta accettato dal giudice, non può essere modificato unilateralmente, salvo l’ipotesi di illegalità della pena stessa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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