Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 1163 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 1163 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 29/11/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
NOME COGNOME nato a MILANO il 21/09/1973
NOME COGNOME nato a MILANO il 19/12/1949
avverso la sentenza del 15/11/2022 della CORTE APPELLO di PALERMO
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha così concluso: si riporta alla requisitoria scritta e conclude per l’inammissibilit dei ricorsi;
udito il difensore, avvocato NOME COGNOME che si è riportato ai motivi di ricorso e ne ha chiesto l’accoglimento.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale della stessa città, assolto NOME COGNOME dal delitto di bancarotta fraudolenta documentale, aveva condannato alla pena di giustizia il medesimo imputato nonché NOME COGNOME per il delitto di bancarotta fraudolenta pal:rimoniale per aver distratto la somma di 964.000 euro dalle casse della RAGIONE_SOCIALE, della quale NOME COGNOME era legale rappresentante, e che è stata dichiarata fallita il 15 dicembre 2009.
L’addebito si riferisce al versamento della predetta somma in favore di NOME COGNOME e poi dal conto di quest’ultimo a quello di altra società della quale NOME COGNOME era procuratore speciale: ciò in adempimento di un debito per “finanziamento soci” non corrispondente ad un reale credito del COGNOME.
Hanno proposto distinti ricorsi per cassazione, entrambi a firma dell’avv. NOME COGNOME i due imputati, articolando i motivi che di seguito vengono enunciati negli stretti limiti di cui all’art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen
3. Ricorso NOME COGNOME.
3.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione e violazione di legge, «in relazione ai criteri di valutazione della prova utilizzati rispetto al natura distrattiva dell’operazione contestata».
Premesso che nel secondo grado di giudizio è stata provata la data certa dell’operazione, collocabile al 15 dicembre 2008, sarebbe privo di logica il riferimento operato dalla Corte territoriale alla circostanza che il documento che la comprova sia stato prodotto in epoca successiva; come pure sarebbe illogico, rispetto alle conclusioni prese in ordine alla natura distrattiva dell’operazione, il rilievo svolto dalla Corte di appello in ordine al fatto che i due soggetti finanziatori che avrebbero ceduto il credito a COGNOME non fossero (entrambi) soci. Una società di capitali, infatti, può ben essere finanziata da soggetti terzi.
Illogica sarebbe l’attribuzione di attendibilità al teste COGNOME che non avrebbe tenuto conto dell’acredine che contraddistingueva i suoi rapporti con gli odierni imputati e che, se davvero avesse ricevuto il versamento di un’ingente somma di denaro a propria insaputa, avrebbe commesso il delitto di appropriazione indebita. Evidenzia il ricorrente che, nel corso della propria deposizione, il teste ha fornito diverse risposte incerte e, in cgni caso, censura la valutazione inesatta delle sue dichiarazioni da parte della Corte di appello.
3.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce analoghi vizi con riguardo alla «mancata valutazione dell’operazione di cessione del credito secondo un criterio ex ante»: se la Corte avesse fatto corretta applicazione del criterio, infatti, avrebbe dovuto desumere la liceità dell’operazione, seguita alla vendita di 20 appartamenti che la società aveva appena perfezionato, decidendo in maniera del tutto logica di alleggerire, con parte della liquidità conseguita, la propria posizione debitoria. Nel momento in cui l’operazione è stata compiuta, un anno prima del fallimento, la situazione patrimoniale della società sarebbe stata sana.
3.3. Con il terzo motivo sono dedotti analoghi vizi con riferimento alla valutazione, che i giudici di merito avrebbero indebitamente compiuto, delle scelte di opportunità aziendale: valutazione viziata dall’errore di avere considerato le condizioni finanziarie della società al momento del fallimento come se fossero quelle che si presentavano all’amministratore al momento della cessione del credito, laddove invece, in quel momento, la società non era decotta e la scelta di riduzione del debito appariva corretta.
3.4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione con riguardo all’elemento soggettivo del reato, la cui sussistenza non sarebbe stata motivata: da un lato la Corte di appello avrebbe ritenuto provato il dolo (in capo ad entrambi i ricorrenti) sulla base della mera decisione di effettuare il versamento, senza valutare se tale decisione fosse animata dalla volontà di imprimere al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella sua propria; per altro verso non ha distinto i ruoli dei due imputati, uno solo dei quali è chiamato a rispondere quale legale rappresentante. Non vi sarebbe alcuna motivazione in ordine al dolo del soggetto extraneus.
3.5. Con il quinto motivo il ricorrente deduce violazione di legge con riferimento all’art. 2639 cod. civ. e vizio di motivazione, laddove la responsabilità di NOME COGNOME, semplicemente indicato nel capo di imputazione quale “padre” del legale rappresentante, sarebbe stata considerata ora a titolo di concorso dell’extraneus ora quale amministratore di fatto, con affermazioni tra loro contraddittorie.
3.6. Con il sesto motivo il ricorrente deduce violazione di legge con riguardo agli artt. 216, 217 e 223 legge fall. e comunque vizio di motivazione con riferimento alla mancata riqualificazione del fatto in quello di bancarotta semplice per operazioni manifestamente imprudenti, che sarebbe prescritto.
Al momento dell’operazione contestata, la società aveva appena incassato circa 1,5 milioni di euro dalla vendita degli appartamenti realizzati e ciò impedirebbe di ravvisare in quanto compiuto l’elemento della fraudolenza.
3.7. Con il settimo motivo il ricorrente deduce violazione di legge con riguardo all’art. 133 cod. pen. e vizio di motivazione in ordine alla determinazione della
pena, con particolare riferimento alla mancata considerazione della scarsa entità del dolo.
3.8. Con l’ottavo motivo il ricorrente deduce violazione di legge con riguardo all’art. 62-bis cod. pen. ed in ogni caso vizio di motivazione con riguardo al diniego delle circostanze attenuanti generiche. Gli elementi offerti in valutazione, quali le condizioni di vita e la corretta condotta processuale, non sono stati considerati dalla Corte territoriale.
3.9. Con il nono motivo il ricorrente deduce violazione di legge con riguardo all’art. 219 legge fall. e comunque vizio di motivazione con riguardo al riconoscimento della circostanza aggravante del danno di rilevante gravità, affermata come sussistente senza motivare in ordine alla concretezza del danno patito dai creditori.
3.10. Con il decimo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo alla commisurazione della durata delle pene accessorie fallimentari, sbrigativamente parametrata alla durata della pena principale, senza considerazioni specialpreventive.
Il ricorso di NOME COGNOME è pressoché identico (anche nella numerazione e nel contenuto dei motivi) a quello di NOME COGNOME con le seguenti precisazioni:
4.1. il quinto motivo affronta il tema del concorso dell’amministratore formale NOME COGNOME nel fatto distrattivo che sarebbe stato commesso eventualmente dal padre. Il vizio di motivazione risiederebbe nel non aver indicato elementi a sostegno del concorso e di averlo desunto dalla mera posizione formale rivestita, laddove il padre stesso si sarebbe assunto la responsabilità esclusiva della gestione. La motivazione sarebbe illogica laddove ha posto in evidenza la consapevolezza, in capo al ricorrente, dell’avvenuta vendita degli immobili, dato neutro rispetto alla successiva distrazione del ricavato;
4.2. il settimo, ottavo e decimo motivo denunciano, nei diversi profili attinenti il trattamento sanzionatorio (settimo motivo: commisurazione della pena; ottavo motivo: attenuanti generiche; decimo motivo: pene accessorie fallimentari), l’omessa motivazione in ordine alla personalità del ricorrente. La Corte di appello, nell’occuparsi degli aspetti considerati dai citati motivi, avrebbe preso in esame solo la posizione di NOME COGNOME e non specificamente quella del coimputato ricorrente.
Si è proceduto a discussione orale.
Il Procuratore generale si è riportato alla requisitoria scritta, nella quale ha chiesto dichiararsi inammissibili i ricorsi.
L’avv. COGNOME ha chiesto l’accoglimento dei ricorsi.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi, che possono essere trattati congiuntamente in quanto si fondano su argomentazioni in larga parte comuni (salve le distinzioni di cui si dirà), sono inammissibili.
I primi tre motivi, inerenti il medesimo punto della decisione impugnata, possono essere trattati congiuntamente.
1.1. Il vizio di cui all’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. riguarda infatti l’erronea interpretazione della legge penale sostanziale (ossia, la sua inosservanza) ovvero l’erronea applicazione della stessa al caso concreto (e, dunque, l’erronea qualificazione giuridica del fatto o la sussunzione del caso concreto sotto la fattispecie astratta). Non si versa nella denuncia di tale vizio in presenza dell’allegazione di un’erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, ipotesi, questa, mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa denunciabile sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, COGNOME, Rv. 268404).
1.2. Non a caso, i ricorrenti concentrano la propria attenzione sulla motivazione dell’affermazione di responsabilità, ma ciò fanno, ancora una volta, inammissibilmente.
I primi tre motivi sono anzitutto reiterativi e generici, perché rappresentano in larga misura la riproduzione dei motivi di appello, senza un confronto completo con la motivazione della sentenza di secondo grado, che viene attaccata solo in alcuni passaggi, senza considerare la necessaria visione di insieme.
In caso di c.d. “doppia conforme”, non possono giustificare l’annullamento minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero potuto dar luogo ad una diversa decisione, sempreché tali elementi non siano muniti di un chiaro e inequivocabile carattere di decisività. In argomento si è spiegato che non costituisce vizio della motivazione qualsiasi omissione concernente l’analisi di determinati elementi probatori, in quanto la rilevanza dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto in cui essi sono inseriti, dovendo invece essere posti a confronto con il complesso probatorio; soltanto una valutazione globale e una visione di insieme permettono di verificare se essi rivestano realmente consistenza decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza logica dell’impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest’ultimo caso, implicitamente confutati
(Sez. 5, n. 3980 del 15/10/2003, COGNOME, Rv. 226230; Sez. 5, n. 3751 del 23/3/2000, Re Carlo, Rv. 215722; Sez. 5, n. 7572 del 11/6/1999, COGNOME, Rv. 213643).
Facendo applicazione dei richiamati principi nel caso di specie, è appena il caso di osservare che le osservazioni dei ricorrenti in ordine alla data certa dell’operazione contestata ed in ordine alla possibilità anche per soggetti estranei alla compagine sociale di effettuare finanziamenti alla società non colgono nel segno.
Esse non considerano, infatti, che l’affermazione di responsabilità non è stata fondata su tali argomenti, bensì, in modo decisivo, sulla testimonianza del COGNOME e sui riscontri alla stessa.
In particolare, come è stato messo in evidenza sia dal Tribunale che dalla Corte di appello, il COGNOME ha disconosciuto la propria sottoscrizione in calce alla scrittura con la quale sarebbe stata formalizzata la cessione — in proprio favore del credito dei finanziatori della società, ed ha riferito: di aver aperto il cont corrente sul quale la somma era confluita proprio su indicazione di NOME COGNOME; di aver girato l’intera somma alla società RAGIONE_SOCIALE della quale il COGNOME era procuratore speciale; di aver subito la gestione del proprio conto corrente da parte del COGNOME in diverse occasioni, verificando pure che lo stesso aveva falsificato altre volte la propria firma, ragion per cui il teste aveva sporto querela.
La Corte di appello ha valutato in modo non illogico l’intrinseca attendibilità del teste, considerando in particolare il rapporto di parentela e la lunga consuetudine di lavoro in comune, che durava da molti anni, ed osservando che la richiesta di NOME COGNOME al COGNOME, di aprire un conto corrente a suo nome, era apparsa a quest’ultimo credibile, proprio in ragione di tali risalenti rapporti e del fatto che COGNOME era dipendente del COGNOME ed aveva creduto che il conto servisse ad accreditarvi il proprio stipendio (pag. 8 della sentenza impugnata).
Da questo punto di vista, il primo motivo di ricorso, oltre che reiterativo, è generico, laddove non evidenzia quali sarebbero le imprecisioni o le inesattezze nella testimonianza del COGNOME, senza confrontarsi invece con la motivazione resa dalla Corte territoriale in ordine alla credibilità del teste.
Sia il Tribunale che la Corte di appello hanno evidenziato l’importante riscontro alla testimonianza del COGNOME rappresentato, su un punto fondamentale, dal teste di polizia giudiziaria che ha dichiarato di aver notato numerosi documenti bancari con apparente firma del COGNOME, non conforme a quella dello specimen rilasciato alla banca (cfr. pag. 9).
Del resto, la circostanza che i 964.000 euro non siano stati versati ai reali creditori sociali ma, previa apparente cessione del loro credito, ad un conto intestato al COGNOME e del quale disponeva lo stesso COGNOME, e che proprio il COGNOME sia stato il destinatario finale è considerazione essenziale ai fini del giudizio di fraudolenza che è stato correttamente argomentato da Tribunale e Corte di appello e che viene contestato solo genericamente dal ricorrente.
Quella svolta dalla Corte di appello non è un’indebita intrusione in scelte aziendali, con una comoda valutazione ex post: la Corte ha invece evidenziato, in modo del tutto corretto, che l’operazione ha finito con il destinare al medesimo COGNOME l’ingente somma di euro 964.000, depauperando stabilmente le casse sociali (cfr. pag. 12 della sentenza impugnata) della società che, di lì ad un anno, sarebbe stata dichiarata fallita.
2. Inammissibile è il quarto motivo, che riguarda l’elemento soggettivo.
Il dolo della bancarotta per distrazione è generico e per la sua integrazione è sufficiente la «consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte» (Sez. U n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266805-01): consapevolezza che la Corte di appello ha correttamente ravvisato nell’aver destinato un’ingente somma ad altra società riconducibile agli imputati, sottraendola ai creditori sociali.
La Corte territoriale, invero, non si è sottratta alla valutazione delle condizioni economiche della società al momento dell’operazione (e non solo al momento del fallimento, comunque successivo di solo un anno) ed ha anzi evidenziato come la stessa si trovasse in una situazione di «cronica carenza di aul:onomia finanziaria» (pag. 10).
Il tentativo dei ricorrenti di proporre una diversa valutazione degli elementi di prova raccolti sul punto non è ammissibile dinanzi alla Corte di cassazione, mentre le conclusioni raggiunte dalla Corte territoriale sono logicamente argomentate.
3. Il quinto motivo è manifestamente infondato.
La Corte di appello ha preso in esame il ruolo di NOME COGNOME nell’operazione distrattiva contestatagli quale extraneus e non lo ha invece ritenuto amministratore di fatto, a tanto non bastando il riferimento, contenuto nella pagina 16 della sentenza, alla non occasionalità del suo intervento ed ai rapporti con il curatore fallimentare, da lui tenuti dopo il fallimento.
La Corte territoriale ha adeguatamente giustificato le proprie conclusioni, con riferimento alla delega ricevuta da NOME Carlo COGNOME a gestire proprio l’operazione distrattiva contestata ed alla procura speciale che la società destinataria del denaro gli aveva conferito.
Correttamente, alla luce dei principi enunciati dalla giurisprudenza di riferimento, la Corte territoriale ha ritenuto sussistente nella condotta del ricorrente il dolo dell’extraneus, inteso quale «volontarietà della propria condotta di apporto a quella dell “intraneus”, con la consapevolezza che essa determina un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori» (Sez. 5, n. 26501 del 31/03/2021, COGNOME, Rv. 281555).
Nemmeno la motivazione presenta illogicità di sorta laddove si occupa della responsabilità di NOME COGNOME ed è semmai il ricorso di quest’ultimo ad invertire indebitamente il rapporto tra extraneus ed intraneus.
Come si è detto, la Corte di appello non si è intrattenuta sui profili di eventuale responsabilità di NOME COGNOME a titolo di amministratore di fatto, e tantomeno ha affermato che egli sia stato esclusivo gestore della società, mentre ha motivato correttamente e senza salti logici la responsabilità di NOME COGNOME sulla base, oltre che delle dichiarazioni del medesimo in ordine all’operazione ritenuta distrattiva, della considerazione della sua posizione di gestore di diritto e della sottoscrizione, da parte sua in tale qualità, dell’atto d cessione del credito nel quale l’operazione è consistita.
4. Pure il sesto motivo è manifestamente infondato.
I ricorrenti sostengono che il fatto possa essere ricondotto alla fattispecie astratta prevista dall’art. 217, primo comma n. 2, legge Fall., norma che punisce la condotta dell’imprenditore che «ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti».
Questa Corte ha ripetutamente precisato che non ricorre l’ipotesi di bancarotta semplice, ma quella più grave della bancarotta fraudolenta, allorché si tratti di operazioni che – come nella specie comportino un notevole impegno sul patrimonio sociale, essendo quasi del tutto inesistente la prospettiva di un vantaggio per la società, mentre le operazioni realizzate con imprudenza costitutive della fattispecie incriminatrice della bancarotta semplice sono quelle il cui successo dipende in tutto o in parte dalll’alea o da scelte avventate e tali da rendere palese a prima vista che il rischio affrontato non è proporzionato alle possibilità di successo, fermo restando però, in ogni caso, che si tratti sempre di comportamenti realizzati nell’interesse dell’impresa (Sez. 5 , n. 34292 del 02/10/2020, COGNOME, Rv. 279973; Sez. 5, n. 35716 del 09/06/2015, Scambia, Rv. 265871).
Nel caso di specie, come si è già osservato, l’operazione di cui si discute era contraria all’interesse dell’impresa, privata di consistente liquidità in favore di una società riconducibile agli imputati.
Sono manifestamente infondati e generici il settimo e ottavo motivo, inerenti al trattamento sanzionatorio.
Con riferimento alla determinazione della pena, «deve ritenersi adempiuto l’obbligo di motivazione del giudice di merito sulla determinazione in concreto della misura della pena, allorché siano indicati nella sentenza gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell’ambito della complessiva dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all’art. 133 cod. pen.» (Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013, dep 2014, COGNOME, Rv. 258410).
Nel caso concreto, la Corte territoriale ha adeguatamente risposto al motivo di appello enunciato sul punto, allorché a pagina 17 della decisione impugnata ha evidenziato in particolare l’ammontare consistente della somma distratta e l’intensità del dolo.
Altrettanto deve dirsi con riferimento alla risposta al motivo di appello inerente le circostanze attenuanti generiche (pagina 1.8 della sentenza impugnata), dovendosi piuttosto evidenziare che i ricorrenti si sono limitati a riproporre i medesimi argomenti senza confrontarsi con la motivazione resa dalla Corte di appello di Palermo che, diversamente da quanto affermato nei ricorsi, ha tenuto presenti le argomentazioni enunciate negli atti di appello, ritenendole vaghe ed insufficienti («non assumono rilevanza le condizioni di vita, non meglio precisate, degli appellanti, né l’addotto comportamento collaborativo degli stessi per avere fornito la loro versione dei fatti, che, alla luce, peraltro, delle evident risultanze processuali, non è sicuramente sufficiente per il riconoscimento delle circostanze attenuanti invocate»).
Infine, la durata delle pene accessorie fallimentari è stata motivata in modo non palesemente illogico, sulla base degli stessi criteri che hanno presieduto all’individuazione della pena principale.
Le considerazioni svolte dalla Corte di appello, in risposta ai motivi di gravame, tengono dunque in considerazione la posizione di entrambi gli odierni ricorrenti, rispondendo in modo adeguato ai motivi di appello che ciascuno di essi aveva enunciato.
E’ manifestamente infondato pure il nono motivo, inerente il riconoscimento della circostanza aggravante del danno di rilevante gravità.
Ai fini dell’applicazione dell’art. 219 legge fallimentare, «la valutazione del danno va effettuata con riferimento non all’entità del passivo o alla differenza tra attivo e passivo, bensì alla diminuzione patrimoniale cagionata direttamente ai creditori dal fatto di bancarotta; pertanto, il giudizio relativo alla particolare tenuit – o gravità – del fatto non si riferisce al singolo rapporto che passa tra fallito creditore ammesso al concorso, né a singole operazioni commerciali o speculative
dell’imprenditore decotto, ma va posta in relazione alla diminuzione – non percentuale ma globale – che il comportamento del fallito ha provocato nella massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto, ove non si fossero verificati gli illeciti» (Sez. 1, n. 12087 del 10/10/2000, COGNOME, Rv. 217403; conf. Sez. 5, n. 8690 del 27/04/1992, COGNOME, Rv. 191565).
L’art. 219 legge fallimentare «in funzione aggravante o attenuante considera il danno patrimoniale, il quale, ancorché misurato al tempo del fallimento, è solo quello che consegue ai fatti di bancarotta» (Sez. 5, n. 15613 del 05/12/2014, dep. 2015, COGNOME).
Tale orientamento si è poi consolidato ribadendo il principio di diritto in forza del quale, in tema di reati fallimentari, l’entità del danno provocato dai fatti configuranti bancarotta patrimoniale va commisurata al valore complessivo dei beni che sono stati sottratti all’esecuzione concorsuale, piuttosto che al pregiudizio sofferto da ciascun partecipante al piano di riparto dell’attivo, ed indipendentemente dalla relazione con l’importo globale del passivo (Sez. 5, n. 13285 del 18/01/2013, COGNOME, Rv. 255063; Sez. 5, n. 49642 del 02/10/2009, COGNOME, Rv. 245822; Sez. 5, n. 8037 del 03/06/1998, COGNOME, Rv. 211637). Affermazione, quest’ultima, che è stata puntualizzata nel senso che la circostanza aggravante può essere integrata anche in presenza di un danno derivante dal fatto di bancarotta che, pur essendo, in sé considerato, di rilevante gravità, rappresenti una frazione “non rilevante” del passivo globalmente considerato (Sez. 5, n. 48203 del 10/07/2017, COGNOME, Rv. 271274).
Nel caso di specie, la Corte di appello ha correttamente giustificato il riconoscimento dell’aggravante, ponendo a confronto l’importo della distrazione con l’importo complessivo dei debiti, alla cui garanzia le somme distratte dovevano essere destinate (cfr. pagina 18 della sentenza impugnata).
La critica dei ricorrenti è del tutto generica, perché non si confronta con la motivazione resa dalla Corte territoriale.
L’ultimo motivo, inerente la durata delle pene accessorie fallimentari, è inammissibile in quanto inedito, e comunque è manifestamente infondato.
I ricorrenti citano una sentenza di questa Sezione (n. 29333 del 05/04/2022, non massimata), che si riferiva ad un caso nel quale le pene accessorie, ritenute comunque conformi a legalità, superavano di oltre il doppio la durata della pena principale irrogata.
Nel caso qui giudicato, invece, la Corte di appello ha commisurato le pene accessorie fallimentari nella stessa durata della pena principale, facendo espresso riferimento ai medesimi criteri di commisurazione adoperati per l’individuazione
della pena principale e, dunque, adempiendo all’onere di “individualizzazione” che i ricorrenti, peraltro in maniera assai generica, richiamano.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., i ricorrenti devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 29/11/2023.