Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 2115 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 2115 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 29/09/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME nato a MESAGNE il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 31/10/2022 della CORTE APPELLO di LECCE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; letta la requisitoria scritta del AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO generale NOME COGNOME, il quale ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso.
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Ritenuto in fatto
Con sentenza del 31.10.2022, la Corte d’appello di Lecce ha confermato il provvedimento reso di primo grado nei confronti di NOME COGNOME, ritenuto responsabile del reato di bancarotta fraudolenta documentale, per avere -in qualità di socio ed amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Brindisi del 21.10.2010- dolosamente sottratto o distrutto i libri e le scritture contabili -segnatamente, le scritture degli anni 2005 e 2006- in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari. La decisione di primo grado è stata riformata soltanto in punto di pene accessorie fallimentari.
Avverso la sentenza, ha proposto ricorso per cassazione l’indagato, per il tramite del proprio difensore, AVV_NOTAIO, affidando le proprie censure ai tre motivi di seguito enunciati nei limiti richiesti dall’art. 173 disp. att. cod. pro pen.
2.1. Con il primo motivo, articolato in tre punti, si duole di violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione al contestato reato di bancarotta fraudolenta documentale, per avere la Corte territoriale affermato la penale responsabilità dell’imputato sulla base di prove travisate e di una motivazione contraddittoria e apodittica. In particolare, con riguardo all’attribuzione all’imputato del ruolo di amministratore di fatto, la Corte d’appello avrebbe errato nel considerare “anomale” le operazioni, compiute nell’arco dell’anno 2009, con cui le quote societarie dell’imputato e del fratello NOME COGNOME furono dapprima cedute all’anziana zia, NOME COGNOME, che divenne così amministratrice della società; quest’ultima cedeva poi la propria quota di partecipazione alla società -divenuta unipersonale- a tal NOME COGNOME. Non provata, secondo la difesa, sarebbe l’asserita finalità illecita dell’attribuzione, puramente formale, della gestione della società all’anziana parente (mera testa di legno, a parere dei Giudici d’appello), così come non provato sarebbe il ruolo di amministratore di fatto dell’imputato fino al momento della cessione della società al RAGIONE_SOCIALE. La Corte territoriale avrebbe travisato il contenuto RAGIONE_SOCIALE dichiarazioni rese dall’imputato all’interrogatorio del 4 marzo 2013, in cui quest’ultimo aveva chiarito non già di aver continuato a gestire la società, bensì soltanto di aver lavorato, quale responsabile, del punto vendita. Altresì travisato sarebbe stato il significato del disconoscimento, da parte del COGNOME, della sua dichiarazione di ricevuta dei documenti e libri contabili. A tal riguardo, la Corte d’appello avrebbe illogicamente trascurato l’ipotesi che quel disconoscimento di firma, ritenuta in effetti apocrifa dal Collegio giudicante, sia stato posto in essere dal COGNOME per garantirsi l’impunità.
Contestata, infine, è la prospettazione dei Giudici del merito circa l’elemento soggettivo del reato, riconosciuto nella forma specifica di recare pregiudizio ai creditori; a tal proposito, la difesa osserva che l’imputato non avrebbe avuto alcun interesse a celare parte della documentazione contabile, a fortiori se riferita agli anni 2005-2007, atteso che, in riferimento a quel periodo, non sono risultati operazioni anomale, sospette o idonee, in qualche modo, a recare pregiudizio ai creditori.
Col secondo motivo, articolato in due punti, si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata derubricazione della fattispecie di reato ascritta in quella di bancarotta documentale semplice. Osserva la difesa che il dolo specifico che, a parere dei Giudici del merito, avrebbe connotato la condotta dell’imputato, è stato illogicamente ravvisato, posto che quest’ultimo non svolgeva alcuna attività di gestione -neppure dal punto di vista sostanziale- nel contesto della fallita società all’epoca dei fatti contestati. A tutto voler concedere, la condotta contestata all’imputato sarebbe riferibile a mera negligenza e a imperizia.
Col terzo motivo, articolato in due punti, si eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, dato che la sottrazione o distruzione dei documenti contabili non ha arrecato alcun pregiudizio concreto al ceto creditorio.
Sono state trasmesse, ai sensi dell’art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con I. 18/12/2020, n. 176, le conclusioni scritte del AVV_NOTAIO generale, AVV_NOTAIO, il quale ha chiesto pronunciarsi il rigetto del ricorso. Si dà atto che la difesa dell’imputato ha depositato memoria scritta in replica alle conclusioni del AVV_NOTAIO AVV_NOTAIO generale.
Considerato in diritto
I primi due articolati motivi, esaminabili congiuntamente data la stretta connessione logica che li caratterizza, sono manifestamente infondati, sia perché versati in fatto e reiterativi di quanto già dedotto in appello, sia perché il ricorrente ha omesso di confrontarsi con la motivazione dell’impugnata sentenza.
Destituita di ogni fondamento è la censura di vizio motivazionale, posto che, diversamente da quanto ritenuto dalla difesa, l’intervenuta assoluzione, già in primo grado, per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non implica affatto
la mancata rilevanza penale della condotta di sottrazione o occultamento della documentazione contabile.
Se è vero infatti, come confermato dalla stessa Corte d’appello, che non è stata accertata la commissione di un’attività distrattiva da parte dell’imputato, è anche vero che le operazioni con cui, nel 2009, si realizzava la sua formale dismissione dalla veste di amministratore di diritto sono state considerate, comunque, sintomatiche di una condotta tesa a celare dolosamente parte significativa della contabilità degli anni (segnatamente degli 2005 e 2006).
A tal riguardo, la Corte territoriale ha chiarito che le varie operazioni di passaggio della società (prima all’ottuagenaria zia dell’imputato, di poi al coimputato NOME, assolto già in primo grado) erano state funzionali a perpetuare la gestione di fatto, da parte dell’imputato, della società (fino alla cessione della società al NOME, sempre nel 2009), e, dunque, di tutte le operazioni formalmente poste in essere dall’anziana parente.
Del resto, la gestione di fatto da parte dell’imputato (su cui, ex plur., v. Sez. 5, n. 39593 del 20/05/2011, Assello 250844 – 01 : «in tema di reati fallimentari, l’amministratore “di fatto” della società fallita è da ritenere gravato dell’intera gamma dei doveri cui è soggetto l’amministratore “di diritto”, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili») è stata ritenuta provata dai Giudici di merito anche sulla base RAGIONE_SOCIALE stesse dichiarazioni del NOME (il quale aveva ammesso di essersi occupato della gestione della società quale responsabile del punto vendita della stessa), secondo una ragionevole -e quindi insindacabile in questa sede- valutazione RAGIONE_SOCIALE risultanze istruttorie.
La Corte ha altresì illustrato che la prova del suo proprio convincimento è stata raggiunta sulla base di due episodi, vale a dire la delega della zia all’imputato per il ritiro, presso la GdF, della documentazione contabile, e il disconoscimento, da parte del NOME (al quale la NOME aveva ceduto la propria quota di partecipazione alla società) del documento attestante il passaggio di consegna dei libri contabili in suo possesso: documento che è stato ritenuto apocrifo dai giudici del merito.
Il tentativo del ricorrente di scardinare l’assunto accusatorio e la motivazione dell’impugnata sentenza, affermando che quel disconoscimento di firma sia stato posto in essere dal NOME per garantirsi l’impunità, è ispirato a ipotesi vaghe e del tutto congetturali, come si illustrerà di qui a poco.
Quanto alla censura vedente sull’elemento soggettivo del reato, si osserva che, al netto RAGIONE_SOCIALE generiche censure rivolte dal ricorrente alla ricostruzione sul punto offerta dal Giudice di primo grado e dell’indimostrato e congetturale assunto secondo cui altri abbiano potuto “utilizzare il NOME e il NOME come inconsapevoli
teste di legno” (p. 12 del ricorso), la motivazione dell’impugnata sentenza non mostra cadute logiche o violazioni di legge. Nel confermare la valutazione resa in primo grado, la Corte territoriale ha fatto riferimento al dolo specifico, ovvero alla condotta di sottrazione o distruzione della contabilità, condividendo, sul punto, la ricostruzione del Tribunale di Brindisi, tesa a dimostrare come l’imputato fosse l’unico reale portatore di un interesse personale a rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari, in relazione all’attività imprenditoriale caratterizzata da vorticosi trasferimenti di titolarità.
Va infine notato un difetto di specificità del ricorso, posto che i motivi d’appello si erano concentrati non tanto sulla specificità del dolo (se non in forma approssimativa, tesa a contestare il dolo tout court, sia specifico sia generico), quale analiticamente ricostruito dal giudice di primo grado, quanto sulla riconducibilità della condotta all’imputato, del quale si è contestato il ruolo di amministratore di fatto.
2. Il terzo motivo è inammissibile, posta la genericità e assenza di specificità dell’assunto difensivo, che fa leva sulla sostanziale assenza o, comunque, insignificanza, di danno patrimoniale, senza specificare in alcun modo né in che termini l’omessa tenuta dei libri contabili non abbia inciso nella quota di attivo, oggetto di riparto tra i creditori, né in che modo i creditori avrebbero potuto rivalersi tramite azioni revocatorie o altre azioni a loro tutela.
Nel ricordare come non sia stata raggiunta alcuna prova che il fatto abbia cagionato alla massa fallimentare un danno patrimoniale di speciale tenuità, la Corte, sia pure sinteticamente, ha inteso correttamente indicare che l’occultamento RAGIONE_SOCIALE scritture contabili, rendendo impossibile la ricostruzione dei fatti di gestione dell’impresa fallita, ha finito per impedire anche la stessa dimostrazione del danno causato alla massa creditoria.
A fronte di tale contestazione, la difesa avrebbe dovuto addurre specifici elementi utili a disarticolare l’altrimenti incensurabile motivazione dei Giudici dell’appello, non essendo certo possibile utilizzare la mancanza RAGIONE_SOCIALE scritture per presumere circostanze favorevoli all’imputato (Sez. 5, n. 7888 del 03/12/2018, dep. 2019, COGNOME, Rv. 275345 – 01).
Risultano, pertanto, correttamente applicati i principi indicati dal questa Corte, secondo cui «in tema di bancarotta fraudolenta documentale, l’occultamento RAGIONE_SOCIALE scritture contabili non consente l’applicazione della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità, prevista dall’art. 219, comma 3, legge fall., qualora, rendendo impossibile la ricostruzione dei fatti di gestione dell’impresa fallita, impedisca la stessa dimostrazione del danno causato alla massa creditoria in seguito all’incidenza che le condotte integranti il reato hanno avuto sulla possibilità
di esercitare le azioni revocatorie e le altre azioni poste a tutela degli interessi creditori» (Sez. 5, n. 25034 del 16/03/2023, COGNOME, Rv. 284943 – 01; Sez. 5, n. 7888 del 2019, COGNOME, Rv. 275345 – 01, cit., dove, in motivazione, la Corte ha osservato che l’occultamento RAGIONE_SOCIALE scritture contabili, rendendo impossibile la ricostruzione dei fatti di gestione dell’impresa fallita, impedisce la stessa dimostrazione del danno, onde la mancanza RAGIONE_SOCIALE scritture non può essere utilizzata per presumere circostanze favorevoli all’imputato, salvo che le contenute dimensioni dell’impresa non rendano plausibile la determinazione di un danno particolarmente ridotto).
Il Collegio dichiara, pertanto, inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e della somma di euro tremila in favore della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ammende. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen. (come modificato ex I. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese del procedimento e al versamento della somma di euro 3.000,00 in favore della RAGIONE_SOCIALE ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n.186).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e della somma di euro tremila in favore della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE ammende.
Così deciso in Roma, il 29/09/2023
Il Consigliere estensore
Il Presidente