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Bancarotta fraudolenta: la guida della Cassazione

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per bancarotta fraudolenta a carico dell’amministratore di diritto e di fatto di una società. Gli imputati sono stati ritenuti responsabili di aver distratto beni e occultato le scritture contabili, con l’aggravante di aver agito per agevolare un’associazione di tipo mafioso. La Corte ha rigettato le tesi difensive, secondo cui gli imputati erano semplici prestanome e le operazioni finanziarie erano legittime transazioni infragruppo, chiarendo i criteri per la configurabilità del reato e la responsabilità gestoria.

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Pubblicato il 5 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Bancarotta fraudolenta: ruoli, prove e l’ombra della mafia

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n. 29628/2024) offre importanti chiarimenti sulla bancarotta fraudolenta, delineando con precisione i confini della responsabilità dell’amministratore di diritto e di fatto, e analizzando la complessa aggravante della finalità mafiosa. Il caso esaminato riguarda la spoliazione di una società, orchestrata con l’intento di favorire una cosca criminale, e la decisione della Corte ribadisce principi fondamentali in materia di reati fallimentari.

I fatti: una spoliazione pianificata

Il caso ha origine dal fallimento di una società a responsabilità limitata. Secondo l’accusa, l’amministratore di diritto e un amministratore di fatto, agendo su indicazione di un esponente di spicco di un’associazione mafiosa, hanno sistematicamente depauperato il patrimonio aziendale. Le condotte contestate includono:

* Distrazione di fondi: Pagamenti per un totale di 68.000 euro verso altre società riconducibili ai familiari dell’amministratore di fatto, senza alcuna giustificazione commerciale.
* Sottrazione di beni: Cessione senza corrispettivo di un veicolo aziendale e la sparizione di una gru.
* Occultamento della contabilità: Sottrazione delle scritture contabili per rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, a danno dei creditori.

L’operazione era aggravata dall’intento di agevolare l’attività di una cosca mafiosa, che mirava a impadronirsi della società e dei suoi beni per i propri scopi illeciti.

La linea difensiva degli imputati

Gli imputati hanno presentato ricorso in Cassazione sostenendo diverse tesi. L’amministratore di diritto affermava di essere stato un semplice ‘prestanome’, ignaro delle finalità illecite e che le operazioni finanziarie erano legittime transazioni ‘infragruppo’. L’amministratore di fatto, invece, negava il proprio ruolo gestorio, sostenendo di essere stato un mero collaboratore e che, al più, la sua condotta poteva configurare una colpa, non il dolo tipico della bancarotta fraudolenta.

Entrambi contestavano la sussistenza dell’aggravante mafiosa, asserendo la mancanza di prova del dolo specifico, ovvero della volontà diretta di favorire la cosca.

I principi della Cassazione sulla bancarotta fraudolenta

La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i ricorsi, consolidando importanti principi giuridici.

La responsabilità per la bancarotta patrimoniale

I giudici hanno chiarito che i pagamenti effettuati senza una valida giustificazione economica verso società correlate rappresentano un chiaro ‘indice di fraudolenza’. La difesa basata sulla natura ‘infragruppo’ delle operazioni è stata respinta perché, per essere lecite, tali transazioni devono dimostrare un ‘vantaggio compensativo’ per la società che effettua il pagamento, vantaggio che nel caso di specie era totalmente assente. La Corte ha sottolineato che non è sufficiente allegare l’appartenenza a un medesimo gruppo; è necessario provare un beneficio concreto e prevedibile per la società depauperata.

La responsabilità per la bancarotta documentale

Anche la responsabilità per la sottrazione della contabilità è stata confermata. La Corte ha ribadito che l’amministratore ha un obbligo di vigilanza che non viene meno neanche se la contabilità è affidata a un professionista esterno. La parziale o totale assenza dei libri contabili, che costringe il curatore a una difficile ricostruzione ‘aliunde’ (presso terzi) del patrimonio, è di per sé prova sufficiente della condotta illecita, finalizzata a danneggiare i creditori.

L’aggravante mafiosa e la consapevolezza del fine

Un punto cruciale della sentenza riguarda l’aggravante di aver agito per agevolare un’associazione mafiosa. La Corte, richiamando un precedente delle Sezioni Unite, ha specificato che questa aggravante si applica non solo a chi agisce con lo scopo diretto di favorire la cosca, ma anche al concorrente nel reato che, pur non avendo tale scopo come movente principale, è consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal suo complice. Nel caso specifico, entrambi gli imputati erano pienamente consapevoli del ruolo del mandante e del contesto criminale in cui l’intera operazione si inseriva.

Le motivazioni

La Corte ha ritenuto le motivazioni della sentenza d’appello logiche e coerenti. Ha stabilito che l’amministratore di diritto non era un mero ‘prestanome’, ma una figura che, in continuità con la gestione precedente, ha attivamente contribuito al fallimento. Allo stesso modo, l’amministratore di fatto è stato identificato come tale sulla base della sua costante presenza in azienda, della gestione del personale e del suo diretto interesse nelle operazioni distrattive a favore di società a lui collegate. Le prove raccolte, incluse intercettazioni e testimonianze, hanno dimostrato in modo inequivocabile il contributo causale di entrambi gli imputati alla spoliazione della società, eseguita in piena consapevolezza degli scopi del mandante legato alla criminalità organizzata.

Le conclusioni

La sentenza n. 29628/2024 rafforza tre principi cardine nella lotta ai crimini d’impresa:

1. Responsabilità gestoria: Sia l’amministratore di diritto che quello di fatto rispondono pienamente delle loro azioni. Il ruolo di ‘prestanome’ non è uno scudo contro la responsabilità penale quando si partecipa attivamente alla gestione societaria.
2. Operazioni infragruppo: I trasferimenti di denaro tra società collegate devono avere una solida giustificazione economica e portare un vantaggio anche alla società che li effettua, altrimenti configurano distrazione.
3. Aggravante mafiosa: La consapevolezza del fine di agevolare una cosca, anche se perseguito da un complice, è sufficiente per estendere l’aggravante a tutti i concorrenti nel reato.

Quando una transazione tra società collegate è considerata bancarotta fraudolenta per distrazione?
Secondo la Corte, una tale operazione integra la distrazione quando è priva di una congrua giustificazione economica e non viene dimostrato che la società depauperata abbia ricevuto un ‘vantaggio compensativo’ concreto e prevedibile dall’operazione stessa. La semplice appartenenza a un ‘gruppo’ non è sufficiente a legittimare il trasferimento di fondi.

Chi è responsabile per la tenuta delle scritture contabili se la gestione è affidata a un professionista esterno?
La responsabilità ricade sempre sull’amministratore. Affidare la contabilità a un professionista non esonera l’amministratore dall’obbligo di vigilare e controllare le attività svolte. L’occultamento o la tenuta irregolare dei libri contabili che impedisce la ricostruzione del patrimonio è imputabile all’amministratore.

Come si applica l’aggravante di aver agevolato un’associazione mafiosa a chi non persegue direttamente tale scopo?
L’aggravante si applica anche al concorrente nel reato che, pur non essendo animato personalmente dallo scopo di agevolare la mafia, è consapevole che un altro compartecipe sta perseguendo quella finalità. La piena consapevolezza del fine illecito del mandante o del complice è sufficiente a far scattare l’aumento di pena.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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