Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 13603 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 13603 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 22/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a OSIO SOTTO il 12/071:1.970
avverso la sentenza del 23/11/2022 della CORTE APPELLO di BRESCIA
visti gli atti, il provvedimento impugNOME e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo udito il difensore
IN FATTO E IN DIRITTO
Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Brescia confermava la sentenza con cui il tribunale di Bergamo, in data 6.3.2018, aveva condanNOME COGNOME NOME alle pene, principale e accessorie, ritenute di giustizia, in relazione ai fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione in rubrica ascrittigli ai capi a) e b) dell’imputazione, in qualità di amministratore della società “RAGIONE_SOCIALE“, dichiarata fallita dal tribunale di Bergamo con sentenza del 31.1.2013.
Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l’annullamento, COGNOME ha proposto ricorso per cassazione l’imputato, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione addebitatogli.
Con requisitoria scritta del 6.11.2023 il sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione, AVV_NOTAIO, chiede che il ricorso venga rigettato.
Il ricorso va dichiarato inammissibile per le seguenti ragioni.
Va preliminarmente chiarito che si discute esclusivamente della natura distrattiva dell’operazione di cui al capo a) dell’imputazione, in quanto, con riferimento alla condotta di cui al capo b) l’imputato non ha interposto appello.
La condotta addebitata al COGNOME, come ricostruita dalla corte territoriale, consiste nell’avere “distratto in favore della società RAGIONE_SOCIALE, società della quale COGNOME, al momento dei fatti, era amministratore, nonché socio al 90% (la restante quota appartenendo alla di lui moglie) la somma di euro 703.422,60 precisamente corrispondente al valore dei lavori eseguiti dalla fallita sull’immobile sito in INDIRIZZO, di proprietà della stessa RAGIONE_SOCIALE e da quest’ultima non pagati”.
La corte territoriale, premesso correttamente che le due compagini societarie, pur essendo riferibili al COGNOME, conservavano una propria autonomia ai fini della garanzia che i loro patrimoni, distinti,
rappresentavano per i rispettivi creditori, ha evidenziato come il patrimonio della fallita, “sia stato depauperato a causa dell’assetto contrattuale dato da NOME COGNOME al rapporto tra le due società”, come accertato dal curatore fallimentare”.
Il 24.11.2008, infatti, era stato stipulato un contratto di appalto tra le due società, in forza del quale la “RAGIONE_SOCIALE” aveva commissioNOME alla “RAGIONE_SOCIALE” i lavori di ristrutturazione dell’immobile sito in Medolago in precedenza indicato, convenendosi tra le parti che il pagamento del corrispettivo sarebbe avvenuto “a stato di avanzamento dei lavori” e sarebbe stato subordiNOME alle vendite realizzate dalla committente.
Le indagini svolte, sottolineava il giudice di secondo grado, avevano anche acclarato che l’importo dei lavori fatturati dalla committente all’appaltatrice era stato pari a euro 1.411.839,60, di cui furono pagati solo euro 708.417,00, mentre la restante parte di euro 703.422,60 non fu mai corrisposta, pur continuando la “RAGIONE_SOCIALE” a dare esecuzione al contratto di appalto, nonostante la committente avesse sospeso il pagamento del prezzo, che, peraltro, la società fallita nemmeno poteva pretendere, in quanto condizioNOME, secondo la previsione contrattuale, alle vendite che la “RAGIONE_SOCIALE” avrebbe dovuto volta per volta concludere e che, tuttavia, quest’ultima non riuscì a realizzare, molto probabilmente per la crisi del settore immobiliare (cfr. pp.5-6 della sentenza di secondo grado).
Orbene non è revocabile in dubbio che tale condotta, integri, sotto il profilo oggettivo, gli estremi del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, in quanto l’intera operazione, per come descritta, ha inciso negativamente sul patrimonio della società fallita, mettendone in pericolo la funzione di garanzia delle ragioni del ceto creditorio, non corrispondendo ad essa un reale vantaggio economico.
Al riguardo giova ricordare come costante si sia mantenuto negli anni l’orientamento della giurisprudenza di legittimità nell’affermare che, ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, il distacco del bene dal patrimonio dell’imprenditore poi
fallito (con conseguente depauperamento in danno dei creditori), in cui si concreta l’elemento oggettivo del reato di cui si discute, può realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo incidenza su di esso la natura dell’atto negoziale con cui tale distacco si compie, né la possibilità di recupero del bene attraverso l’esperimento delle azioni apprestate a favore della curatela (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 44891 del 09/10/2008, Rv. 241830; Sez. 5, n. 48872 del 14/07/2022, Rv. 283893).
Il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale prefallimentare, infatti, è un reato di pericolo concreto, in quanto l’atto di depauperamento, incidendo negativamente sulla consistenza del patrimonio sociale, deve essere idoneo a creare un pericolo per il soddisfacimento delle ragioni creditorie, che deve permanere fino al tempo che precede l’apertura della procedura fallimentare (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 50081 del 14/09/2017, Rv. 271437).
In conclusione può dirsi che integrano il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione tutte le operazioni economiche che, esulando dagli scopi dell’impresa, determinano, senza alcun utile per il patrimonio sociale, un effettivo depauperamento di questo in danno dei creditori, ance, ma non necessariamente solo, attraverso il distacco di beni da detto patrimonio, senza immettervi alcun corrispettivo, in quanto i comportamenti che esulano dagli scopi dell’impresa, determinano un effettivo depauperamento del patrimonio in danno dei creditori (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 15679 del 05/11/2013, Rv. 262655; Sez. 5, n. 36850 del 06/10/2020, Rv. 280106; Sez. 5, n. 38328 del 30/05/2023, Rv. 285303).
D’altra parte, come pure è stato sottolineato, in tema di bancarotta fraudolenta, la condotta di “distrazione” si concreta in un distacco dal patrimonio sociale di beni cui viene data una destinazione diversa da quella di garanzia dei creditori, mentre quella di ”dissipazione” consiste nell’impiego dei beni in maniera distorta e fortemente eccentrica rispetto alla loro funzione di garanzia patrimoniale, per effetto di consapevoli scelte radicalmente incongrue con le effettive esigenze dell’azienda,
avuto riguardo alle sue dimensioni e complessità, oltre che alle specifiche condizioni economiche ed imprenditoriali sussistenti (cfr. Sez. 5, n. 7437 del 15/10/2020, Rv. 280550).
Appare, pertanto, evidente che, risultando l’operazione negoziale in precedenza indicata non rispondente alle esigenze economiche della società fallita, essa ha determiNOME un effettivo depauperamento del patrimonio sociale, mettendo in pericolo le ragioni del ceto creditorio o, comunque una dissipazione del suddetto patrimonio (sulla possibilità che in questa sede la condotta possa essere qualificata in termini di dissipazione, essendosi instaurato sul punto il contraddittorio tra le parti in quanto il sostituto procuratore generale nella richiamata requisitoria scritta del 6.11.2023, debitamente comunicata al ricorrente, vi ha fatto espresso riferimento, cfr. Sez. 4, n. 9133 del 12/12/2017, Rv. 272263).
Ciò posto il ricorso del COGNOME si contraddistingue per alcune affermazioni assolutamente distoniche rispetto ai principi pacificamente affermati dalla giurisprudenza di legittimità, laddove il ricorrente ha sostenuto che la descritta operazione non ha arrecato un effettivo e concreto pregiudizio ai creditori, circostanza non necessaria ai fini dell’integrazione della fattispecie delittuosa di cui di discute, rilevando esclusivamente ai fini della eventuale configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 219 legge fallimentare (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 3229 del 14/12/2012, Rv. 253933).
Il ricorrente, inoltre, insiste nel presentare la condotta del COGNOME come l’unica possibile in un momento di particolare crisi del mercato immobiliare, non potendo l’imputato prevedere che gli immobili realizzati dalla “RAGIONE_SOCIALE“, venduti mentre erano ancora in costruzione, a causa della improvvisa crisi determinata dal crollo di “Lehman Brothers”, sarebbero diventati invendibili, non consentendo alla committente di adempiere all’obbligazione nei confronti della fallil:a, che, dal suo canto, non avrebbe potuto agire nei confronti della società inadempiente sottoponendo i beni della “RAGIONE_SOCIALE” a esecuzione forzata, perché, osserva l’imputato, “di fatto non sarebbe cambiato nulla, visto che se il mercato non recepiva nuovi immobili in vendita,
non li avrebbe recepiti nemmeno se gli stessi fossero stati messi all’asta con una proceduta esecutiva”.
Si tratta, tuttavia, di un rilievo di natura meramente fattuale, che non scalfisce il costrutto accusatorio, fondato, come si è visto, su ragioni giuridicamente incontestabili.
Al riguardo può solo aggiungersi che l’annotazione difensiva con cui si rappresenta come gli immobili della committente siano stati venduti solo dopo dodici anni dall’esecuzione dei lavori rappresenta un ulteriore elemento a sostegno della tesi accusatoria, dimostrando come la previsione contrattuale avesse in realtà posto interamente a carico della società appaltatrice il rischio dell’esecuzione della controprestazione in suo favore.
Quanto ai rilievi sul difetto dell’elemento soggettivo del reato, non può non rilevarsene l’assoluta genericità, per come articolati nei motivi di appello e nei motivi di ricorso per cassazione, confondendo il ricorrente il movente del suo agire, che costituisce l’antecedente psichico della condotta (cfr. Sez. 5, n. 2220 del 24/10/2022, Rv. 284115), con l’elemento soggettivo del reato, per il quale è sufficiente che la condotta di colui che pone in essere l’attività distrattiva sia assistita dalla consapevolezza che le operazioni che si compiono sul patrimonio sociale siano idonee a cagionare un danno ai creditori, senza che sia necessaria l’intenzione di causarlo ovvero che l’agente abbia consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 21846 del 13/02/2014, Rv. 260407, Sez. 5, n. 51715 del 05/11/2014, Rv. 261739).
Dolo che, nel caso in esame, correttamente la corte territor ale ha desunto dalle concrete circostanze e dalle modalità esecutive dell’azione criminosa (cfr. Sez. 5, n. 30726 del 09/09/2020, Rv. 279908; Sez. 6, 6.4.2011, n. 16465, Rv. 250007), come in fondo riconosciutp dallo stesso ricorrente, che ha rivendicato la scelta consapevole di non agire nei confronti della committente inadempiente.
Del tutto inedita, infine, è la richiesta, formulata dall’imputato con le conclusioni con cui termina il ricorso, di “ritenere la particolare tenuità
del fatto”, in relazione al fatto di cui al capo B) dell’imputazione, che non ha formato oggetto di appello.
6. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell’art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l’evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest’ultimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 22.11.2023.