Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 16407 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 16407 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 12/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME nato ad Ancona il 18 giugno 1962;
avverso la sentenza del 28 maggio 2024 della Corte d’appello di Ancona;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avv. NOME COGNOME nell’interesse del ricorrente, che ha insistito p l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
NOME e NOME COGNOME venivano tratti a giudizio per rispondere, nelle loro rispettive qualità di presidente e consigliere del consiglio d’amministrazione della RAGIONE_SOCIALE (dichiarata fallita il 28 novembre 2013), dei reati bancarotta fraudolenta patrimoniale (capi A e B, quest’ultimo ascritto al solo NOME COGNOME) e di bancarotta impropria da operazioni dolose (art. 223 co. 2° n. 2 I. fall., capo C).
Secondo la prospettazione accusatoria, in particolare, la società fallita, nonostante versasse in evidenti difficoltà finanziarie già dal 2010, aveva finanziato massicciamente la “RAGIONE_SOCIALE“, tanto che alla data del fallimento il credito nei confronti della stessa ammontava ad euro 3.160.090; credito che, con successivi giroconti (gli ultimi effettuati il 31 dicembre 2010 per euro 400.000 e il 30 marzo 2011 per euro 1.960.090), era transitato dal conto “finanziamenti in società partecipate Progetto RAGIONE_SOCIALE” (avere) al conto “progetto/versamento in conto futuro aumento capitale” (dare) e, quindi, convertito in partecipazioni al capitale di rischio, con ciò annullando, sostanzialmente, ogni prospettiva di realizzo.
Parallelamente, se era vero che i finanziamenti a società partecipata, consentendo l’acquisto delle aree che poi sarebbero state edificate, avevano portato alla fallita contratti d’appalto da eseguire, la difesa, secondo l prospettazione accusatoria, non aveva allegato elementi a conforto della tesi che il saldo finale delle operazioni fosse stato effettivamente positivo per la società fallita, dovendo valutarsi, sotto tale profilo, non l’ammontare dei ricavi, ma i profitto degli appalti, al netto dei costi sostenuti; dato che, comunque, non superava il 13,1%.
In questo contesto, la responsabilità veniva accertata non solo in capo a NOME COGNOME, presidente del consiglio di amministrazione, ma anche per la posizione assunta da NOME COGNOME alla luce del ritenuto ruolo gestionale continuativamente esercitato all’interno della società, sia pure in collaborazione con il primo. NOME era socio della società fallita, fino al subentro dí COGNOME NOME, e anche della RAGIONE_SOCIALE: tutti i componenti del consiglio di amministrazione, quindi anche COGNOME NOME, secondo la ricostruzione offerta, dovevano ritenersi consapevoli dell’esistenza di chiari ed inequivocabili segnali d’allarme della precarietà economico – finanziaria della società, dai quali desumere l’accettazione del rischio del verificarsi dell’evento illecito e della volontà di non attivarsi per scongiura l’evento.
Parallelamente, secondo la concorde ricostruzione dei giudici di merito, la bancarotta impropria si sarebbe sostanziata nella sistematica omissione dei versamenti di quanto dovuto all’Erario, per complessivi 2.619.708 euro; omissione che, perdurando dal 2007, avrebbe aumentato significativamente il debito tributario e contributivo, anche in ragione dell’inevitabile carico sanzionatorio che ne sarebbe derivato, rendendo prevedibile il conseguente dissesto.
La prospettazione accusatoria veniva integralmente confermata in primo grado e, all’esito dell’impugnazione proposta da entrambi gli imputati, anche dalla Corte d’appello.
Ricorre per cassazione NOME COGNOME articolando cinque motivi d’impugnazione.
3.1. Il primo, formulato sotto il profilo dell’inosservanza di norma processuale, attiene al capo A), la bancarotta distrattiva, e deduce il difetto d correlazione tra l’imputazione, nella quale veniva contestata la concessione nel 2010 di finanziamenti per un importo di 2.360.000 in favore di una partecipata della società fallita, e la sentenza di condanna, nella quale, invece, sarebbe stato modificato non solo il dato temporale, valutando condotte antecedenti al 2010 (dato particolarmente significativo alla luce dell’epoca in cui si sarebbe manifestata l’insolvenza), ma anche la stessa materialità della condotta contestata, individuando la condotta distrattiva non già nell’erogazione di somme in favore della partecipata, ma nella successiva disposizione di due giroconti e, quindi, nell’attribuzione di una differente natura giuridica agli importi in precedenza versati.
3.2. Il secondo, formulato sotto i profili della violazione di legge ( relazione agli artt. 216 e 223 I. fall.) e del connesso vizio di motivazione, attien alla sussistenza del reato contestato al capo A). La difesa premette che le disposizioni di beni societari, per essere rilevanti ai sensi dell’articolo 216 I. f devono essere caratterizzate, secondo una valutazione ex ante, da manifesta ed intrinseca fraudolenza. Ebbene, in concreto, le erogazioni sarebbero avvenute in un contesto temporale ben antecedente il prodursi dell’insolvenza e si sarebbero inseriti in un rapporto di stabile collaborazione fra le due società, alla luce dei qua la società fallita, a fronte dei finanziamenti erogati, avrebbe ricevuto appalti dall partecipata per milioni di euro. Se tali finanziamenti non fossero stati erogati, continua la difesa, non vi sarebbero stati appalti da eseguire, perché le partecipate non avrebbero potuto comprare le aree sulle quali poi la fallita ha edificato.
A fronte di tali emergenze processuali, la sentenza impugnata stigmatizza l’irrazionalità di un progetto di investimenti, censurando le erogazioni effettuate i chiave di illogica assunzione del connesso rischio economico. Tale impostazione, tuttavia, orienterebbe la qualificazione dei fatti in termini di bancarotta semplice ascrivibile ad operazioni meramente imprudenti, in quanto non caratterizzate dalla volontà di conferire al patrimonio stesso una destinazione incompatibile con le garanzie creditorie. D’altronde, i segnali di crisi deducibili dagli indicator bilancio, valorizzati dalla Corte territoriale e relativi agli anni 2009-2010 sarebber riconducibili, nella prospettazione difensiva, alla generale crisi del mercato che si stava registrando, in quegli anni, nel settore dell’edilizia. E, sotto tale prof apparirebbe estremamente significativo, si continua, proprio il fatto che i finanziamenti si siano interrotti nel 2009.
Quanto alla ritenuta insussistenza di vantaggi compensativi, la Corte territoriale fonda la sua valutazione senza considerare le scelte operate dall’organo amministrativo, il quale, logicamente, non può che operare in una prospettiva ex ante, assumendo decisioni secondo valutazioni di attesa convenienza economica.
Quanto, in ultimo, alla valutazione dei giroconti dei partitari contabili (effettuati il 31 dicembre 2010 e il 30 marzo 2011, peraltro all’insaputa del ricorrente), la valutazione prospettata dalla Corte d’appello apparirebbe illogica, non avendo, questi, attribuito ulteriore aleatorietà all’operazione di finanziamento. Tali giroconti, infatti, sono stati effettuati in conto futuro aumento di capitale e tanto, diversamente da quanto accade per i versamenti in conto capitale, avrebbe legittimato la fallita (e poi la curatela) ad ottenere la restituzione delle somme versate, senza alcuna giuridica differenza rispetto al passato. E proprio la mancata delibera di aumento del capitale ha fatto sì che alla data del fallimento si fossero comunque neutralizzati i presunti effetti di rischio per il ceto creditorio.
3.3. Il terzo, anche questo formulato sotto i profili della violazione di legge (in relazione agli artt. 216 e 223 I. fall.) e del connesso vizio di motivazione, attien alla sussistenza del reato contestato al capo C). La difesa premette che la Corte territoriale avrebbe reputato irrilevante il complessivo andamento dell’esposizione debitoria, valutando esclusivamente il rapporto causale tra il protratto inadempimento delle obbligazioni fiscali e contributive e il dissesto poi verificatosi. Ebbene, sostiene la difesa, ciò significherebbe valutare non già l’entità complessiva della debitoria maturata (rimasta nel tempo invariata o, addirittura, ridotta per effetto dell’azione dell’amministratore), bensì esclusivamente singole voci del passivo. La Corte territoriale, si continua, non avrebbe considerato, infatti, che dopo il 2010 l’equilibrio finanziario è significativamente migliorato, riducendosi la complessiva esposizione di circa 11 milioni di euro. È pur vero che il debito verso l’Erario è incrementato, ma il pregiudizio per i creditori rispetto ad un’ipotetic interruzione dell’attività, è stato pacificamente ridotto. E tanto, quantomeno sotto il profilo dell’elemento soggettivo, darebbe conto della volontà dell’organo amministrativo di procedere al pagamento di tutto quanto dovuto; circostanza pacificamente desumibile anche dalla rateizzazione richiesta (e parzialmente onorata) in relazione ad una cartella esattoriale di quasi 600.000 euro.
3.4. Il quarto, anche questo formulato sotto i profili della violazione di legge (in relazione agli artt. 40 cod. pen. e 2392 cod. civ.) e del connesso vizio di motivazione, attiene alla ritenuta responsabilità gestoria del ricorrente, mero amministratore privo di deleghe operative. Il ricorrente, invero: a) non ha mai rivestito alcun ruolo apicale (essendo i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione attribuiti in via esclusiva al presidente del consiglio di amministrazione, NOME COGNOME); b) non ha mai firmato assegni, né contratti, né
ha mai avuto rapporti con fornitori, clienti o banche; c) non ha specifiche competenze economiche e finanziarie, proprie del coimputato: d) non è mai stato a conoscenza di alcun fatto dannoso per la società, né ha percepito alcuno di quei segnali di allarme che, come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità, devono essere chiari ed inequivocabili.
Sotto tale profilo: a) gli indicatori di bilancio esaminati dal perito e valorizz dalla Corte territoriale quale indice di una condizione di difficoltà finanziaria propr della gestione economica, erano percepiti, in ragione della costante presenza nella vita della società, come una situazione fisiologica e connaturata alla natura dell’attività svolta; b) il ricorrente era stato informato della sola cartel pagamento notificata nel 2010, oggetto di richiesta di rateizzazione e parzialmente onorata nel corso dei mesi successivi; c) proprio alla luce di quanto riconosciuto dalla Corte territoriale (la mancanza di specifica autorizzazione assembleare), è provata l’estraneità del ricorrente rispetto alla esecuzione dei due giroconti valorizzati nella prospettazione accusatoria.
3.5. Il quinto, in ultimo, attiene al trattamento sanzionatorio e, i particolare, al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (illogicamente escluse senza valutare la contrazione del complessivo debito aziendale, l’incensuratezza del ricorrente, il corretto comportamento processuale e il ruolo di mero consigliere assunto dal COGNOME) e alla concreta determinazione della pena irrogata (eccessiva e sproporzionata rispetto alla concreta gravità della condotta assunta).
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, per fatto diverso deve intendersi sia un fatto che integri una imputazione differente (restando esso invariato), sia un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, tali da rendere necessaria una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato (Sez. 6, n. 26284 del 26/03/2013, COGNOME, Rv. 256861; Sez. 2, n. 18868 del 10/02/2012, Osmenaj, Rv. 252822; Sez. 3, n. 8965 del 16/01/2019, COGNOME, Rv. 275928).
Ciò considerato, alcuna diversità può prospettarsi tra quanto contestato al ricorrente (l’aver concorso nella distrazione delle somme erogate in favore della partecipata mediante la concessione nel 2010 di finanziamenti per detto importo) e quanto concretamente accertato dai giudici di merito (aver erogato somme in favore della partecipata, inizialmente versate a titolo di finanziamento e successivamente convertite in capitale di rischio, attraverso plurimi giroconti, dei quali gli ultimi operati tra il 2010 e il 2011): coerente è il riferimento temporal
relativo al momento ultimo di una condotta distrattiva che si è protratta sin dal 2007 (non potendo dubitarsi comunque che, a prescindere dal dato puramente letterale, la conversione del finanziamento erogato in capitale di rischio della società finanziata rappresenti in sé un’autonoma forma di finanziamento, in quanto caratterizzata dall’esclusione del diritto alla restituzione di quanto erogato e, quindi, di per sé lesiva degli interessi dei creditori); identica la materialità de condotta, il trasferimento di risorse, senza adeguato corrispettivo, dal patrimonio della fallita ad altro soggetto giuridico, rispetto al quale il dato tempora dell’erogazione – se sia stata effettuata nel 2010 o nel corso dei tre anni antecedenti – a fronte della corretta indicazione del destinatario delle somme, del loro ammontare e della relativa causale, appare elemento fattuale marginale, non incidente sulla struttura essenziale del reato, né pregiudizievole per le prerogative difensive dell’imputato, avendo riguardo al fatto che, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, ciò che rileva è la concreta possibilità, che l’imputato ha avuto, di esercitare il diritto di difesa in ordine all’oggetto dell’imputazione, il cui nu essenziale (l’erogazione delle somme in favore di un soggetto estraneo) è dato fattuale mai contestato e sul quale la difesa ha avuto la possibilità (come, in concreto, è avvenuto) di esercitare le sue prerogative difensive.
2. Ugualmente infondato, nel suo complesso, è il secondo motivo.
2.1. Per come si è detto, il ricorrente deduce, in primo luogo, che le erogazioni sarebbero avvenute in un contesto temporale ben antecedente il prodursi dell’insolvenza, cosicché non potrebbero ritenersi intrinsecamente pericolose. Il principio evocato dai ricorrenti è corretto, ma la censura è infondata. Effettivamente, il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione è un reato di pericolo concreto; sicché, se non è necessario, per la sua sussistenza, la prova che la condotta abbia causato un effettivo pregiudizio per i creditori (dato che rileva esclusivamente ai fini della eventuale configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 219 I. fall.: Sez. 5, n. 3229 del 14/12/2012 Rv. 253933; Sez. 5, n. 11633 del 08/02/2012 Rv. 252307), è pur sempre necessario che l’atto di depauperamento risulti idoneo ad esporre a pericolo il patrimonio della società (cfr. ex plurimis Sez. 5, n. 17819 del 24/03/2017, Rv. 269562). Cosicché la decisione di merito deve dar conto della connotazione del fatto in termini di pericolo concreto e della riconoscibilità del dolo generico sulla base di una puntuale analisi della fattispecie concreta in tutte le sue peculiarità, ricercando possibil (positivi o negativi) indici di fraudolenza necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei suoi creditori, e dall’altro, alla proiezione soggettiva di tale dato. Indici rinvenibili, ad esempio, nella disamina
del fatto distrattivo o dissipativo alla luce della condizione patrimoniale finanziaria dell’impresa e della congiuntura economica in cui la condotta pericolosa per le ragioni del ceto creditorio si è realizzata; nel contesto in cui l’impresa h operato, avuto riguardo a cointeressenze dell’imprenditore o dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte nei fatti depauperativi; nella distanza (e, segnatamente, nell’irriducibile estraneità) del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a qualsiasi canone di ragionevolezza imprenditoriale (Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, COGNOME, Rv. 270763, in motivazione).
Ciò considerato, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, i giudici di merito hanno valutato la situazione economica nella quale versava la società, tanto alla data di erogazione delle somme a titolo di finanziamento (tra il 2007 e il 2009), quanto al momento della successiva conversione in capitale di rischio e hanno concordemente ritenuto che, sebbene lo stato di insolvenza irreversibile si fosse palesato solo dal 2011, la situazione della RAGIONE_SOCIALE era già caratterizzata, anche negli anni precedenti, da una forte tensione finanziaria, con pieno utilizzo delle linee di credito e un’ingravescente esposizione nei confronti del fisco. Dato fattuale che, oltre ad essere autonomamente significativo, si colora di significato se letto alla luce degli ulteriori indici di fraudolenza individuati dalla Corte (la cointeressenza del COGNOME rispetto alla società beneficiaria delle erogazioni, di cui deteneva il 45,55% del capitale, e il mutamento della natura giuridica delle erogazioni) che, complessivamente valutati, danno conto non solo del dolo generico che deve caratterizzare l’atto distrattivo (la volontà di attribuire al cespit oggetto di disposizione una destinazione economica pregiudizievole per gli interessi dei creditori, nella consapevolezza della concreta pericolosità della condotta posta in essere), ma anche della logica impossibilità di qualificare l’atto i fatti in termini i bancarotta semplice. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La difesa non contesta la sussistenza di concreti indicatori economici di una significativa tensione finanziaria, ma ne sostiene la loro fisiologia quale espressione di una generalizzata crisi di mercato, individualmente non significativa di uno stato d’insolvenza della società. Ma, da un canto, la pericolosità di un atto, sostanziandosi nella prognosi di un potenziale pregiudizio per le ragioni creditorie in caso di futura ed eventuale apertura del concorso, non è necessariamente legata ad uno stato d’insolvenza, ben potendosi manifestare anche in un momento antecedente, quando, per le concrete condizioni economiche, l’apertura del concorso tra i creditori sia solo potenziale; dall’altro, la diffusione generalizza dello stato di crisi non ne trasforma la natura (ma, anzi, ne conferma la sussistenza).
2.2. Il secondo profilo di censura sollevato con il primo motivo attiene alla sussistenza di un asserito vantaggio ricevuto dalla fallita a fronte dell’erogazione
delle somme, compensativo del depauperamento generato. Anche in questo caso il principio dal quale muove la difesa è corretto, ma la censura è infondata. Effettivamente la valutazione atomistica di un atto può, talvolta, non dar conto della sua effettiva ragione economica, in tutte le ipotesi nelle quali gli effet giuridici ed economici perseguiti dalle parti si ricollegano ad una più ampia operazione della quale l’atto stesso rappresenta solo tassello. E in questi casi, la valutazione parziale dei singoli elementi che compongono l’operazione non solo non riesce a dar conto della causa concreta della complessiva operazione, ma può giungere ad una rappresentazione distorta dell’effettiva realtà economica. Cosicché, un atto che, isolatamente considerato, assume astratta valenza distrattiva, può non essere tale se, calato all’interno di una più ampia operazione economica, ad esso corrispondono, in ultimo, simmetrici vantaggi che compensino l’originario vulnus causato.
In questi casi, il criterio di valutazione è la reale offensività, principio genera senz’altro applicabile anche alle condotte sanzionate dalle norme fallimentari e, segnatamente, a fatti di disposizione patrimoniale contestati come distrattivi o dissipativi (Sez. 5, n. 49787 del 05/06/2013, COGNOME, Rv. 257562). Principio che, se all’interno del medesimo contesto societario trova incondizionata applicazione (quando l’oggettività materiale della distrazione venga compensata, prima della dichiarazione di fallimento, da un’attività di segno contrario, idonea a reintegrare l’originaria consistenza del patrimonio dell’impresa: Sez. 5, n. 8402 del 03/02/2011, COGNOME, Rv. 249721), ove calato nelle concrete dinamiche di un gruppo di società, deve necessariamente tener conto dell’autonomia giuridica e patrimoniale di ciascun soggetto. Quindi, referente per la valutazione dell’atto di disposizione rimane sempre e comunque il patrimonio della singola società e non quello, pur legittimo, dell’intero gruppo (come, invece, accade sotto il profilo tributario attraverso l’istituto del consolidamento), che, avendo valenza solo finanziaria e programmatica, lascia intatta la distinzione giuridico-patrimoniale tra i diversi soggetti giuridici coinvolti, tanto che la destinazione di risorse da un società all’altra, sia pur collegata, integra una violazione del vincolo patrimoniale nei confronti dello scopo strettamente sociale e configura la condotta del delitto di bancarotta distrattiva (Sez. 5, n. 1070 del 14/12/1999, Tonduti ed altri, Rv. 215668; Sez. 5, n. 28520 del 24/04/2013, COGNOME e altro, Rv. 257250) Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Tutto ciò, però, non significa che, ove l’operazione coinvolga una pluralità di distinti soggetti giuridici appartenenti al medesimo gruppo occorra, sempre e comunque, valutare la valenza economica del singolo atto, pretermettendo ogni ulteriore e diversa considerazione; anche in questo caso, l’essenza distrattiva del (singolo) atto ben può essere compensata da simmetrici vantaggi che riequilibrino gli effetti negativi prodotti dall’atto, neutralizzando i connessi pregiudizi pe
creditori sociali (Sez. 5, n. 16206 del 02/03/2017, Magno, Rv. 26970201). In questi casi, però, l’interesse che può escludere l’effettività della distrazione non è dato dalla sola appartenenza della società ad un gruppo imprenditoriale unitario: perdurando l’autonomia soggettiva delle singole società, il collegamento tra le società è solo la premessa dalla quale muovere per individuare uno specifico e concreto vantaggio per la società che compie l’atto di disposizione del proprio patrimonio (Sez. 5, n. 44963 del 27/09/2012, COGNOME e altri, Rv. 254519; Sez. 5, n. 37370 del 07/06/2011, COGNOME e altri, Rv. 250492; Sez. 5, n. 21251 del 10/02/2010, COGNOME, Rv. 247471; Sez. 5, n. 36595 del 16/04/2009, COGNOME ed altri, Rv. 245136; Sez. 5, n. 41293 del 25/09/2008, Mosca, Rv. 241599). Ciò che conta, in ultima analisi, è il saldo finale positivo, per la singola società, delle operazio compiute nella logica e nell’interesse del gruppo (Sez. 5, n. 46689 del 30/06/2016, P.G. e altro in proc. COGNOME e altri, Rv. 26867501).
Ebbene, a prescindere dalla dirimente circostanza per cui alcuna prova è stata fornita in ordine all’esistenza di un gruppo (non la formale iscrizione, prevista dall’art. 2947-bis cod. civ., circostanza, peraltro, neanche sufficiente, in sé, i quanto avente valore meramente presuntivo; non la prova dell’effettiva esistenza di un rapporto di direzione, coordinamento e controllo delle rispettive attività), la Corte, facendo corretta applicazione dei principi in precedenza evidenziati, ha rilevato come l’assunto difensivo richiederebbe la dimostrazione che la scelta di operare in questo modo anomalo (trasferimenti di denaro avvenuti in modo informale, senza scritture e senza alcuna garanzia fideiussoria o di altra natura e senza mai richiedere la restituzione degli importi erogati, affrontando – senza coperture – i rischi di una eventuale insolvenza della società finanziata e di quelle appaltatrici) abbia offerto vantaggi per la RAGIONE_SOCIALE tali da giustificare la decisione in una prospettiva imprenditoriale non irrazionale, seppure imprudente e avventata.
La difesa indica tali vantaggi nella successiva stipula dei contratti appalti assegnati alla fallita. Ma il raffronto, come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale, non deve essere condotto ponendo in comparazione quanto versato con il valore della produzione o con i ricavi conseguiti dagli appalti, dovendosi anche considerare i costi connessi alla loro esecuzione. Cosicché, il valore da considerare è dato dal profitto degli appalti al netto dei costi sostenuti; e, i concreto, il margine di redditività concordato risulta del 15% (di fatto neppure raggiunto, come si evince, per come ricostruito dalla Corte territoriale, dagli stessi dati forniti dalla consulenza tecnica della difesa), quindi pacificamente inferiore a quello che avrebbe consentito di ritenere almeno potenzialmente utile, nell’interesse dell’RAGIONE_SOCIALE, l’erogazione di finanziamenti.
E tanto, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa, non significa valutare in chiave postuma quello che dovrebbe essere valutato prospetticamente ex ante, perché è proprio la richiamata previsione contrattuale (di un margine di redditività del 15%) a dar conto dell’originaria inidoneità di tale ritorno economico a compensare l’iniziale depauperamento e della soggettiva consapevolezza di tale dato. E da ciò l’infondatezza dell’assunto difensivo.
2.3. Infondata è anche l’ulteriore deduzione offerta dalla difesa, secondo cui la conversione del finanziamento in capitale di rischio non avrebbe attribuito ulteriore aleatorietà all’operazione di finanziamento.
Invero, da un canto, la valenza distrattiva della condotta contestata si percepisce non solo nel mutamento della natura del finanziamento, ma dalla stessa erogazione di significative risorse economiche in favore di un soggetto giuridicamente distinto (ancorché economicamente interdipendente); dall’altro, seppur i versamenti in conto futuro aumento di capitale (da intendersi quali dazioni di danaro dei soci in favore della società caratterizzate da uno specifico vincolo di destinazione) non sono definitivamente acquisite al patrimonio sociale (in quanto geneticamente e funzionalmente collegate ad una successiva delibera di aumento, con la conseguenza che, ove l’aumento non sia operato, il socio avrà diritto alla restituzione di quanto versato, per essere venuta meno la causa giustificativa dell’attribuzione patrimoniale: Cass. cív. n. 24093 del 08/08/2023, Rv. 668858), ciò che rileva, essendo la bancarotta un reato di pericolo concreto, non è il l’esistenza di effettivo pregiudizio arrecato ai creditori (dato che rileva esclusivamente ai fini della eventuale configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 219 I. fall.: Sez. 5, n. 3229 del 14/12/2012 Rv. 253933; Sez. 5, n. 11633 del 08/02/2012 Rv. 252307), né la natura dell’atto negoziale utilizzato o la possibilità di recupero del bene attraverso l’esperimento delle azioni apprestate in favore della curatela (Sez. 5, n. 4739 del 23/03/1999, Rv. 213120), ma solo la pericolosità della condotta posta in essere (ex plurimis Sez. 5, n. 17819 del 24/03/2017, Rv. 269562); dato fattuale ampiamente argomentato nei termini indicati in precedenza e immediatamente percepibile, con riferimento specifico alla conversione del finanziamento, nella pacifica esclusione (ontologicamente connessa al mutamento della natura del credito, nei termini in precedenza indicati) del diritto alla restituzione delle somme erogate. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Infondato è anche il terzo motivo di censura, afferente, per come si è detto, alla sussistenza del reato contestato al capo C).
In linea generale, il reato di cui al secondo comma, n. 2, dell’art. 223 I. fall. è un reato a forma libera ed è integrato da una condotta attiva o omissiva, costituente inosservanza dei doveri imposti ai soggetti indicati dalla legge e
strutturato intorno ad una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non da una singola condotta, ma da un fatto di maggiore complessità, integrato da una pluralità di atti funzionalmente coordinati nella loro complessiva ed unitaria causa concreta ed eziologicamente idonei alla causazione del fallimento (Sez. 5, n. 12945 del 25/02/2020, Rv. 279071; Sez. 5, n. 44103 del 27/06/2016, Rv. 268207). Non rileva, né è sempre immediatamente percepibile, il compimento di una singola azione dannosa, ma solo, appunto, una pluralità di atti (astrattamente legittimi nella loro dimensione individuale), tra loro funzionalmente concatenati. Ed è solo dalla valutazione sistematica di questi atti che è possibile cogliere la causa concreta dell’operazione posta in essere e, con essa, il pregiudizio subito dalla società.
Ciò considerato, ai fini della configurabilità del reato, nella sua dimensione oggettiva, ciò che rileva è l’incidenza causale della condotta rispetto al fallimento: non rileva né la genesi dei debiti societari, né l’asserito miglioramento dell’equilibrio finanziario in ipotesi vissuto dalla società. E, sotto tale ultimo prof la preesistenza di una causa in sé efficiente del dissesto e, quindi, il fatto che l’operazione dolosa in questione abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto, valendo la disciplina del concorso causale di cui all’art. 41 cod. pen., non è circostanza idonea ad interrompere il nesso di causalità tra l’operazione dolosa e il successivo fallimento della società (Sez. 5, n. 40998 del 20/05/2014, Rv. 262189) e, con esso, il perfezionamento del reato.
Parallelamente, sotto il profilo soggettivo, la fattispecie normativa costruisce il reato come un delitto a dolo generico, dove il fallimento è solo l’effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta volontaria. Non è necessaria, quindi, una volontà diretta a provocare il dissesto: è sufficiente la consapevolezza di porre in essere un’operazione che, concretandosi in un abuso o in un’infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico-finanziaria della società, determini l’astratta prevedibilità della decozione (Sez. 5 n. n. 45672 del 1/10/2015, Rv. 265510; Sez. 5 n. 38728 del 3/04/2014, Rv. 262207). Una sorta di bancarotta “preterintenzionale”, dove ciò che rileva è il collegamento puramente causale con l’evento dipendente da una condotta volontaria intrinsecamente idonea alla causazione dell’evento, accettato nella sua dimensione anche solo potenziale (Sez. 5 n. 38728 del 03/04/2014, Rv. 262207; Sez. 5, n. 17690 del 18/02/2010, Rv. 247315; Sez. 5, n. 2905 del 16/12/1998, Rv. 212613).
Ebbene, nella sentenza impugnata si dà atto dell’incidenza causale della grave esposizione debitoria nei confronti dell’Erario rispetto al fallimento (quanto meno quale catalizzatore dell’insolvenza) evidenziando: a) l’esistenza di un ingente debito tributario, ammesso al passivo (e, quindi, giudizialmente accertato) per un
importo di oltre due milioni di euro conseguente al sistematico inadempimento delle obbligazioni tributarie; b) la connessa notifica di una cartella esattoriale per oltre 600.000 euro, che ha costretto la società a convocare apposita assemblea il 23 novembre 2010 per chiederne la rateizzazione; c) la successiva riduzione delle disponibilità finanziarie conseguente alle iniziative intraprese dalla Unicredit s.p.a.; d) gli ulteriori diversi pignoramenti esattoriali dovuti alle pregresse inadempienze.
A fronte di ciò, il ricorrente deduce che dopo il 2010 vi sarebbe stata una riduzione della complessiva esposizione debitoria e un connesso miglioramento dell’equilibrio finanziario. Ma tanto è, in sé, irrilevante, perché non incide sui termini fattuali della vicenda economica contestata al ricorrente. Come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, quel che viene contestato all’imputato è il sistematico, protratto inadempimento delle obbligazioni fiscali e contributive posto in rapporto eziologico con il dissesto, poi effettivamente verificatosi; dato rispetto al quale la difesa non si confronta, non contestando, specificamente, né l’esistenza del credito erariale, né la sua valenza causale rispetto al dissesto e al connesso fallimento. Né, peraltro, appare condivisibile quanto in ultimo sostenuto dalla difesa (secondo cui l’omesso pagamento avrebbe comunque permesso la prosecuzione dell’attività e, nella prospettazione difensiva, una migliore soddisfazione della pretesa creditoria): da un canto la deduzione è rimasta allo stato di mera deduzione, dall’altro le circostanze dedotte (che comunque confliggono con lo specifico obbligo dell’imprenditore, a fronte di un conclamato stato di insolvenza, di interrompere l’esercizio delle attività economiche e chiedere il fallimento) non escludono l’incidenza causale del significativo debito erariale sulla successiva dichiarazione di fallimento.
Infondato è anche il quarto motivo di censura, afferente alla posizione del ricorrente e, in particolare, alla asserita natura non operativa delle sue funzioni gestorie.
Anche in questo caso, l’assunto dal quale muove la difesa è corretto: ai fini del concorso nel delitto di bancarotta, la condotta dell’amministratore privo di deleghe deve consistere in una omissione esorbitante dalla dimensione meramente colposa in quanto sintomatica di una volontaria e consapevole adesione alle condotte realizzate dagli amministratori delegati. È, quindi, necessario che, nel quadro di una specifica contestualizzazione delle distrazioni in rapporto alle concrete modalità di funzionamento del consiglio di amministrazione, emerga la prova, da un lato, dell’effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di segnali di allarme inequivocabili dai quali desumere l’accettazione del rischio – secondo i criteri propri del dolo eventuale – del verificars dell’evento illecito e, dall’altro, della volontà – alla stregua di dolo indiretto
non attivarsi per scongiurare detto evento, aderendo ad esso per il caso in cui si verifichi (Cass. Sez. 5, n. 33856 del 13/09/2021). In altri termini, è necessario che il soggetto agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa; egli deve essersi rappresentato la significativa possibilità di verificazione dell’evento concreto e, ciò nonostante, si sia determinato ad agire (o non agire) comunque, anche a costo di causare l’evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi.
Ebbene, in concreto la Corte territoriale ha evidenziato: a) le dimensioni dell’impresa (tali da permettere a ciascun consigliere di amministrazione la conoscenza delle vicende gestionali essenziali, risultanti dai bilanci e dalla contabilità); b) la centralità della posizione del ricorrente all’interno della strutt societaria; c) la partecipazione sociale del RAGIONE_SOCIALE all’interno della società destinataria del finanziamento.
A fronte di ciò, il ricorrente offre alla valutazione di questa Corte una pluralità di dati fattuali asseritamente idonei a fondare l’assunto difensivo (l’assenza di poteri gestionali; i rapporti con fornitori, clienti o banche; l’assenza di specific competenze economiche e finanziarie; la percezione di segnali di allarme e, sotto tale profilo, la fisiologia degli indicatori di bilancio esaminati dal perito e valorizzati dalla Corte territoriale; la mancanza di specifica autorizzazione assembleare alle operazioni contestate). Tanto, però, significa censurare la valutazione della prova, non la motivazione che di essa ne danno i giudici di merito; significa chiedere a questa Corte una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, articolata sulla base dei diversi parametri di ricostruzione e valutazione, dimenticando i limiti propri del sindacato riservato a questa Corte, che non è chiamata a verificare l’intrinseca adeguatezza delle argomentazioni offerte dal giudice di merito, scegliendo tra diverse possibili ricostruzioni, ma al solo riscontro dell’esistenza, della non manifesta illogicità e della coerenza dell’apparato argomentativo, valutato nel suo complesso, sui vari punti della decisione impugnata.
D’altronde, dirimente appare la circostanza, pur evidenziata dalla Corte territoriale, per cui da una mera lettura dei dati di bilancio erano pacificamente evincibili quegli inequivocabili segnali di allarme idonei a dar conto non solo dell’esistenza di una forte tensione finanziaria (caratterizzata dal pieno utilizzo delle linee di credito e da un’ingravescente esposizione nei confronti del fisco), ma anche della stessa esistenza di quei fatti pregiudizievoli oggetto di contestazione (i finanziamenti erogati in favore della società da lui stesso partecipata). Ebbene, il bilancio è atto proprio del consiglio di amministrazione e tanto, in sé, è autonomamente significativo dell’effettiva conoscenza, da parte di ciascun
consigliere (a prescindere dall’esistenza di deleghe operative) di quanto in esso contenuto.
In ciò l’infondatezza dell’assunto difensivo.
Indeducibile è, in ultimo, il quinto motivo di ricorso, afferente, per come si è detto, al trattamento sanzionatorio e, in particolare, al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Deve premettersi che la graduazione della pena presuppone un apprezzamento in fatto e un conseguente esercizio di discrezionalità (ed è, quindi, riservata al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, ove non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione: Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Rv. 259142).
Naturale corollario di tale assunto è che il giudice deve dar conto, sia pure sinteticamente, delle singole decisioni adottate nell’esercizio del suo potere discrezionale; onere che può ritenersi adempiuto allorché il giudice di merito abbia indicato, nel corpo della sentenza, gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell’ambito della complessiva dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all’ar 133 cod. pen. (Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998, Rv. 211582; Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013, dep. 2014, Rv. 258410) ed è tanto meno stringente quanto più la determinazione è prossima al minimo edittale, rimanendo, in ultimo, sufficiente il semplice richiamo al criterio di adeguatezza, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 2, n. 28852 del 08/052013, Rv. 256464).
In questo contesto, le circostanze attenuanti generiche, in sé, non costituiscono oggetto di un diritto conseguente all’assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma necessitano, in positivo, di elementi ritenuti idonei a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio rendendolo coerente alla concreta gravità del fatto (Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, Rv. 271315; Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Rv. 252900; Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, Rv. 281590). Cosicché, la meritevolezza dell’adeguamento della pena, non potendo essere data per presunta, necessita di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti idonei a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata, a fronte di specifica richiesta dell’imputato, anche attraverso la sola indicazione delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza la stretta necessità della contestazione o dell’invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda.
Nel caso in esame, a prescindere dalla genericità della censura afferente alla concreta determinazione del trattamento sanzionatorio, la sentenza impugnata ha
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evidenziato: i criteri applicati per la determinazione della sanzione (la gravità
dell’evento di dissesto e l’entità delle somme di denaro, fuoriuscite dalla società
fallita, sulle quali i creditori non hanno potuto soddisfarsi); la limitata dimensione dell’aumento (di soli 3 mesi di reclusione) irrogato a titolo di
continuazione fallimentare;
l’irrilevanza della mancanza di deleghe (in quanto dato inidoneo ad incidere sull’intensità del dolo) e dell’incensuratezza dell’imputato; l’assenza di
elementi positivi su cui fondare il riconoscimento delle attenuanti generiche (anche alla luce della già rilevata particolare gravità del fatto). La motivazione è logica e
coerente e, in quanto tale, insindacabile in questa sede.
6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 12 febbraio 2025
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Il Presidente