Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 31842 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 31842 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 09/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da NOME NOME, nato a Trissino il DATA_NASCITA, avverso la sentenza della Corte di appello di Milano in data 17/04/2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, NOME COGNOME, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso; udito, per l’imputato, l’AVV_NOTAIO, anche in qualità di sostituto processuale dell’AVV_NOTAIO, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza in data 17 aprile 2023, la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Milano in data 27 settembre 2021 con la quale NOME COGNOME era stato condannato alla pena di due anni di reclusione in quanto riconosciuto colpevole, con le attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità, del delitto di bancarotta fraudolenta impropria per operazioni dolose, qualificato il fatto come unica violazione dell’art. 223, comma 2, n. 2, legge fall., per avere cagionato, con dolo eventuale, il fallimento della RAGIONE_SOCIALE da lui amministrata, mediante operazioni
44,
consistite: nel non adempiere ai debiti tributari; nel finanziare la società RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, sebbene a patrimonio netto negativo e priva, ormai, di capitale sociale; nel non accedere alla procedura concorsuale nonostante la perdita del proprio capitale sociale; reato commesso il 18 giugno 2015, data del fallimento.
2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione lo stesso COGNOME a mezzo dei difensori di fiducia, AVV_NOTAIO e NOME AVV_NOTAIO, deducendo, con unico motivo di impugnazione formulato ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. e di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen., la inosservanza o erronea applicazione dell’art. 649 cod. proc. pen., nonché la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla prova dell’elemento psicologico del reato risultante dalla sentenza n. 13420 del Tribunale di Milano in data 13 dicembre 2016, ormai definitiva. Nel dettaglio, il ricorso premette che con sentenza del Tribunale di Milano in data 13 dicembre 2016 NOME sarebbe stato assolto «perché il fatto non costituisce reato» dalla stessa violazione tributaria ora contestata come operazione dolosa fallimentare: ciò che impedirebbe, per il divieto del bis in idem, che la stessa operazione possa essere ritenuta dolosa, essendo stato il dolo escluso dalla pronuncia in questione. Secondo la Corte di appello, tuttavia, tale decisione non avrebbe considerato l’insieme del debito tributario concernente l’imputato e sarebbe stata successivamente smentita dalla sentenza in data 20 febbraio 2014 con cui la Corte di appello di Milano aveva condannato NOME per omesso versamento dell’IVA. Nondimeno, il ricorso opina che quest’ultima pronuncia si riferirebbe, in realtà, a un periodo anteriore e diverso rispetto alla violazione oggetto dell’altra decisione; e che l’affermazione secondo cui la sentenza del 13 dicembre 2016 non avrebbe considerato l’insieme del debito tributario concernente l’imputato non indicherebbe da quali elementi detta circostanza sia stata ricavata. Invero, proprio la predetta sentenza avrebbe fatto riferimento a un piano di risanamento proposto dalla società e dall’imputato, accettato dall’RAGIONE_SOCIALE in epoca vicina alla data del fallimento; piano che prevedeva un ammontare del debito pari a complessivi 3.868.000 euro, superiore a quanto indicato nel capo di imputazione. Pertanto, già prima della declaratoria di fallimento, sarebbe stata accertata una consistente serie di pagamenti effettuati verso l’RAGIONE_SOCIALE della RAGIONE_SOCIALE, . che avrebbero di molto decurtato l’ammontare complessivo del debito tributario rispetto ai valori indicati nel capo di imputazione. Dunque, l’assenza di dolo per il debito tributario di cui alla sentenza del 13 dicembre 2016, pronunziata al tempo della declaratoria di fallimento, riguarderebbe l’intero ammontare del debito tributario tenuto in conto nella suddetta pronuncia. Inoltre, le critiche della Corte territoriale alla pronunzia del 13 dicembre 2016, definita non condivisibile, non considererebbero che essa Corte di Cassazione – copia non ufficiale
“faccia stato”, impedendo di considerare come accaduto un «fatto» per cui NOME è stato assolto, quand’anche con la formula «perché il fatto non costituisce reato». Infatti, l’esclusione del dolo da parte di tale pronuncia potrebbe al più consentire di qualificare il fatto oggetto del presente procedimento come «colposo».
Quanto alla bancarotta fraudolenta consistente nel cd. finanziamento verso la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, non si sarebbe trattato di erogazioni a fondo perduto e di sovvenzioni sulle quali la RAGIONE_SOCIALE poteva agire a suo piacimento, ma dell’acquisto diretto, da parte della fallita, di prodotti ovini forniti . alla RAGIONE_SOCIALE, operante nel settore della macellazione, in modo che essa potesse vendere a terzi «RAGIONE_SOCIALE» e «pelli», rimanendo la controllante creditrice degli importi degli acquisti. Come anticipato, inoltre, dalla sentenza del 13 dicembre 2016 emergerebbe: che poco prima della declaratoria di fallimento la società propose un «piano di rientro» dei debiti tributari all’RAGIONE_SOCIALE e quest’ultima, dopo averli inizialmente rifiutati, accettò un ulteriore piano, ritenendosi soddisfatta RAGIONE_SOCIALE garanzie offerte, piano che, in tesi, avrebbe costituito un importante indizio dell’esistenza di un intento imprenditoriale diverso da quello di accettare il fallimento; che la società interessata e, per essa, l’amministratore, avrebbe effettuato RAGIONE_SOCIALE rimesse verso l’RAGIONE_SOCIALE per oltre 66.000 euro, erroneamente non contabilizzate da parte dell’RAGIONE_SOCIALE, quale prima rata del piano di rientro per un ammontare di oltre 100.000 euro. Inoltre, la sentenza del 13 dicembre 2016 rileverebbe come varie rate ulteriori, di oltre 110.000 euro, fossero state man mano corrisposte; e la discrepanza tra l’ammontare complessivo del debito tributario quale emergente dal «piano di rientro» e l’ammontare del debito quale cristallizzato nel capo di imputazione costituirebbe elemento di riscontro. Dunque, proprio in ragione di quegli acquisti di merce, si sarebbero ricavati significativi frutti, immediatamente rimessi a decurtazione degli obblighi fiscali e del debito tributario, anche se l’andamento migliorativo del mercato si sarebbe interrotto nuovamente, dando luogo, infine, al fallimento. Pertanto, sarebbe illogico parlare di «dolo eventuale» nei predetti acquisti, di «accettazione del rischio del fallimento» e di operazioni dolose «accettanti il rischio» che avrebbero contribuito a cagionare un totale e definitivo dissesto, considerata la presenza di indici deponenti per una «speranza non velleitaria», per una «imprudenza colposa», rilevante come bancarotta semplice; tanto più che anche l’astenersi dal richiedere il proprio fallimento, di cui all’ultima parte del capo di imputazione, sarebbe ipotesi integralmente ricompresa nell’art. 217 legge fall. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato e, pertanto, deve essere respinto.
2. Va premesso che le sentenze di merito hanno accertato – attraverso l’esame del curatore COGNOME, l’acquisizione della sua relazione ex art. 33, legge fall. e la documentazione ad essa allegata, nonché della relazione del consulente tecnico della difesa, COGNOME – che la RAGIONE_SOCIALE era stata dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Milano del 18 giugno 2015, con un passivo fallimentare complessivo di 5.200.000 euro, costituito, per la maggior parte, da debiti verso gli enti previdenziali (3.449.327,23 euro), verso il sistema bancario (circa 1,5 milioni di euro) e, in minor misura, verso i fornitori.
Il dissesto della fallita, secondo i Giudici di merito, era stato causato (o, quantomeno, aggravato esponenzialmente) da una serie di operazioni dolose, complessivamente finalizzate a mantenere artificiosamente in vita la RAGIONE_SOCIALE nonostante che il dissesto si fosse palesato sin dal 2009 e si fosse protratto per ben sei esercizi consecutivi; operazioni che nascevano dal tentativo di un risanamento RAGIONE_SOCIALE perdite che, in realtà, era inattuabile, attesa la pesante esposizione verso gli istituti bancari e l’assenza di capitali di rifinanziamento.
Dette operazioni erano risultate sostanzialmente riconducibili a tre ambiti.
Il primo riguardava il sistematico inadempimento RAGIONE_SOCIALE obbligazioni tributarie, grazie al quale la società aveva potuto contare su illecite risorse finanziarie che ne avevano prolungato la vita ben oltre i primi segnali di decozione. In proposito, le sentenze di condanna hanno ritenuto irrilevante la produzione difensiva della copia di una sentenza di assoluzione «perché il fatto non costituisce reato» emessa, nei confronti di NOME, in relazione al delitto di cui all’art. 10 -ter, d.lgs. n. 74 del 2000, trattandosi di fatti diversi da quelli contestati nel presente procedimento.
Il secondo ambito concerneva il finanziamento della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, avvenuto anche dopo che era emersa l’impossibilità di ripianarne l’esposizione nei confronti della controllante in ragione del suo stato di decozione, essendo stata ritenuta inverosimile la tesi difensiva che aveva valutato l’asset aziendale della RAGIONE_SOCIALE in oltre 1.800.000 euro, stanti l’assenza di beni immobili alla stessa riferibili e la consulenza tecnica resa nella procedura fallimentare, che ne aveva determinato il valore complessivo in poco più di 300.000 euro.
Il terzo ambito atteneva al mancato ricorso a procedure concorsuali da parte della fallita, considerata l’adozione, nel bilancio, di appostazioni di comodo che avevano, di fatto, mascherato il reale stato di crisi della RAGIONE_SOCIALE ed essendo stata la società posta in stato di liquidazione soltanto un mese prima della dichiarazione di fallimento del 2015.
Tali operazioni, complessivamente considerate, rendevano impossibile ricondurre, secondo i Giudici di merito, le condotte dell’amministratore, il quale era consapevole della perdita del capitale sociale sin dal 2009, nell’alveo dell’art. 217 legge fall., la cui applicazione era stata invocata dalla difesa dell’imputato.
3. Tanto premesso in termini di sintetico riepilogo RAGIONE_SOCIALE due decisioni di merito, destinate a integrarsi reciprocamente nei rispettivi apparati motivazionali, la difesa ha, innanzitutto, dedotto che la sentenza n. 13420 del Tribunale di Milano in data 13 dicembre 2016, ormai definitiva, con la quale NOME era stato assolto «perché il fatto non costituisce reato» dai delitti ascrittigli ai sensi dell’art. 10 -ter, d.lgs. n. 74 del 2000, avrebbe imposto di escludere, in virtù del divieto di bis in idem, che i medesimi fatti, di cui quella pronuncia aveva riconosciuto il carattere non doloso, potessero invece integrare le «operazioni dolose» previste dall’art. 223 legge fall., essendosi al cospetto, al più, di condotte colpose, con conseguente venir meno dell’elemento psicologico del reato.
3.1. Sul punto deve, nondimeno, osservarsi che le sentenze di merito hanno evidenziato come la pronuncia assolutoria non concernesse affatto tutte le condotte di omesso pagamento dei debiti erariali, quarièci soltanto una porzione di esse. Infatti, mentre la prima riguardava il mancato versamento dell’IVA per gli anni dal 2009 al 2012, la contestazione elevata nel presente giudizio concerneva i debiti tributari dal 2008 al 2014 (con una sovrapposizione solo parziale degli anni di imposta) e, inoltre, come evidenziato nelle due sentenze, le violazioni riguardavano non soltanto VIVA (il cui debito pure costituiva quello di maggiore ammontare), ma anche altri tributi e, soprattutto, anche debiti di natura previdenziale. Un profilo, questo, rispetto al quale le odierne deduzioni difensive sono insuperabilmente generiche, essendosi il ricorso limitato ad affermare che la Corte territoriale non avrebbe indicato da quali concreti elementi abbia tratto che la sentenza del 13 dicembre 2016 non avrebbe considerato l’insieme del debito tributario; tanto più che la stessa difesa, nell’atto di appello, aveva invece riconosciuto che la pronuncia del 2016 riguardava, appunto, il debito IVA (v. pag. 2).
Né il rilievo contenuto nelle due sentenze di merito può dirsi superato a partire dalla circostanza, posta in luce dall’odierno ricorso, secondo cui il piano di risanamento, proposto dalla società e accettato dall’RAGIONE_SOCIALE in epoca vicina alla data del fallimento, prevedeva un ammontare del debito pari a complessivi 3.868.000 euro; somma superiore a quanto indicato nel capo di imputazione. Tale osservazione, fondata su elementi di fatto inaccessibili a questo . Collegio, non appare in ogni caso decisiva, in quanto ancora una volta generica rispetto a quando ritenuto dalle due pronunce di merito, non potendosi ricostruire, dall’ammontare del debito indicato nel piano di risanamento, quale ne fosse l’origine e a quali annualità si riferisse.
Sotto altro profilo, la Corte di appello ha evidenziato come a carico di NOME risultasse una seconda pronuncia, emessa dalla Corte di appello di Milano il 20 febbraio 2014, irrevocabile il 5 maggio 2015, con la quale egli era stato, invece, condannato per il reato di omesso versamento dell’IVA commesso nel 2009 e dal
tenore diametralmente opposto alla sentenza n. 13420/2016 del Tribunale di Milano. In proposito, il ricorso ha dedotto che la pronuncia della Corte di appello si riferirebbe a un periodo anteriore e diverso rispetto a quello della violazione tributaria oggetto della decisione del Tribunale. Tale considerazione, tuttavia, non presenta i necessari requisiti di autosufficienza, trattandosi di affermazione rimasta priva di qualunque riscontro e, come tale, non scrutinabile in questa sede.
Parimenti infondata è l’ulteriore deduzione difensiva secondo cui la RAGIONE_SOCIALE non avrebbe svolto alcun «finanziamento» a beneficio della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE D’RAGIONE_SOCIALE, con la quale avrebbe intrattenuto normali rapporti commerciali, cedendole taluni prodotti e diventando sua creditrice per le somme dovute.
4.1. Sul punto, invero, le osservazioni difensive non si confrontano con quanto posto in luce dalle due sentenze di merito e, in particolare, con il fatto che la fallita cedesse alla RAGIONE_SOCIALE senza ricevere corrispettivo, accumulando ingentissimi crediti, mai riscossi e svalutati soltanto nel 2014, le avesse messo a disposizione un immobile a Pianella, ove essa svolgeva la propria attività imprenditoriale, le avesse ceduto l’affitto di un’azienda per 18 mesi dietro il pagamento del canone complessivo di 107.000 euro, da realizzare mediante l’accollo del debito della concedente verso i propri dipendenti; debito mai onorato, essendo la RAGIONE_SOCIALE, già dal 2010, in uno stato di sostanziale decozione ben conosciuto da NOME, il quale era amministratore unico di entrambe le società.
4.2. Né conferente è, poi, la considerazione difensiva volta a dimostrare che non vi sarebbe stata, da parte dell’imputato, alcuna «accettazione del rischio del fallimento» da parte dell’imprenditore erogante gli acquisti, tenuto conto del «piano di rientro» dei debiti tributari concordato con l’RAGIONE_SOCIALE, dimostrativo del fatto che l’imprenditore non intendesse in alcun modo accettare il fallimento, cui si sarebbe giunti a causa del fatto che l’auspicato «andamento migliorativo del mercato» si era interrotto. E dall’impossibilità di configurare un dolo eventuale consistente nella «accettazione del rischio del fallimento» deriverebbe che, come riconosciuto dalla stessa sentenza impugnata, le operazioni compiute dalla RAGIONE_SOCIALE nascessero da una «speranza non velleitaria» di potersi salvare dal fallimento ovvero da un atteggiamento di «imprudenza colposa» rilevante ai sensi dell’art. 217 legge fall.
Tale prospettazione, in realtà, nasce da un evidente equivoco, ovvero che in relazione al delitto ascritto all’imputato il dolo eventuale debba riguardare non soltanto le operazioni dolose, ma finanche il fallimento.
In argomento, va innanzitutto ricordato che l’art. 223, comma 2, legge fall. prevede due distinte fattispecie: quella di bancarotta fraudolenta per avere cagionato con dolo il fallimento della società e quella di bancarotta fraudolenta
(
impropria commessa mediante operazioni dolose. Dette ipotesi delittuose, dal punto di vista oggettivo, non presentano sostanziali differenze, ma vanno tenute distinte sotto il profilo soggettivo. Mentre con riferimento alla prima, la locuzione «con dolo» va intesa alla stregua della definizione di cui all’art. 43 cod. pen., per cui il fallimento deve essere previsto e voluto dall’agente come conseguenza della sua azione od omissione, sì da configurare una fattispecie a dolo diretto di evento, nel caso del fallimento conseguente a operazioni dolose, esso è soltanto l’effetto, dal punto di vista causale, di una condotta volontaria ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, quand’anche il soggetto attivo dell’operazione abbia accettato il rischio che esso si verifichi. In tale evenienza, dunque, si è in presenza di una fattispecie a dolo generico, sicché è sufficiente la consapevolezza di porre in essere un’operazione che, concretandosi in un abuso o in un’infedeltà nell’esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per la salute economico-finanziaria della società, determini l’astratta prevedibilità della decozione. Ne consegue che, una volta che le due sentenze di merito hanno riconosciuto, con motivazione congrua e logica, che la RAGIONE_SOCIALE aveva posto in essere una serie di operazioni finalizzate a mantenerla in vita nonostante una situazione di dissesto conclamato, manifestatosi sin dall’esercizio 2009, dalle quali era poi derivato il fallimento, il delitto de quo deve ritenersi pienamente integrato. E ciò quand’anche non sia stata dimostrata alcuna accettazione del fallimento da parte dell’imputato, a condizione ovviamente che, come avvenuto nella specie, esso sia stato causalmente determinato dalle condotte volontarie dell’imputato. Infatti, non può ragionevolmente dubitarsi che in assenza della sistematica omissione del versamento di imposte erariali e della fortissima esposizione della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE d’RAGIONE_SOCIALE, non si sarebbe giunti a un capitale sociale al di sotto del minimo legale, ovvero a quella situazione di dissesto della società che avrebbe portato alla declaratoria di fallimento.
Alla luce RAGIONE_SOCIALE considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali.
PER QUESTI MOTIVI
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali. Così deciso in data 9 aprile 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente