Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 19701 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 19701 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 21/02/2025
SENTENZA
sui ricorsi proposti da: COGNOME NOME nato a PALERMO il 05/05/1950 COGNOME nato a PALERMO il 17/04/1987 COGNOME nato a PALERMO il 27/08/1985 COGNOME nato a PALERMO il 27/11/1960 COGNOME nato a PALERMO il 10/11/1962 COGNOME NOME nato a CARINI il 19/06/1979 COGNOME NOME nato a PALERMO il 25/09/1945 COGNOME NOME nato a PALERMO il 11/02/1971 COGNOME nato a PALERMO il 02/10/1968 COGNOME NOME nato a PALERMO il 26/08/1949 COGNOME NOME nato a PALERMO il 10/01/1956 COGNOME nato a PALERMO il 19/10/1987 COGNOME nato a PALERMO il 03/01/1955 COGNOME NOME nato a PALERMO il 31/01/1990 COGNOME nato a PALERMO il 18/08/1974 COGNOME nato a PALERMO il 28/02/1963 COGNOME nato a PALERMO il 11/04/1993 COGNOME nato a PALERMO il 02/09/1983 COGNOME NOME nato a PALERMO il 25/08/1975
avverso la sentenza del 09/11/2023 della CORTE di APPELLO di PALERMO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi.
uditi i difensori:
L’Avv. COGNOME si riporta a quanto dedotto nelle memorie difensive e conclude chiedendo il rigetto dei ricorsi e deposita conclusioni e nota spese.
L’Avv. NOME COGNOME NOME si riporta a quanto dedotto nelle memorie difensive e conclude chiedendo il rigetto dei ricorsi e deposita conclusioni e nota spese.
L’Avv. COGNOME COGNOME si riporta a quanto dedotto nelle memorie difensive e conclude chiedendo il rigetto dei ricorsi e deposita conclusioni e nota spese.
L’Avv. COGNOME conclude chiedendo raccoglimento dei motivi di ricorso.
L’Avv. COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’Avv. COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’Avv. NOME COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’Avv. NOME COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’Avv. NOME COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento dei motivi di ricorso.
L’Avv. COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso. L’Avv. COGNOME NOME conclude chiedendo raccoglimento del ricorso. L’Avv. COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso. L’Avv. COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso. L’Avv. COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso. L’Avv. NOME COGNOME conclude chiedendo l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La sentenza impugnata
Con sentenza emessa in data 09 novembre 2023 la Corte di appello di Palermo, riformando solo in relazione all’imputato NOME COGNOME la sentenza emessa in data 09 settembre 2021 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Palermo nei confronti di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME ha condannato:
NOME COGNOME alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione, condizionalmente sospesa, per il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., contestato al capo 22), commesso in concorso con NOME COGNOME e NOME COGNOME il 06/10/2016 e il 24/01/2017, acquisendo fittiziamente la titolarità delle quote della RAGIONE_SOCIALE in favore del Sansone, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale e di favorire operazioni di riciclaggio;
NOME COGNOME alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione per il reato di cui all’art. 512-bis, cod. pen., contestato al capo 13), esclusa l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., per avere in concorso con NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME in data 10/09/2017, attribuito fittiziamente alle due coimputate la titolarità dell’esercizio commerciale sito in Palermo INDIRIZZO al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale e di favorire operazioni di riciclaggio;
NOME COGNOME COGNOME alla pena di anni tre di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie, per il reato di cui agli artt. 512-bis, cod. pen., 416-bis.1 cod. pen., contestato al capo 15), per avere in concorso con NOME COGNOME in data 12/09/2016, attribuito fittiziamente a NOME COGNOME la titolarità dell’agenzia di scommesse sita in Palermo INDIRIZZO agendo al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale e di favorire operazioni di riciclaggio, e al fine di agevolare l’attivit di associazioni di tipo mafioso;
NOME COGNOME alla pena di anni quattordici di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie, nonché alla misura della libertà vigilata per anni cinque, per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 2, 3, 4, 6 cod. pen., contestato al capo 1), per avere fino al giugno 2019 fatto parte dell’associazione di tipo mafioso e
armata denominata “RAGIONE_SOCIALE“, in particolare dirigendone l’attività nell’ambito del mandamento di Passo di Rigano e compiendo le ulteriori attività descritte nell’imputazione, con le aggravanti di cui agli artt. 99 cod. pen. e 71 d.lgs. n. 159/2011; lo ha condannato altresì al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE, Centro Studi ed iniziative culturali RAGIONE_SOCIALE Onlus, FAIFederazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura italiane, RAGIONE_SOCIALE, Confesercenti sezione provinciale di Palermo, Associazione Nazionale per la lotta contro l’illegalità e le mafie NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE Sicilia, RAGIONE_SOCIALE Palermo;
NOME COGNOME alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione per i reati di cui all’art. 512-bis, cod. pen., contestato al capo 21), per avere acquisito fittiziamente, in favore del coimputato NOME COGNOME la titolarità di un’azienda agricola sita in località Bellolampo, il 27/03/2018, e di cui all’art. 512bis cod. pen., contestato al capo 22), commesso in concorso con NOME COGNOME e NOME COGNOME in data 24/01/2017, acquisendo fittiziamente la titolarità delle quote della RAGIONE_SOCIALE srl in favore del Sansone, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale e di favorire operazioni di riciclaggio;
NOME COGNOME alla pena di anni dieci e mesi otto di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie, nonché alla misura della libertà vigilata per anni cinque, per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 4 e 6, cod. pen., contestato al capo 2), per avere fino al giugno 2019 fatto parte dell’associazione di tipo mafioso e armata denominata “Cosa Nostra”, in particolare facendo parte della famiglia di Passo di Rigano, ponendosi a completa disposizione di NOME COGNOME e compiendo le ulteriori attività descritte nell’imputazione; lo ha condannato altresì al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE, Centro Studi ed iniziative culturali Pio La Torre Onlus, RAGIONE_SOCIALE-Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura italiane, RAGIONE_SOCIALE, Confesercenti sezione provinciale di Palermo, Associazione Nazionale per la lotta contro l’illegalità e le mafie NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE Palermo;
NOME COGNOME alla pena di anni dieci e mesi otto di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie, nonché alla misura della libertà vigilata per anni cinque, per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 4 e 6, cod. pen., contestato al capo 2), per avere fino al giugno 2019 fatto parte dell’associazione di tipo mafioso e armata denominata “Cosa Nostra”, in particolare facendo da anello di collegamento tra la famiglia mafiosa della Torretta e quella di Passo di Rigano, ponendosi a completa disposizione di NOME COGNOME e di NOME COGNOME e compiendo le ulteriori attività descritte nell’imputazione; lo ha condannato altresì
al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE e Centro Studi ed iniziative culturali Pio La Torre Onlus, RAGIONE_SOCIALE-Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura italiane, RAGIONE_SOCIALE, Confesercenti sezione provinciale di Palermo, Associazione Nazionale per la lotta contro l’illegalità e le mafie NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE Palermo;
NOME COGNOME alla pena di anni undici, mesi quattro e giorni dieci di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie nonché alla misura della libertà vigilata per anni cinque, per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 4 e 6, cod. pen., contestato al capo 2), per avere fino al giugno 2019 fatto parte dell’associazione di tipo mafioso e armata denominata “Cosa Nostra”, in particolare facendo parte della famiglia di Passo di Rigano, e compiendo le ulteriori attività descritte nell’imputazione; e per il reato di cui agli artt. 512e 416-bis.1, cod. pen., contestato al capo 18), per avere 1’11 aprile 2017, in concorso con NOME COGNOME e NOME COGNOME, intestato fittiziamente al coimputato NOME COGNOME l’agenzia di scommesse sita in Palermo INDIRIZZO agendo al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio, nonché di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso. Lo ha condannato altresì al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE, Centro Studi ed iniziative culturali Pio La Torre Onlus, FAIFederazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura italiane, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE sezione provinciale di Palermo, Associazione Nazionale per la lotta contro l’illegalità e le mafie NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE Palermo;
NOME COGNOME alla pena di anni undici e mesi quattro di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie nonché alla misura della libertà vigilata per anni cinque, per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 4 e 6, cod. pen., contestato al capo 2), per avere fino al giugno 2019 fatto parte dell’associazione di tipo mafioso e armata denominata “Cosa Nostra”, in particolare facendo parte della famiglia di Passo di Rigano, e compiendo le ulteriori attività descritte nell’imputazione; lo ha condannato altresì al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE, Centro Studi ed iniziative culturali Pio La Torre Onlus, FAIFederazione delle Associazioni RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE italiane, RAGIONE_SOCIALE, Confesercenti sezione provinciale di Palermo, Associazione Nazionale per la lotta contro l’illegalità e le mafie NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE;
NOME COGNOME alla pena di anni sedici di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie, nonché alla misura della libertà vigilata per anni cinque, per i reati di cui ai capi 1), 4) esclusa l’aggravante di cui all’art. 628, comma 3, n. 3-
bis, cod. pen., 5) limitatamente al segmento temporale dal 15/11/2017 al 30/07/2018, 10), 12), 18), 24) limitatamente al periodo fra marzo 2017 e il 18/11/2017;
condannandolo, quanto al capo 1), per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 2, 3, 4, 6 cod. pen., per avere fino al giugno 2019 fatto parte dell’associazione di tipo mafioso e armata denominata “Cosa Nostra”, in particolare dirigendone l’attività nell’ambito del mandamento di Passo di Rigano e compiendo le ulteriori attività descritte nell’imputazione, con le aggravanti di cui agli artt. 99 cod. pen. e 71 d.lgs. n. 159/2011;
quanto al capo 4), per il reato di cui agli artt. 99, 110, 629, commi 1 e 2, cod. pen., 416-bis.1 cod. pen., 71 d.lgs. n. 159/2011, commesso il 18/04/2018 in danno di NOME e NOME COGNOME;
quanto al capo 5), per il reato di cui agli artt. 99, 110, 629, commi 1 e 2, cod. pen. in relazione all’art. 628, comma 3, n. 3-bis, cod. pen., 416-bis.1 cod. pen., 71 d.lgs. n. 159/2011, commesso dal 15/11/2017 al 30/07/2018 in danno di NOME e NOME COGNOME;
quanto al capo 10), per il reato di cui agli artt. 99 cod. pen., 512-bis e 416bis.1 cod. pen., per avere il 08/11/2017, in concorso con NOME COGNOME intestato fittiziamente a quest’ultimo quote della società RAGIONE_SOCIALE agendo al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio, nonché di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso;
quanto al capo 12), per il reato di cui agli artt. 99 cod. pen., 512-bis e 416bis.1 cod. pen., per avere il 25 giugno 2018, in concorso con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, intestato fittiziamente a NOME COGNOME quote della società RAGIONE_SOCIALE agendo al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio, nonché di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso;
quanto al capo 18), per il reato di cui agli artt. 99 cod. pen., 512-bis e 416bis.1, cod. pen., per avere 111/04/2017, in concorso con NOME COGNOME e NOME COGNOME, intestato fittiziamente a NOME COGNOME la titolarità dell’agenzia di scommesse sita in Palermo INDIRIZZO agendo e al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio, nonché di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso;
quanto al capo 24), per il reato di cui agli artt. 81, comma 2, 99 cod. pen., 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, 416-bis.1 cod. pen., per avere in più occasioni, tra il marzo 2017 e il marzo 2019, violato le prescrizioni della misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno a lui applicata con decreto n. 416/03 M.P. emesso il 29/02/1984 e notificato il 18/11/2013, intrattenendo
rapporti di frequentazione diretta e indiretta con numerosi soggetti pregiudicati; agendo quale appartenente ad un’associazione di tipo mafioso e al fine di agevolare l’attività di “Cosa Nostra” sul territorio;
altresì condannandolo al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE, Centro Studi ed iniziative culturali Pio La Torre Onlus, FAIFederazione delle Associazioni RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE italiane, RAGIONE_SOCIALE, Confesercenti sezione provinciale di Palermo, Associazione Nazionale per la lotta contro l’illegalità e le mafie NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE;
NOME COGNOME alla pena di anni due e mesi due di reclusione per il reato di cui all’art. 512-bis cod.pen., contestato al capo 11), per essersi il 31 gennaio 2017, in concorso con NOME COGNOME, attribuito fittiziamente, al posto del COGNOME, la titolarità dell’impresa apparentemente operante nelle forme dell’impresa individuale denominata RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME, agendo al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio;
NOME COGNOME alla pena di anni tre di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie, per il reato di cui agli artt. 99, 512-bis e 416-bis.1 cod. pen., contestato al capo 12), per avere il 25 giugno 2018, in concorso con NOME COGNOME. NOME COGNOME e NOME COGNOME, intestato fittiziamente a NOME COGNOME quote della società RAGIONE_SOCIALE agendo al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio, nonché di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso;
NOME COGNOME alla pena di anni dieci e mesi otto di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie, nonché alla misura della libertà vigilata per anni cinque, per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 4 e 6, cod. pen., contestato al capo 2), per avere fino al giugno 2019 fatto parte dell’associazione di tipo mafioso e armata denominata “Cosa Nostra”, in particolare facendo parte della famiglia di Passo di Rigano, curando gli interessi di NOME COGNOME e compiendo le ulteriori attività descritte nell’imputazione; lo ha condannato altresì al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE, Centro Studi ed iniziative culturali Pio La Torre Onlus, RAGIONE_SOCIALE-Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura italiane, RAGIONE_SOCIALE, Confesercenti sezione provinciale di Palermo, Associazione Nazionale per la lotta contro l’illegalità e le mafie NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE Palermo;
NOME COGNOME alla pena di anni due e mesi due di reclusione per il reato di cui all’art. 512-bis, cod. pen., contestato al capo 13), esclusa l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., per essersi, in concorso con NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME, in data 10/09/2017,
attribuita fittiziamente la titolarità dell’esercizio commerciale sito in Palermo INDIRIZZO al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale e di favorire operazioni di riciclaggio.
NOME COGNOME ritenuta la continuazione con i reati di cui alla sentenza emessa dalla Corte di appello di Palermo in data 02 aprile 2012, irrevocabile in data 12 novembre 2012, alla pena di anni diciotto e mesi sei di reclusione (di cui anni dodici e mesi quattro di reclusione per i reati giudicati in questo processo), e alle relative sanzioni accessorie, nonché alla misura della libertà vigilata per anni cinque, per i reati di cui ai capi 2), 11), 13) esclus l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., e 18) dell’imputazione;
condannandolo, quanto al capo 2), per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 4 e 6, cod. pen., per avere fino al giugno 2019 fatto parte dell’associazione di tipo mafioso e armata denominata “Cosa Nostra”, in particolare facendo parte della famiglia di Passo di Rigano, quale collaboratore di NOME COGNOME, e compiendo le ulteriori attività descritte nell’imputazione;
quanto al capo 11), per il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., per avere il 31 gennaio 2017, in concorso con NOME COGNOME intestato fittiziamente a quest’ultimo la titolarità dell’impresa apparentemente operante nelle forme dell’impresa individuale denominata RAGIONE_SOCIALE di COGNOME NOME, agendo al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio;
quanto al capo 13), per il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., per avere in data 10/09/2017, in concorso con NOME COGNOME, NOME COGNOME e ad NOME COGNOME, intestato fittiziamente alle due coimputate l’esercizio commerciale sito in Palermo INDIRIZZO al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale e di favorire operazioni di riciclaggio;
quanto al capo 18), per il reato di cui agli artt. 99 cod. pen., 512-bis e 4166/5.1 cod. pen., per avere in data 11 aprile 2017, in concorso con NOME COGNOME e NOME COGNOME, intestato fittiziamente a NOME COGNOME la titolarità dell’agenzia di scommesse sita in Palermo INDIRIZZO agendo al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio, nonché di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso.
Altresì condannandolo al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE, Centro Studi ed iniziative culturali RAGIONE_SOCIALE, FAIFederazione delle Associazioni RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, Confesercenti Provincia di Palermo, Associazione Nazionale per la lotta contro l’illegalità e le mafie NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE;
NOME COGNOME alla pena di anni undici e mesi sei di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie, nonché alla misura della libertà vigilata per anni cinque, per i reati di cui ai capi 2), 12), 15) e 16);
condannandolo, quanto al capo 2), per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 4 e 6, cod. pen., per avere fino al giugno 2019 fatto parte dell’associazione di tipo mafioso e armata denominata “Cosa Nostra”, in particolare rappresentando e curando gli interessi economici della famiglia di Passo di Rigano, quale collaboratore di NOME COGNOME, e compiendo le ulteriori attività descritte nell’imputazione;
quanto al capo 12), per il reato di cui agli artt. 512-bis e 416-bis.1 cod. pen., per avere il 25 giugno 2018, in concorso con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, intestato fittiziamente a NOME COGNOME quote della società RAGIONE_SOCIALE agendo al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio, nonché di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso;
quanto al capo 15), per il reato di cui agli artt. 512-bis e 416-bis.1 cod. pen., per avere il 12 settembre 2016, in concorso con NOME COGNOME, attribuito fittiziamente a NOME COGNOME la titolarità dell’agenzia di scommesse sita in Palermo INDIRIZZO agendo al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale e di favorire operazioni di riciclaggio, e al fine di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso;
quanto al capo 16), per il reato di cui agli artt. 4, comma 4-bis legge n. 401/1989 e 416-bis.1, cod. pen., per avere, come accertato il 21 febbraio 2017, in concorso con NOME COGNOME e NOME COGNOME, separatamente giudicati, svolto presso il centro scommesse sito in Palermo INDIRIZZO in assenza di autorizzazioni, un’attività organizzata per la raccolta di scommesse per via telematica collegate a siti internet di bookmakers stranieri non autorizzati ad operare in Italia, agendo avvalendosi del metodo mafioso e al fine di agevolare l’attività di associazioni di tipo mafioso.
Altresì condannandolo al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE, Centro Studi ed iniziative culturali Pio La Torre Onlus, FAIFederazione delle Associazioni RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE italiane, RAGIONE_SOCIALE, Confesercenti sezione provinciale di Palermo, Associazione Nazionale per la lotta contro l’illegalità e le mafie NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE Palermo;
NOME COGNOME alla pena di anni due e mesi due di reclusione per il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., contestato al capo 13), esclusa l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., per essersi, in concorso con NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME in data 10/09/2017, attribuita
fittiziamente la titolarità dell’esercizio commerciale sito in Palermo INDIRIZZO al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale e di favorire operazioni di riciclaggio;
NOME COGNOME alla pena di anni undici e mesi otto di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie nonché alla misura della libertà vigilata per anni cinque, per i reati di cui ai capi 2), 21) e 22) dell’imputazione;
condannandolo, quanto al capo 2), per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 4 e 6, cod. pen., per avere fino al giugno 2019 fatto parte dell’associazione di tipo mafioso e armata denominata “Cosa Nostra”, in particolare quale appartenente alla famiglia di COGNOME, e compiendo le ulteriori attività descritte nell’imputazione;
quanto al capo 21), per il reato di cui agli artt. 99 e 512-bis cod. pen., per avere il 27 marzo 2018, in concorso con NOME COGNOME, intestato fittiziamente a quest’ultima la titolarità di un’azienda agricola sita in localit Bellolampo, agendo al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio;
quanto al capo 22), per il reato di cui agli artt. 99 e 512-bis cod. pen., per avere il 06/10/2016 e il 24/01/2017, in concorso con NOME COGNOME e NOME COGNOME, intestato fittiziamente a queste ultime, con due operazioni negoziali, la titolarità delle quote della RAGIONE_SOCIALE al fine di eludere le disposizioni d legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale e di favorire operazioni di riciclaggio.
Altresi condannandolo al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE, Centro Studi ed iniziative culturali Pio La Torre Onlus, FAIFederazione delle Associazioni RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE italiane, RAGIONE_SOCIALE, Confesercenti sezione provinciale di Palermo, Associazione Nazionale per la lotta contro l’illegalità e le mafie NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE Palermo;
NOME COGNOME alla pena di anni dodici di reclusione, e alle relative sanzioni accessorie, nonché alla misura della libertà vigilata per anni cinque, per i reati di cui ai capi 2), 10), 12), 23) limitatamente alla detenzione della pistola cal. 38;
condannandolo, quanto al capo 2), per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 1, 4 e 6, cod. pen., per avere fino al giugno 2019 fatto parte dell’associazione di tipo mafioso e armata denominata “Cosa Nostra”, in particolare appartenendo alla famiglia di Passo di Rigano, quale collaboratore di NOME COGNOME, e compiendo le ulteriori attività descritte nell’imputazione;
quanto al capo 10), per il reato di cui agli artt. 512-bis e 416-bis.1 cod. pen., per essersi il 08 novembre 2017, in concorso con NOME COGNOME
intestato fittiziamente quote della società RAGIONE_SOCIALE agendo al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio, nonché di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso;
quanto al capo 12), per il reato di cui agli artt. 512-bis e 416-bis.1 cod. pen., per avere il 25 giugno 2018, in concorso con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, intestato fittiziamente a NOME COGNOME quote della società RAGIONE_SOCIALE agendo al fine di eludere misure di prevenzione patrimoniale e favorire operazioni di riciclaggio, nonché di agevolare l’attività di un’associazione di tipo mafioso;
quanto al capo 23), per il reato di cui agli artt. 2 e 7 legge n. 895/1967 e 416-bis.1 cod. pen., per avere, come accertato nel maggio 2019, detenuto illegalmente una pistola cal. 38, agendo avvalendosi del metodo mafioso e al fine di agevolare l’attività dell’associazione di tipo mafioso “Cosa Nostra”.
Altresì condannandolo al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili RAGIONE_SOCIALE sezione provinciale di Palermo, Associazione Nazionale per la lotta contro l’illegalità e le mafie NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE Sicilia, RAGIONE_SOCIALE Palermo.
2. La Corte di secondo grado, valutando in primo luogo le questioni comuni poste dai vari appellanti, ha ribadito la sussistenza della condotta di partecipazione ad un’associazione mafiosa riportandosi, per l’inquadramento della fattispecie, alle questioni di diritto affrontate dalla sentenza Sez. U, n. 36958 del 27/05/2021, COGNOME. Ha inoltre ribadito la sussistenza, a carico di tutti gli imputati a cui sono contestate, delle aggravanti di cui al quarto e al sesto comma dell’art. 416-bis cod. pen., in quanto tutti i relativi imputati sono accusati di partecipare all’associazione “RAGIONE_SOCIALE“, sia pure quali affiliati a singole famiglie, ed è ormai un dato notorio, storicamente e giuridicamente acquisito, quello della struttura piramidale di tale consorteria criminale, struttura che la sentenza impugnata, peraltro, ha ribadito. La sussistenza della natura armata dell’associazione di appartenenza e del finanziamento delle attività economiche con il riciclaggio dei proventi dei delitti deve essere verificata, perciò, facendo riferimento non alle singole famiglie, ma alla struttura nella sua interezza. La Corte di appello ha in particolare ribadito, richiamando il principio dettato da Sez. U, n. 25191 del 27/02/2014, COGNOME, la natura oggettiva dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen. e la sua sussistenza come fatto notorio, essendo il finanziamento di attività economiche mediante i proventi illeciti dei vari delitti un’attività tipica di “Cosa Nostra”, peraltro dimostrata anche in questo processo, in cui è stata accertata l’acquisizione di numerose attività commerciali in vari settori, compiuta dai singoli imputati. Ha confermato la sussistenza
dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen. deducendo la disponibilità di armi e la conoscenza della natura armata dell’associazione, oltre che dal fatto notorio, dalla condanna di COGNOME in questo processo per il possesso di una pistola, e dalle condanne già riportate da numerosi coimputati per analoghe condotte o per delitti commessi con l’uso di armi da fuoco.
Esaminando, poi, le posizioni dei singoli imputati, ha confermato la responsabilità di NOME COGNOME per tutti i reati a lui ascritti.
Quanto all’accusa di partecipazione a Cosa Nostra con posizione di vertice nella famiglia di Passo di Rigano, mantenuta quanto meno sino alla scarcerazione di NOME COGNOME la Corte ha ribadito la credibilità dei vari collaboratori di giustizia, riesaminando in modo dettagliato le loro dichiarazioni, e l’interpretazione delle intercettazioni più significative, respingendo le eccezioni di inutilizzabilità di queste ultime per le medesime ragioni esposte dal giudice di primo grado. In merito al reato a lui ascritto al capo 1), ha perciò ribadito la sussistenza di prove attestanti il suo ruolo dirigenziale e la sussistenza delle aggravanti di cui all’art. 416-bis, commi 4 e 6, cod. pen.
Ha confermato la sussistenza del delitto di estorsione contestato al capo 4) e di quello contestato al capo 5), ritenendo provato, dalle intercettazioni richiamate, che in entrambi gli episodi l’COGNOME è intervenuto, forte del prestigio quale reggente della famiglia di Passo di Rigano, per appianare il contrasto con altra famiglia mafiosa, ribadendo le competenze territoriali di ciascuna nel campo delle estorsioni ed agendo anche a tutela degli interessi della propria famiglia.
Ha confermato la sussistenza del delitto contestato al capo 10), con la relativa aggravante, anch’esso provato non solo dalla proprietà dell’COGNOME sull’immobile in cui aveva sede l’attività commerciale in questione, ma soprattutto da quanto emergente dalle intercettazioni.
Ha confermato la sussistenza del delitto contestato al capo 12), con la relativa aggravante, ritenendolo provato dalle intercettazioni dettagliatamente esaminate dal giudice di primo grado.
Ha confermato la sussistenza del delitto contestato al capo 18), con la relativa aggravante, ritenendo anch’esso provato dalle intercettazioni.
Infine ha ribadito la sussistenza del reato contestato al capo 24), ritenendo integrato il requisito dell’abitualità di frequentazione con soggetti pregiudicati per il numero degli incontri, la caratura criminale dei soggetti incontrati, le cautele adottate nelle varie occasioni.
Anche i motivi di appello relativi alla concessione delle attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio sono stati respinti.
3.1. La sentenza impugnata ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per il reato a lui ascritto al capo 1) ritenendo provata, dall’esame complessivo di tutte le intercettazioni specificamente indicate, dagli incontri con i sodali, tra cui in particolare NOME COGNOME e dalle dichiarazioni di vari collaboratori di giustizia, la sua attiva partecipazione al sodalizio, ripresa immediatamente dopo la fine della sua lunga detenzione. Ha ritenuto altresì provato il ruolo direttivo da lui assunto all’interno della famiglia di Passo di Rigano, attraverso le intercettazioni esaminate già dal giudice di primo grado, da interpretare in modo non parcellizzato, e attraverso le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia circa la sua partecipazione alle riunioni di vertice, i parte riscontrate dalle stesse intercettazioni. Ha respinto i motivi di appello relativi al trattamento sanzionatorio. Ha invece accolto l’appello con riferimento alla disposta confisca della somma di euro 18.805,00, rinvenuta durante la perquisizione nella camera da letto della figlia, ed ha revocato detta misura, ritenendo non provata l’appartenenza di quel denaro all’imputato, essendo compatibile con le entrate registrate dalla pizzeria gestita dai suoi figli.
3.2. La sentenza impugnata ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per il reato a lui ascritto al capo 2), ritenendo provata, dall’esame complessivo di tutte le intercettazioni, che la Corte nuovamente ha indicato ed esaminato, e dalle dichiarazioni di vari collaboratori di giustizia, la sua partecipazione al sodalizio criminoso costituito dalla famiglia di Passo di Rigano, mettendosi a disposizione per compiere le più svariate attività, soprattutto eseguendo le direttive di NOME COGNOME.
3.3. La sentenza ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per il reato a lui ascritto al capo 2). In primo luogo ha respinto l’eccezione di inutilizzabilità degli atti di indagine acquisiti successivamente al 09/10/2019, che questo ricorrente afferma essere il termine di scadenza delle indagini a suo carico, sia ritenendo correttamente disposte le varie proroghe e l’ultimo aggiornamento, sia richiamando l’indirizzo giurisprudenziale circa la non rilevabilità di tale vizio a seguito della scelta di procedere con il rito abbreviato Quindi ha respinto nuovamente la richiesta di rinnovazione istruttoria, riportandosi all’ordinanza in atti. Ha ritenuto provata la responsabilità di questo imputato dall’esame complessivo di tutte le intercettazioni, in molte quali lo stesso ricorrente è il soggetto intercettato, dettagliatamente esaminate e interpretate in modo conforme al giudice di primo grado, valutando irrilevante il fatto che egli non sia menzionato da alcun collaboratore di giustizia come appartenente al sodalizio criminoso, ritenendo tale circostanza dovuta
all’appartenenza di questi ultimi ad altri gruppi mafiosi, oppure alla risalenza nel tempo della loro collaborazione, o infine dovuta all’essere, i collaboratori, dei soggetti ai vertici delle rispettive associazioni, e perciò intrattenenti rapporti solo con i pari grado. Come per gli altri appellanti, ha respinto tutti i motivi relativi trattamento sanzionatorio.
3.4. La sentenza impugnata ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per i due reati a lui ascritti ai capi 2) e 18).
In primo luogo ha ritenuto provata la sua partecipazione al sodalizio criminoso costituito dalla famiglia di Passo di Rigano, in particolare gestendo il settore delle scommesse, come contestato al capo 2), dalle varie conversazioni intercettate, valutando significativi anche gli scambi di informazioni, gli incontri e le frequentazioni di soggetti affiliati a clan mafiosi, quanto meno come riscontro alle predette conversazioni. Ha ritenuto costituire dei riscontri anche le dichiarazioni dei collaboratori COGNOME e COGNOME di cui la sentenza ha ribadito l’attendibilità, respingendo le censure del ricorrente.
In merito al reato contestato al capo 18), inoltre, la Corte ha ribadito la sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo, essendo sufficiente, per la finalità elusiva, che l’autore possa presumere l’avvio di un procedimento di prevenzione, e la sussistenza dell’aggravante della finalità di agevolare il clan mafioso, deducibile da molte delle conversazioni intercettate e dal fatto che l’attività dell’agenzia di scommesse poteva svolgersi solo sotto le direttive del capomafia.
Infine la Corte ha respinto tutti i motivi di appello subordinati, relativi a trattamento sanzionatorio e alla confisca disposta sull’immobile sito in Torretta, località INDIRIZZO.
3.5. La sentenza impugnata ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per il reato a lui ascritto al capo 2), ritenendo provata, dall dichiarazioni dei collaboratori NOME COGNOME e NOME COGNOME che la Corte nuovamente ha valutato quanto a credibilità e rilevanza, la sua persistente partecipazione al sodalizio criminoso, sia pure limitatamente alla famiglia di Passo di Rigano, potendo egli operare solo all’interno di tale famiglia e del suo mandamento. Secondo la Corte tali dichiarazioni si riscontrano a vicenda, ed anche le intercettazioni le riscontrano e confermano la partecipazione al sodalizio di questo imputato, sia quelle in cui il cugino NOME COGNOME si rivolge ad esponenti qualificati per rimuovere la limitazione applicata all’imputato, sia quelle dalle quali si ricava il contributo da lui fornito all’associazione, e che vengono nuovamente indicate ed esaminate, deducendo da esse anche il necessario dolo.
La sentenza ha ribadito altresì la rilevanza e significatività delle frequentazioni di questo imputato con altri sodali, sia per la loro non occasionalità, sia per gli accorgimenti impiegati, che fanno escludere una loro natura del tutto lecita.
La Corte di appello ha poi escluso l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 114 cod. pen., conformandosi sul punto alla giurisprudenza di legittimità relativa all’appartenenza ad associazioni criminali nel caso di connpresenza di oltre cinque persone, ed ha respinto ogni altra doglianza, in merito al trattamento sanzionatorio, alla legittimazione delle parti civili alla costituzione, e al utilizzabilità delle indagini svolte dopo il decorso del tempo da cui il nome dell’imputato avrebbe dovuto essere iscritto nel registro degli indagati, respingendo anche una richiesta di sollevare una questione di legittimità costituzionale degli artt. 335, 405 e 407 cod. proc. pen.
3.6. La sentenza ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per il reato a lui ascritto al capo 2). Premesso il rigetto dell’eccezione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio per il mancato espletamento dell’interrogatorio ex art. 415-bis cod. proc. pen., perché depositata nel termine di legge, il giorno prima dell’arrivo della raccomandata contenente la richiesta di interrogatorio, ha ritenuto provata la partecipazione di questo imputato alla famiglia di Passo di Rigano, occupandosi in particolare delle questioni economiche, dalle intercettazioni, anche in questo caso nuovamente valutate e interpretate conformemente alla sentenza di primo grado. Le dichiarazioni del collaboratore NOME COGNOME di cui è stata ribadita la utilizzabilità, sono state ritenu confermative delle prove costituite dalle intercettazioni.
Sono state respinte, infine, le doglianze relative al trattamento sanzionatorio.
3.7. La sentenza impugnata ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per tutti i reati a lui ascritti. Anche in questo caso la Corte ha respinto il motivo di appello relativo all’asserita inutilizzabilità delle indagini svolte dopo l scadenza dei termini per la mancanza del decreto di riapertura delle indagini, trattandosi di inutilizzabilità fisiologica che il giudice dell’udienza preliminare non ha l’obbligo di rilevare prima dell’ammissione al rito abbreviato ed essendo tale eccezione, peraltro, infondata nel merito.
Ha quindi ritenuto provata la sussistenza del reato di cui al capo 2), per il periodo successivo ad una precedente condanna per il delitto di cui all’art. 416bis cod. pen., dalle intercettazioni indicate, nuovamente interpretate e valutate, dalle frequentazioni con vari esponenti mafiosi di spicco, ritenute significative per
la loro non occasionalità e per gli accorgimenti impiegati per occultarle, dalle dichiarazioni del collaboratore COGNOME relative al periodo in contestazione.
Ha poi ritenuto provata la responsabilità di questo imputato, per il reato contestato al capo 11), dalle intercettazioni, ribadendone la utilizzabilità nonostante l’esclusione dell’aggravante della finalità mafiosa, essendo il delitto connesso a quello di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, e ritenendole indirettamente riscontrate dal collaboratore COGNOME quanto all’essere la ditta RAGIONE_SOCIALE in mano alla famiglia di Passo di Rigano.
Infine ha ritenuto provata la sua responsabilità per i reati di cui ai capi 13) e 18) dalle intercettazioni, ribadendone la utilizzabilità per la medesima ragione già esposta a proposito del reato di cui al capo 11); per il reato di cui al capo 18) la sentenza ha confermato anche la sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione del clan mafioso, sempre ritenendola provata dal contenuto delle intercettazioni.
La Corte ha respinto la richiesta di concessione delle attenuanti generiche, ma ha accolto nel resto la doglianza sul trattamento sanzionatorio, ritenendo i reati uniti per continuazione con quelli di altra sentenza, e ricalcolando, conseguentemente, la pena complessiva.
3.8. La sentenza ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per tutti i reati a lui ascritti.
Ha, in primo luogo, ritenuto provata la sussistenza del reato di cui al capo 2), anche quanto al dolo di partecipare all’attività di un clan mafioso, dalle intercettazioni indicate, nuovamente interpretate e valutate, confermate dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME ritenute chiare quanto alla caratura mafiosa di questo imputato e alla sua appartenenza alla famiglia di Passo di Rigano; sono state ritenute probanti anche le frequentazioni con vari esponenti mafiosi di spicco, la cui finalità, come deducibile dalle intercettazioni, dimostra che non si trattava di mere riunioni tra parenti e conoscenti.
La Corte ha ritenuto provata anche la sussistenza dei reati di cui ai capi 12) e 15) dalle numerose intercettazioni, da esaminare sempre nella loro interezza e nel loro complesso e non in base a singole frasi estrapolate, in particolare affermando, alla luce dei principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità in merito al reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., che la sua condotta non è consistita nella mera amministrazione di una società, ma nella costituzione di nuove società intestate fittiziamente a terzi, nelle quali è provato l’investimento di risorse da parte del Militello e la sua conseguente partecipazione agli introiti. Ha ritenuto provata, infine, la sussistenza del reato di cui al capo 16), in quanto relativo all’attività svolta con l’agenzia di scommesse non autorizzata di cui al
capo 15). Per questi tre reati-fine ha ritenuto provata anche la sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione di un clan mafioso, deducibile sia dal fatto che il settore delle scommesse era gestito dalla famiglia di Passo di Rigano e interessava direttamente lo stesso NOME COGNOME, sia dal contenuto di una intercettazione espressamente riportata.
Sono stati respinti, infine, tutti i motivi relativi al trattamento sanzionatori all’applicazione della misura di sicurezza, alla legittimazione delle parti civili e alle confische disposte a carico di questo imputato, ribadendo, per queste ultime, la sussistenza della sproporzione reddituale e il contenuto di alcune conversazioni intercettate a carico del coimputato COGNOME in merito alla illecita provenienza del denaro investito.
3.9. La sentenza ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per tutti i reati a lui ascritti. Anche per questo appellante la Corte ha respinto l’impugnazione relativa all’asserita inutilizzabilità delle indagini svolte dopo la scadenza dei termini, mancando il decreto di riapertura delle indagini, per le medesime ragioni esposte nel respingere l’eccezione formulata dall’imputato NOME COGNOME evidenziando peraltro che non sono stati utilizzati, per la decisione, gli atti che la difesa sosteneva essere inutilizzabili, specificamente indicati.
Ha quindi ritenuto provata la sussistenza del reato di cui al capo 2) dalle dichiarazioni di collaboratori di giustizia quali NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, ritenute tutte significative, anche se di contenuto e spessore diverso, e tutte credibili, analizzando le contrarie deduzioni difensive e respingendole, e ribadendo la sussistenza di riscontri esterni alle propalazioni, consistenti sia nelle dichiarazioni del collaboratore NOME COGNOME sia in una conversazione tra la coimputata COGNOME e NOME COGNOME figlio del prevenuto, confermativa dell’appartenenza a quest’ultimo dell’azienda agricola fittiziamente intestata alla donna, sia nell’accertata partecipazione del COGNOME a varie riunioni con altri mafiosi o addirittura con soggetti al vertice di alt mandamenti di Cosa Nostra, sia infine in alcune intercettazioni a carico di terzi.
La Corte di appello ha ritenuto provata la responsabilità di questo imputato, anche per i reati contestati ai capi 21) e 22), dalle intercettazioni, ribadendone la utilizzabilità, nonostante l’assenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., essendo tali delitti connessi a quello di partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso. Ha ritenuto, in particolare, che le intercettazioni dimostrino il coinvolgimento del Sansone nelle attività intestate alla Cascavilla e alla Argano, sia quanto alla diretta gestione delle stesse, sia quanto all’investimento in esse di proprie risorse economiche per la loro costituzione, percependone poi gli utili,
condotte idonee a dimostrare anche il necessario dolo specifico, essendo egli già condannato per il delitto di associazione di tipo mafioso e sottoposto ad una misura di prevenzione personale.
Infine la Corte ha respinto tutti i motivi relativi alla esclusione della recidiva della misura di sicurezza e del risarcimento disposto in favore delle parti civili nonché, in generale, al trattamento sanzionatorio.
3.10. La sentenza ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per tutti i reati a lui ascritti.
Previo il rigetto della richiesta di accogliere le eccezioni respinte dal giudice di primo grado, valutata come inammissibile per difetto di specificità, la Corte di appello ha ritenuto provata la sussistenza del reato di cui al capo 2) dall’esame congiunto di tutti gli elementi probatori, anche di quelli emersi a carico dei coimputati, i quali dimostrano che i rapporti di questo imputato con NOME COGNOME e altri soggetti mafiosi, compreso il cugino americano NOME COGNOME andavano al di là dei meri legami parentali. Secondo la sentenza le intercettazioni indicate, nuovamente interpretate e valutate, dimostrano che lo COGNOME partecipava alle attività economiche che interessavano la famiglia di Passo di Rigano, anche investendo capitali propri ovvero provenienti da Cosa Nostra americana, interagendo con suo suocero NOME COGNOME, del quale spesso eseguiva ordini diretti, anche accompagnandolo ad incontri riservati e, talvolta, partecipandovi insieme a lui.
Ha poi ritenuto provata la responsabilità di questo imputato per il reato contestato al capo 10), comprensivo dell’aggravante dell’agevolazione di un clan mafioso, dalle intercettazioni che, lette congiuntamente e per intero, secondo i giudici dimostrano che lo COGNOME era un socio della srls RAGIONE_SOCIALE e partecipava alla sua gestione, secondo le direttive di NOME COGNOME, condotta idonea a dimostrare anche la sua consapevolezza e volontà di occultare, in tale modo, la riferibilità della società a quest’ultimo, al fine di impedire la sua probabile sottoposizione a misure ablative.
Anche la sua responsabilità per il reato di cui al capo 12), compresa l’aggravante dell’agevolazione di un clan mafioso, è stata ritenuta provata dalle intercettazioni, attestanti il suo diretto coinvolgimento nel possesso delle quote e nella gestione della RAGIONE_SOCIALE, e quella per il reato di cui al capo 23) è stata ritenuta dimostrata dalla conversazione intercettata in data 06/08/2018, che la sentenza nuovamente valuta alla luce delle contestazioni difensive, affermando esplicitamente l’irrilevanza del mancato reperimento della pistola in essa citata.
Infine la Corte ha respinto tutti i motivi di appello subordinati, relativi all concessione delle attenuanti generiche, al trattamento sanzionatorio, alla riqualificazione del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. in quello di cui all’a 379 cod. pen.
La Corte ha separatamente respinto i motivi di appello aggiunti, con i quali lo COGNOME chiedeva nuovamente l’assoluzione dal delitto di cui al capo 2), attraverso una ulteriore valutazione delle intercettazioni evidenziate in tali motivi nuovi, e con i quali egli chiedeva la riqualificazione del reato di cui all’art. 416-bi cod. pen. in quello di cui all’art. 378 cod. pen., l’esclusione dell’aggravante dell’agevolazione di un clan mafioso, l’esclusione della misura di sicurezza.
3.11. La sentenza ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per il reato a lui ascritto al capo 11), commesso in concorso con NOME COGNOME intestandosi fittiziamente la ditta individuale RAGIONE_SOCIALE Preliminarmente la Corte ha respinto il motivo di appello relativo all’inutilizzabilità delle intercettazioni, la connessione tra il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. e quello di cui all’ar 416-bis cod. pen. accertato a carico del predetto coimputato, ed ha pertanto ritenuto provata la reale appartenenza della NOME al COGNOME dalle intercettazioni già valutate a carico di quest’ultimo, esaminate anche alla luce delle censure avanzate dall’imputato COGNOME ritenendole riscontrate dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia COGNOME.
Infine la Corte ha respinto tutti i motivi relativi alla concessione delle attenuanti generiche, al trattamento sanzionatorio, alla revoca della confisca dell’azienda.
3.12. La sentenza ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per il reato a lui ascritto al capo 12), commesso in concorso con NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME intestando fittiziamente a NOME COGNOME quote della srls RAGIONE_SOCIALE Anche in questo caso, preliminarmente la Corte ha respinto il motivo di appello relativo all’inutilizzabilità delle intercettazioni, la connessione tra il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. e quello di cui all’ar 416-bis cod. pen. accertato a carico dei predetti coimputati, ed ha pertanto ritenuto provata la responsabilità del COGNOME dalle intercettazioni già richiamate nel valutare la posizione di costoro, esaminate anche alla luce delle censure avanzate da questo imputato e ritenute probanti anche del necessario elemento soggettivo. Ha ritenuto provata anche la sussistenza dell’aggravante della finalità di agevolare un’associazione mafiosa, richiamando la motivazione esposta per i coimputati, e infine ha respinto tutti i motivi relativi alla concessione dell attenuanti generiche, all’esclusione della recidiva e al trattamento sanzionatorio.
3.13. La sentenza ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME di NOME COGNOME e di NOME COGNOME per il reato loro ascritto al capo 13), commesso in concorso con NOME COGNOME intestando fittiziamente alle due donne l’esercizio commerciale sito in Palermo INDIRIZZO, esaminando congiuntamente i loro appelli, stante l’analogia dei rispettivi motivi.
Anche in questo caso la principale fonte di prova è stata indicata nelle intercettazioni, richiamate per respingere le specifiche doglianze di questi imputati, ribadendo la necessità di una loro lettura complessiva e non parcellizzata dalla quale, secondo i giudici, risulta dimostrata l’ingerenza di NOME COGNOME e la qualità di quest’ultimo e del COGNOME di soci occulti dell’attività. Dalle medesime intercettazioni la Corte ha dedotto anche la sussistenza, in tutti e tre gli imputati, del dolo specifico richiesto dall’art. 512-b cod. pen. E’ stata respinta anche la richiesta di assoluzione di NOME COGNOME e della COGNOME per l’asserita non punibilità del concorrente necessario, richiamando, sul punto, la giurisprudenza di legittimità.
Per tutti e tre gli imputati, infine, la Corte ha respinto i motivi relativi a concessione delle attenuanti generiche, al trattamento sanzionatorio e alla revoca delle confische disposte sui conti correnti personali.
3.14. La sentenza ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per il reato a lui ascritto al capo 15), commesso in concorso con NOME COGNOME, operando da intermediario per attribuire fittiziamente a NOME COGNOME la titolarità dell’agenzia di scommesse sita in Palermo INDIRIZZO Anche in questo caso la Corte ha ritenuto provato il coinvolgimento, l’apporto causale e il dolo specifico di questo imputato dalle intercettazioni già richiamate nel valutare la posizione del coimputato, ribadendo la necessità di una loro lettura complessiva e non parcellizzata ed esaminandole nuovamente alla luce delle censure avanzate. Ha ritenuto provata anche la sussistenza dell’aggravante della finalità di agevolare un’associazione mafiosa, richiamando la motivazione relativa al coimputato, e infine ha respinto tutti i motivi relativi alla omessa concessione delle attenuanti generiche e della sospensione condizionale, e al trattamento sanzionatorio.
3.15. La sentenza ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per i reati a lei ascritti ai capi 21) e 22), commessi in concorso con NOME COGNOME e, quello di cui al capo 22), anche con NOME COGNOME. Preliminarmente la Corte ha respinto l’eccezione di nullità dell’avviso di conclusione delle indagini e di tutti gli atti successivi per la mancata iscrizione della donna nel registro degli
indagati, anche ritenendo insussistente la violazione dei suoi diritti difensivi, e ha respinto l’eccezione di inutilizzabilità nei suoi confronti delle intercettazion eseguite a carico del Sansone dopo la scadenza del termine di durata delle indagini preliminari, ribadendo trattarsi di una inutilizzabilità non patologica. Ha, quindi, ritenuto provata la responsabilità dell’imputata dalle intercettazioni già richiamate nel valutare la posizione del Sansone, dalle quali emerge, secondo i giudici, che quest’ultimo gestiva direttamente l’azienda agricola, nella quale aveva investito il proprio denaro, ed aveva interamente sostenuto le spese della srl RAGIONE_SOCIALE, occupandosi anche di specifici aspetti della sua gestione. Ha ritenuto provata anche la sussistenza del necessario dolo dell’imputata, deducendola dalla complessiva attività svolta e dal suo stretto rapporto con il Sansone, ed ha infine respinto tutti i motivi relativi alla confisca dell’azienda agricola, all’omessa concessione delle attenuanti generiche e della sospensione condizionale, e al trattamento sanzionatorio.
3.16. La sentenza ha ribadito la responsabilità di NOME COGNOME per il reato a lei ascritto al capo 22), commesso in concorso con NOME COGNOME e NOME COGNOME intestandosi fittiziamente le quote della srl RAGIONE_SOCIALE Come nella motivazione relativa alla coimputata, la Corte ha respinto l’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni e delle indagini acquisite da al procedimenti o svolte a carico del COGNOME dopo la scadenza del termine di durata delle indagini preliminari, ribadendo trattarsi di una inutilizzabilità non patologica. Ha ritenuto provato il coinvolgimento dell’imputata dalle intercettazioni già richiamate nel valutare la posizione del COGNOME, dalle quali ha ritenuto emergere che quest’ultimo ha sostenuto interamente le spese della società e ne ha curato la gestione, ed ha ritenuto provata anche la sussistenza del necessario dolo dell’imputata, deducendola dal suo rapporto affettivo con il COGNOME e da un’intercettazione in cui la figlia della stessa si mostrava consapevole della natura illecita degli affari in cui la madre era coinvolta, e consapevole della fama criminale del Sansone.
Anche per questa imputata la Corte ha respinto tutti i motivi relativi all’omessa concessione delle attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio.
I ricorsi dei singoli imputati
Avverso la sentenza hanno proposto ricorso tutti gli imputati, i cui ricorsi, riassunti nei limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen., vengono esaminati secondo l’ordine di trattazione delle rispettive posizioni seguito nella sentenza impugnata.
NOME COGNOME condannato a sedici anni di reclusione per i delitti di cui ai capi 1), 4), 5), 10), 12), 18) e 24), con le limitazioni ed esclusioni gi indicate, ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando dieci motivi.
5.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in relazione alla valutazione di utilizzabilità delle intercettazioni per il mancato inserimento nel TIAP dei verbali previsti dall’art. 268 cod. proc. pen. La mancanza dei verbali di inizio e chiusura delle relative operazioni comporta la loro inutilizzabilità patologica, deducibile quindi anche nel corso del giudizio abbreviato: sono, pertanto, inutilizzabili le operazioni eseguite sulla base dei decreti autorizzativi n. 1107/2017 e n. 1216/2017, come eccepito all’udienza di discussione del giudizio di primo grado. La decisione contraria dei giudici di merito è errata, anche perché detti verbali sono stati acquisiti senza disporre un’integrazione istruttoria e in assenza di contraddittorio, per cui i giudici hanno utilizzato, per la decisione, prove non presenti nel fascicolo e non acquisite nel contraddittorio.
Inoltre il risultato delle intercettazioni è inutilizzabile anche per la tardivi del decreto n. 28 di proroga dell’intercettazione autorizzata con il decreto n. 1107/2017, che non può essere interpretato come una nuova autorizzazione, perché il pubblico ministero non ha emesso il decreto attuativo, e non esiste un decreto esecutivo originario, trattandosi di una procedura d’urgenza.
La sentenza impugnata, poiché afferma che la responsabilità del ricorrente può essere provata anche solo attraverso le intercettazioni autorizzate con il decreto n. 986/2018, peraltro utilizzando poi anche molte delle intercettazioni effettuate in virtù dei decreti n. 1107/2017 e n. 1216/2017, diversamente da quella di primo grado utilizza ampiamente, quali prove e non quali meri riscontri, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME: anche tali prove, però, sono viziate da violazioni della normativa che regola la valutazione delle chiamate di reità o correità provenienti dai collaboratori di giustizia, dettagliatamente dedotte.
5.2. Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’asserito ruolo direttivo da lu ricoperto nell’associazione, fino alla scarcerazione di NOME COGNOME
La sentenza impugnata ritiene tale ruolo provato dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME ma distorce le parole del primo e travisa le parole del COGNOME, che ha indicato in modo esplicito il COGNOME come reggente prima del COGNOME.
5.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.
Il ricorrente ha eccepito la nullità della richiesta di rinvio a giudizio pe l’omessa enunciazione, in forma chiara e precisa, di tale aggravante, che è stata contestata solo mediante il richiamo numerico, senza alcun riferimento alla relativa condotta materiale: la Corte di appello, però, ha omesso di valutare tale eccezione, che non ha neppure richiamato, ed essa, perciò, non può essere ritenuta rigettata implicitamente.
5.4. Con il quarto motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’applicazione delle aggravanti di cui all’art. 416-bis, commi 4 e 6, cod. pen.
La sentenza si adegua ad un risalente indirizzo giurisprudenziale, che riteneva le due aggravanti coessenziali alla partecipazione ad un’associazione mafiosa quale Cosa Nostra, ma le norme non consentono una simile presunzione assoluta, per cui i giudici avrebbero dovuto motivare, attraverso le prove raccolte, la sussistenza di entrambe tali aggravanti e la consapevolezza, da parte del singolo partecipe all’associazione, della sua natura armata e del finanziamento delle sue attività economiche con i proventi delle azioni criminose. La sentenza indica alcuni elementi fattuali dichiarandoli idonei a provare concretamente la sussistenza di ciascuna aggravante, con una motivazione però palesemente illogica e carente.
5.5. Con il quinto motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il delitto di estorsione contestato al capo 4).
La sentenza fonda la pronuncia di condanna, in pratica, solo sulla conversazione intercettata in data 18/04/2018, in esecuzione del decreto n. 1107/2017, che deve essere dichiarata inutilizzabile come eccepito nel primo motivo di ricorso, con la conseguenza della mancanza di prova circa la responsabilità del ricorrente per tale delitto. Da tale conversazione, peraltro, la sentenza ricava solo mere congetture circa le ragioni dell’asserita consegna di denaro da parte dei fratelli COGNOME ad un estorsore, che non è il ricorrente né l’originario coindagato NOME COGNOME il quale è stato assolto da tale accusa, e circa l’intervento del ricorrente solo quale intermediario. La sentenza, inoltre, travisa il contenuto della conversazione, perché da essa non emerge alcuna pressione psicologica da parte del ricorrente, e non vi è la prova di una sua contiguità rispetto alla posizione dell’estorsore stesso.
5.6. Con il sesto motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il delitto di estorsione contestato al capo 5).
Anche questa condanna è motivata, essenzialmente, sulla base della conversazione intercettata in data 17/01/2018, in esecuzione del decreto n. 1107/2017, che deve essere dichiarata inutilizzabile. Peraltro l’interpretazione di detta conversazione è, anche in questo caso, travisata o fondata su congetture, e si limita ad attribuire al ricorrente un concorso morale. La condotta del ricorrente, come ricostruita dalla sentenza, non è però dimostrata, e non consente di ritenerlo un concorrente morale nel delitto, dal momento che egli non ha determinato o rafforzato il proposito criminoso dei suoi interlocutori.
5.7. Con il settimo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il delitto di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 10).
La sentenza ha ripetuto pedissequamente la valutazione del giudice di primo grado, senza confrontarsi concretamente con i motivi di appello. La sentenza non si cura di provare l’epoca della presunta intestazione fittizia, né di accertare se il ricorrente ha investito denaro per acquistare le quote della RAGIONE_SOCIALE, e deduce la sua titolarità di quote della società solo dal fatto di partecipare alla sua gestione e di riceverne gli utili. La sentenza è errata anche nella parte in cui ritiene sussistente l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., nella forma della finalità di agevolare il clan mafioso, in quanto richiama le prove relative ad altri reati analoghi, contestati ad altri imputati, deducendone un modus operandi che applica anche al reato contestato al ricorrente, di fatto in modo presuntivo.
5.8. Con l’ottavo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il delitto di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 12), per la fittizia intestazione a NOME COGNOME di quote della srls RAGIONE_SOCIALE
Anche in questo caso la prova si fonda quasi esclusivamente su conversazioni intercettate sulla base del decreto autorizzativo n. 1107/2017, e perciò inutilizzabili per le ragioni già esposte. La motivazione, comunque, è carente e illogica, perché anche in questo caso deduce la contitolarità della società da parte del ricorrente solo dal fatto di partecipare alla sua gestione, senza riceverne utili dal momento che essa non ha mai iniziato alcuna attività, ed affermando solo in base a congetture che egli abbia investito denaro proprio in tale attività. Anche in relazione a questo reato è errata la ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., nella forma della finalità di agevolare il clan mafioso, sia per le ragioni già esposte nel precedente
motivo di ricorso, sia perché deduce l’interessamento della consorteria mafiosa solo dal numero dei soggetti coinvolti, ritenuti appartenenti ad essa.
5.9. Con il nono motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il delitto di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 18), per la fittizia intestazione ad NOME COGNOME dell’agenzia di scommesse sita in Palermo INDIRIZZO
Anche in questo caso la prova è carente perché deriva da conversazioni intercettate sulla base dei decreti autorizzativi n. 1107/2017 e n. 1216/2017, e perciò inutilizzabili per le ragioni già esposte. La motivazione, comunque, è illogica, perché anche in questo caso deduce la commissione del reato, che secondo l’imputazione risale al 14/04/2017, da conversazioni successive, mancando perciò una prova specifica, relativa al momento della sua consumazione. La sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., poi, è motivata solo nella forma della finalità di agevolare il clan mafioso benché contestata anche sotto il profilo dell’uso del metodo mafioso; la motivazione, peraltro, presenta i medesimi vizi già dedotti nei due motivi di ricorso precedenti.
5.10. Infine con il decimo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il delitto di cui all’art. 75 comma 2, d.lgs. n. 150/2011, contestato al capo 24).
La sentenza non tiene conto del fatto, già eccepito davanti al giudice di primo grado, che il provvedimento applicativo della misura di prevenzione, emesso in data 29/02/1984 anche se eseguito dal 18/11/2013 al 17/11/2017, non contiene la prescrizione di non associarsi abitualmente a soggetti pregiudicati, perché essa non era prevista dalla legge n. 1423/1956. Inoltre non valuta in modo corretto l’abitualità della frequentazione di soggetti pregiudicati, dal momento che gli incontri che costituirebbero violazione delle prescrizioni contenute nel provvedimento di sottoposizione alla sorveglianza speciale sono numericamente molto pochi, avendo già il giudice dell’udienza preliminare escluso la rilevanza di molti di quelli contestati, e sono occasionali.
NOME COGNOME condannato a quattordici anni di reclusione per il delitto di cui al capo 1), ha proposto ricorso per mezzo dei suoi difensori avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOME articolando quattro motivi.
6.1. COGNOME Con il primo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il reato a lui ascritto.
La sentenza non ha individuato alcuno dei “concreti indici fattuali” necessari, secondo la giurisprudenza di legittimità, per ritenere sussistente il delitto di partecipazione ad una associazione mafiosa, né indica quale apporto il ricorrente abbia dato alla vita dell’associazione stessa, tale da farlo ritenere stabilmente
inserito in essa. Egli è stato condannato in assenza di contestazione di reatifine, e in realtà solo per le condanne da lui già riportate e per la partecipazione alla mafia accertata nel passato, così di fatto invertendo l’onere probatorio. Anche la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen. è stata ritenuta provata solo dalla condanna per omicidio, da lui riportata ben venti anni prima.
La sentenza illustra l’iter giurisprudenziale seguito per ritenere sussistente il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, dalla sentenza della Suprema Corte Sez. U, COGNOME, a quella Sez. U, COGNOME, ma non si confronta adeguatamente con le doglianze difensive, valutate a priori come infondate. Il ricorrente ripercorre, perciò, dalla pagina 6 del ricorso, le singole risultanze probatorie, indicando per ciascuna intercettazione e dichiarazione dei collaboratori di giustizia il travisamento operato dalla sentenza impugnata, ovvero l’illogicità della relativa motivazione, che non ha evidenziato o correttamente valutato le loro criticità e, con riferimento alle dichiarazioni dei collaboratori, affermando la mancanza di attendibilità estrinseca ed anche intrinseca, e, comunque, la loro scarsa significatività.
6.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in merito alla mancata esclusione di un suo ruolo direttivo.
La sentenza ha confermato la valutazione del giudice di primo grado senza confrontarsi con le censure difensive. Anche in questo caso la sentenza ripete l’interpretazione di alcune intercettazioni dettata da mere congetture, deducendo da esse un ruolo apicale mentre, al massimo, esse possono dimostrare la partecipazione del ricorrente all’associazione. Il ricorso esamina nuovamente la conversazione del 19/04/2018, contestandone l’interpretazione data dalle due sentenze di merito, e ribadisce l’inattendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori COGNOME e COGNOME che le sentenze affermano confermare un suo ruolo apicale.
6.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla omessa esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.
La sentenza impugnata ripete l’erronea decisione del giudice di primo grado, di ritenere sussistente la disponibilità di armi non con riferimento alla singola famiglia mafiosa ma con riferimento all’associazione mafiosa nel suo complesso, e di ritenerla perciò provata, in relazione agli odierni imputati, dalle condanne riportate in passato, da alcuni degli associati, per reati commessi con uso di armi ovvero per partecipazione ad una associazione mafiosa armata, nonché da due brevi intercettazioni in cui COGNOME e COGNOME fanno riferimento a singole armi. Questa motivazione, palesemente, è frutto di una presunzione del tutto indinnostrata, che ancora oggi Cosa Nostra sia un organismo unitario, come
accertato in passato, mentre proprio questa indagine punta a dimostrare che essa non aveva più un governo unico e che si stava tentando di ricostituire la commissione provinciale, tentativo interrotto dagli arresti. Affermare, pertanto, che anche oggi le armi eventualmente in dotazione ad un mandamento siano a disposizione di qualunque altro associato è un assunto indimostrato, ed è illogico dedurne la dimostrazione da condanne molto risalenti nel tempo. Gli altri elementi citati, cioè le intercettazioni di COGNOME, di COGNOME ed anche di COGNOME, anche qualora effettivamente avessero ad oggetto delle armi, non ne indicano una disponibilità attuale per l’associazione in generale, e tanto meno una disponibilità da parte del ricorrente.
6.4. Con il quarto motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’omessa esclusione dell’aggravante di cui all’art. 416bis, comma 6, cod. pen.
Anche su questo punto la sentenza non ha affrontato le doglianze difensive ed ha ripetuto l’affermazione, congetturale e indimostrata, della unicità organizzativa di Cosa Nostra. Per la sussistenza di questa aggravante non è sufficiente dimostrare l’affiliazione del gruppo locale a Cosa Nostra, ma deve essere provato che tale gruppo abbia effettivamente finanziato proprie attività con i proventi illeciti, nel periodo di indagine, e lo abbia fatto in maniera rilevante, idonea ad introdursi nel tessuto economico e ad alterarlo, essendo a tal fine non significativi i reinvestimenti in singole operazioni imprenditoriali. La sentenza ha descritto alcune operazioni commerciali, peraltro mai attuate dal ricorrente, le quali però non presentano tali caratteristiche.
NOME COGNOME condannato a dieci anni e otto mesi di reclusione per il delitto di cui al capo 2), ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando tre motivi.
7.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in relazione alla valutazione di utilizzabilità delle intercettazioni.
La mancanza dei verbali di inizio e chiusura delle relative operazioni comporta la loro inutilizzabilità patologica, deducibile quindi anche nel corso del giudizio abbreviato: sono, pertanto, inutilizzabili le operazioni eseguite sulla base del decreto autorizzativo n. 1107/2017, per il quale mancano entrambi i verbali, e per quello n. 1216/2017, per il quale è stato depositato il verbale di inizio delle operazioni ma non il decreto finale riassuntivo delle operazioni, come eccepito sin dall’udienza di discussione del giudizio di primo grado. Inoltre il risultato delle intercettazioni è inutilizzabile anche per la tardività del decreto n. 28 di proroga dell’intercettazione autorizzata con il decreto n. 1107/2017. Le decisioni
contrarie dei giudici di merito sono errate, per le ragioni esposte anche nel primo motivo del ricorso di NOME COGNOME
Tali intercettazioni non sono, comunque, idonee a provare la responsabilità di questo ricorrente, come dettagliatamente evidenziato nel ricorso.
In merito alle dichiarazioni dei vari collaboratori di giustizia, infine, sentenza stessa ne ammette l’irrilevanza con riferimento al COGNOME, ma poi afferma che il COGNOME avrebbe riferito di avere saputo dagli COGNOME stessi che questi era “uomo d’onore” della famiglia di Passo di Rigano, mentre egli ha solo affermato di avere “sentito dire” che egli sarebbe affiliato alla mafia, ma di non avere mai avuto rapporti con lui per vicende legate a Cosa Nostra.
7.2. COGNOME Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.
Il ricorrente eccepisce la nullità della richiesta di rinvio a giudizio, pe l’omessa enunciazione in forma chiara e precisa di questa aggravante, contestata solo con il richiamo alla norma del codice ma senza alcuna esposizione in fatto. La sentenza non ha neppure esaminato tale doglianza, incorrendo così anche nel vizio di motivazione.
7.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui all’art. 416-bis comma 4 e comma 6, cod. pen.
La sentenza è errata sul punto. Dapprima essa afferma che tali aggravanti sono coessenziali al reato di partecipazione ad associazione mafiosa, se trattasi di una associazione legata ad un mafia storica quale Cosa Nostra, affermazione peraltro che costituisce una mera presunzione del tutto priva di un supporto normativo, e poi, nonostante tale premessa metodologica, indica alcuni elementi fattuali dichiarandoli idonei a provare concretamente la sussistenza di ciascuna aggravante, ma fornisce una motivazione palesemente illogica e carente, come viene dettagliatamente spiegato.
La natura armata dell’associazione viene dedotta dalle antecedenti condanne di alcuni partecipi e da una intercettazione inutilizzabile e, peraltro, anodina, e da un’ulteriore intercettazione da cui non emerge se la pistola di cui si parla fosse a disposizione dell’associazione e non del singolo detentore.
L’aggravante di cui al comma 6 viene dedotta solo dagli investimenti compiuti, che peraltro non sono di valore economico rilevante, e che in molti casi sono effettuati in agenzie di scommesse, che costituiscono attività non lecite. Non viene mai indicata né individuata, inoltre, l’attività delittuosa da cui proverrebbero i denari investiti, dal momento che non è contestato alcun tipico reato-fine producente un reddito illecito. Infine è manifestamente illogica la
motivazione in ordine alla riconducibilità delle attività economiche esaminate a tutti gli appartenenti alla famiglia mafiosa, dal momento che, nelle singole contestazioni per la violazione dell’art. 512-bis cod. pen., esse vengono attribuite solo a pochi, specifici soggetti, i quali avrebbero quindi agito nel proprio, esclusivo interesse personale.
NOME COGNOME condannato a dieci anni e otto mesi di reclusione per il delitto di cui al capo 2), ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando due motivi.
8.1. Con il primo motivo deduce il vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.
Le deduzioni sono analoghe a quelle già esposte in relazione ad altri ricorsi, che contestano l’utilizzabilità del “fatto notorio” e affermano l’irrilevanza dell intercettazioni citate come prova, e a tali esposizioni si rimanda, al fine di non appesantire la presente trattazione.
8.2 Con il secondo motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen.
La motivazione della sentenza è meramente apparente perché, senza valutare le singole posizioni, si limita ad affermare che la condotta di autofinanziamento si applica a tutti gli associati ad una “mafia storica”, quale Cosa Nostra, sulla base del “fatto notorio”, mentre a carico di questo ricorrente la sentenza riferisce di una sola intercettazione in cui egli si interessa, per conto di un altro imputato, del possibile avviamento di un’attività, mai concretamente realizzato, e del lavoro da lui svolto quale dipendente della società RAGIONE_SOCIALE, circostanze che dimostrano, caso mai, che egli non si è mai interessato di attività economiche finanziate con proventi illeciti.
NOME COGNOME condannato a undici anni e quattro mesi di reclusione per i delitti di cui ai capi 2) e 18), ha proposto ricorso per mezzo dei suoi difensori avv. NOME COGNOME e avv. NOME COGNOME articolando quattro motivi.
9.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen.
Anche in questo motivo le deduzioni sono analoghe a quelle già esposte in relazione ad altri ricorsi, che contestano l’utilizzabilità del “fatto notorio” l’omesso accertamento dell’entità del reinvestimento, della liceità delle imprese in cui esso è avvenuto, e della provenienza illecita delle somme reinvestite. A
tali ricorsi, pertanto, si rimanda, al fine di non appesantire la presente esposizione.
9.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.
Anche in relazione a questa aggravante vengono esposte deduzioni analoghe a quelle di altri ricorsi, e si rimanda ad essi per necessità di sintesi.
9.3. COGNOME Con il terzo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione, in relazione alla confisca disposta sui suoi beni in sequestro.
La sentenza ha confermato la confisca degli immobili siti in Torretta località Piano dell’Occhio senza valutare i documenti depositati dalla difesa, attestanti che il loro acquisto è avvenuto prima della perimetrazione della pericolosità del ricorrente e che la loro ristrutturazione è avvenuta prima della partecipazione alla cosca mafiosa qui contestata, ed affermando, falsamente, che la confisca è stata disposta ai sensi dell’art. 416-bis, comma 7, cod. pen. ed è quindi obbligatoria in caso di condanna, mentre il giudice di primo grado ha più volte precisato che essa è stata disposta ai sensi dell’art. 240-bis cod. pen. La motivazione, pertanto, è errata e carente, non avendo valutato la contemporanea sussistenza dei requisiti della illegittima provenienza del bene e della sproporzione tra il suo valore e le disponibilità economiche dell’imputato, oltre al collegamento cronologico tra l’incremento patrimoniale e l’attività delittuosa accertata.
9.4. Con il quarto motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione, in relazione alla condanna per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa.
La sentenza ha confermato la decisione del giudice di primo grado senza superare le doglianze difensive, che evidenziavano la carenza e illogicità di quella motivazione, in particolare quanto alle condotte concrete che il ricorrente avrebbe compiuto, tali da dimostrare la sua consapevole e volontaria partecipazione all’associazione, con piena adesione sia ai suoi scopi criminosi, sia ai metodi impiegati per raggiungerli. La sentenza si basa su conversazioni intercettate, spesso provenienti da terzi, il cui contenuto è così generico da non costituire un indizio certo, come viene dettagliatamente esposto. L’errata valutazione delle prove emerge anche con riferimento ai collaboratori di giustizia, in particolare quanto alla oggettiva inattendibilità di NOME COGNOME dimostrata dal confronto tra sue singole dichiarazioni.
Le conversazioni di cui si può condividere l’interpretazione, pertanto, restano molto poche e non sono dimostrative della intraneità del ricorrente alla famiglia di Passo di Rigano e della sua partecipazione ai reati-fine a lui contestati,
risultando altresì non riscontrati i presunti incontri di mafia che egli avrebbe organizzato o a cui avrebbe partecipato.
NOME COGNOME condannato a dieci anni e otto mesi di reclusione per il delitto di cui al capo 2), ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando tre motivi.
10.1. COGNOME Con il primo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione, in relazione alla ritenuta responsabilità per il delitto di cui all’ar 416-bis cod. pen.
La sentenza ha confermato la condanna per tale delitto senza individuare una sua condotta materiale, cioè le azioni da lui concretamente compiute in attuazione degli ordini dei capi, come necessario per ritenere sussistente il reato e provato un ruolo nell’associazione stessa. La motivazione ribadisce la credibilità dei collaboratori COGNOME e COGNOME senza valutare la doglianza dell’atto di appello circa l’irrilevanza di quanto da loro narrato, per il prim perché relativo solo ad un periodo fino al 2010, e per il secondo perché questi ha iniziato a collaborare nel 2014.
La condanna si basa sulle intercettazioni, interpretate però in modo illogico. In primo luogo la sentenza non tiene conto del fatto che esse, quando intervengono tra terzi, non costituiscono una prova e, spesso, neppure un indizio a carico dell’imputato, e che, in ogni caso, esse costituiscono solo un mezzo di ricerca della prova. In secondo luogo, viene ripetuta l’interpretazione datane dagli investigatori, spesso frutto di mere congetture. Viene data rilevanza anche alle frequentazioni del ricorrente, nonostante la Suprema Corte abbia statuito che esse non costituiscono, di per sé, elementi sintomatici dell’appartenenza ad una consorteria criminale, e nonostante che, nel presente caso, si tratti per lo più di incontri con soggetti a lui legati da vincoli di parentela, sporadici e dei quali non è stato mai accertato il contenuto.
10.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen.
Le deduzioni sono analoghe a quelle già esposte in relazione ad altri ricorsi, che contestano l’utilizzabilità del “fatto notorio” e censurano l’omesso accertamento dell’entità del reinvestimento, della liceità delle imprese in cui esso viene realizzato, e della provenienza illecita delle somme reinvestite. A tali ricorsi, pertanto, si rimanda, al fine di non appesantire la presente esposizione.
10.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.
Anche in questo caso il ricorso espone doglianze analoghe a quelle contenute in altri ricorsi, quanto all’erroneità del riferimento al fatto notori legato all’appartenenza dell’associazione a Cosa Nostra e all’assenza di elementi fattuali a sostegno dell’ipotesi di una sua “natura armata”, e ad essi si rimanda per necessità di sintesi.
NOME COGNOME condannato a dieci anni e otto mesi di reclusione per il delitto di cui al capo 2), ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando tre motivi.
11.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in relazione all’art. 415-bis cod. proc. pen.
La Corte di appello avrebbe dovuto dichiarare la nullità della richiesta di rinvio a giudizio emessa a carico del ricorrente, per l’omesso espletamento dell’interrogatorio da lui richiesto nel termine di legge. Egli in data 10 agosto 2020, cioè nei termini rispetto alla notifica dell’avviso di cui all’art. 415-bis cod proc. pen., inviò una raccomandata con la richiesta di essere sottoposto ad interrogatorio, che risulta pervenuta al pubblico ministero in data 18 agosto 2020. Questi aveva depositato il giorno precedente, 17 agosto 2020, la richiesta di rinvio a giudizio, e non ha mai effettuato l’interrogatorio così richiesto. La Corte di cassazione ha sempre ritenuto corretta e tempestiva una richiesta trasmessa in tale forma, ma il giudice dell’udienza preliminare e la Corte di appello hanno respinto la relativa eccezione esplicitamente affermando di non condividere il principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità, senza fornire una motivazione convincente. L’omesso espletamento dell’interrogatorio ha comportato una gravissima lesione del diritto di difesa, in quanto ha impedito al ricorrente di fornire al giudice la propria versione, condotta che è stata valutata negativamente dal giudice di primo grado secondo cui l’imputato, rispetto alle contestazioni mosse, non ha offerto alcuna valida spiegazione alternativa.
11.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’art. 416-bis cod. pen.
La motivazione della condanna del ricorrente è manifestamente illogica, stanti la breve durata della sua asserita partecipazione, la mancanza di una rituale affiliazione, e l’omessa indicazione dello stesso quale “uomo d’onore” da parte dei collaboratori di giustizia. La sentenza basa la condanna solo sulle intercettazioni, ma esse sono solo quattro a cui il ricorrente partecipa, e altre due in cui egli è menzionato da terzi, e su un asserito suo incontro con il mafioso Settimo Mineo, ma non ha tenuto conto del diverso contenuto dell’intercettazione del 06/02/2019 come trascritto dal consulente della difesa, e della dichiarazione di tale NOME COGNOME che ha ammesso di essere lui il soggetto a cui il
ricorrente si riferiva in quella conversazione. La sentenza, inoltre, omette del tutto di motivare sull’essersi il ricorrente avvalso della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo, e non tiene conto della genericità e falsità di alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME.
11.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alle ritenute aggravanti di cui all’art. 416-bis, comma 4 e comma 6, cod. pen.
Le deduzioni, in relazione ad entrambe le aggravanti, sono analoghe a quelle già esposte in relazione ad altri ricorsi, che contestano l’utilizzabilità del “fatt notorio” e affermano l’irrilevanza delle intercettazioni citate come prova, e ad essi si rimanda, al fine di non appesantire la presente esposizione.
In particolare, il ricorrente sostiene che la Corte di appello si è limitata a rilevare la natura oggettiva delle due aggravanti, ma non ha verificato se vi siano elementi concreti da cui desumere l’attualità della disponibilità di armi da parte dell’associazione, e non ha accertato, come necessario, se il reinvestimento dei proventi delle attività delittuose sia di entità tale da incidere in modo rilevante sul funzionamento di uno specifico mercato, e se il ricorrente abbia mai preso parte ad alcuno di essi.
NOME COGNOME condannato alla pena di dodici anni e quattro mesi di reclusione per i delitti di cui ai capi 2), 11), 13) e 18), con le esclusioni g indicate, ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando nove motivi.
12.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge processuale in relazione all’art. 414 cod. proc. pen.
La Corte di appello avrebbe dovuto valutare la fondatezza dell’eccezione di inutilizzabilità fisiologica delle indagini svolte oltre il termine di scadenza dell indagini preliminari, formulata prima della richiesta di giudizio abbreviato. Il giudice dell’udienza preliminare si riservò di decidere sulla questione, sostenendo di aderire ad un indirizzo giurisprudenziale consolidato secondo cui egli non è onerato di una decisione anticipata circa l’utilizzabilità degli atti, ma non motivò la sua decisione di aderire ad un certo orientamento giurisprudenziale piuttosto che a quello citato dalla difesa. La sentenza, peraltro, è nulla, perché sono stati utilizzati per la decisione atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine massimo, essendo errata l’interpretazione, contenuta nella sentenza di appello, dell'”aggiornamento” disposto dal pubblico ministero in data 25/10/2017 come relativo al procedimento n. 10652/2013 R.G.N.R. e non all’iscrizione del ricorrente quale indagato. Gli atti di indagine successivi al 2015 devono, perciò,
essere espunti, e la loro esclusione rende del tutto insussistente la prova dei reati contestati al ricorrente.
12.2. GLYPH Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in relazione all’art. 416-bis cod. pen.
Il ricorrente è stato condannato, con sentenza divenuta irrevocabile il 12/11/2012, per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, e la sentenza impugnata afferma che, per una nuova condanna per la commissione del medesimo reato in epoca successiva, sia sufficiente provare che l’agente ha mantenuto l’inserimento nel sodalizio, senza recidere tale legame, applicando quindi, illegittimamente, il criterio del “semel mafioso, semper mafioso”. Le due sentenze di merito, perciò, hanno condannato il ricorrente sulla base di elementi che dimostrano solo una sua generica partecipazione all’associazione criminosa, addirittura attinenti più a questioni familiari che alle dinamiche associative, come viene dettagliatamente spiegato in relazione alle singole prove, e non sulla base di elementi che dimostrino il suo contributo causale idoneo ad incrementare la pericolosità della stessa.
12.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.
La sentenza ha ritenuto la sussistenza dell’aggravante sulla base del mero fatto notorio della disponibilità di armi da parte di un sodalizio mafioso appartenente ad una “mafia storica” quale è Cosa Nostra, ma questo, pur essendo un elemento rilevante, non può costituire l’unico elemento di prova, essendo necessaria la verifica in concreto degli elementi del fatto. In relazione al ricorrente, la sentenza non indica alcun elemento probatorio che dimostri la sua consapevolezza di una disponibilità di armi da parte della famiglia di appartenenza, e neppure indica elementi, diversi dal predetto “fatto notorio”, che dimostrino in concreto tale disponibilità. Essa, quindi, di fatto si limita a sostenere la presenza di armi attraverso una sorta di presunzione, senza verificare se vi siano elementi concreti da cui desumerla.
12.4. Con il quarto motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen.
Anche la sussistenza di questa aggravante viene affermata, di fatto, solo attraverso il “fatto notorio” circa una abitualità di condotta di Cosa Nostra, senza fare alcun riferimento a comportamenti e conoscenze del ricorrente, e a concreti episodi di reimpiego di proventi dell’attività illecita dell’associazione. Le deduzioni sono analoghe, perciò, a quelle di altri ricorrenti, e ad esse si rimanda, per necessità di sintesi.
12.5. Con il quinto motivo di ricorso deduce la violazione di legge penale e processuale e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del delitto contestato al capo 11).
La sentenza utilizza, quali prove del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., le intercettazioni disposte solo per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen sostenendo che sussiste connessione tra i due reati, ma non indica, a proposito del ricorrente, da quali elementi si deduca che l’intestazione fittizia della ditta del Lapi rientrava nel programma dell’associazione criminosa ovvero aveva il fine di realizzare i suoi scopi. Inoltre non prova che sussista l’intestazione fittizia della ditta, perché gli elementi che espone dimostrano solo una co-gestione della stessa da parte del ricorrente, e non è provata la provenienza da quest’ultimo della provvista necessaria per l’acquisto delle quote societarie.
12.6. Con il sesto motivo di ricorso deduce la violazione di legge penale e processuale e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del delitto contestato al capo 13).
Anche in questo caso la sentenza utilizza, quali prove del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., le intercettazioni disposte solo per il delitto di cui all’art. 41 bis cod. pen., ma esse devono essere dichiarate inutilizzabili perché, non essendo contestata al capo 13) l’aggravante dell’agevolazione mafiosa, deve escludersi qualunque connessione tra i due reati. Peraltro, anche in questo caso non è provato che sussista l’intestazione fittizia della ditta, perché gli elementi contenuti nella sentenza dimostrano solo una co-gestione della stessa da parte del ricorrente, e non è provata la provenienza da quest’ultimo della provvista necessaria per l’acquisto delle quote societarie.
12.7. Con il settimo motivo di ricorso deduce la violazione di legge penale e processuale e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del delitto contestato al capo 18).
Ancora una volta le intercettazioni devono essere dichiarate inutilizzabili, mancando la connessione tra il reato associativo e quello di cui all’art. 512-bis cod. pen. In ogni caso, la sentenza non ha tenuto conto del fatto che da una di esse emerge chiaramente che il titolare dell’agenzia di scommesse è il coimputato COGNOME e che non vi è alcun elemento da cui dedurre che il ricorrente fosse coinvolto in qualcosa di più di una mera co-gestione con NOME COGNOME, e da cui dedurre che tale gestione non fosse a titolo privato ma finalizzata ad agevolare l’associazione mafiosa.
12.8. Con l’ottavo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’art. 62 -bis cod. pen.
La sentenza ha respinto la richiesta di concessione delle attenuanti generiche con una motivazione apodittica circa la gravità dei fatti e la
pericolosità del ricorrente, motivazione che introduce, di fatto, una sorta di divieto di concessione del beneficio in caso di condanna per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., stante la sua oggettiva gravità.
12.9. Con il nono motivo di ricorso deduce la violazione di legge penale in relazione agli artt. 63, comma 4, cod. pen. e 81 cod. pen.
La sentenza, pur riconoscendo la sussistenza della continuazione tra i reati qui contestati e quelli giudicati con una precedente sentenza, erroneamente ha ritenuto inapplicabile il disposto di cui all’art. 63, comma 4, cod. pen. Inoltre ha lasciato sostanzialmente inalterato il trattamento sanzionatorio disposto dal giudice di primo grado, senza procedere alla obbligatoria riduzione della pena.
NOME COGNOME condannato alla pena di undici anni e sei mesi di reclusione per i delitti di cui ai capi 2), 12), 15) e 16), ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando sei motivi.
13.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine all’esistenza e operatività della famiglia COGNOME nell’ambito del mandamento di Passo di Rigano.
La sentenza di primo grado, a cui quella di appello si riporta integralmente, deduce dalle intercettazioni svolte in questo procedimento l’operatività della famiglia COGNOME all’interno di Cosa Nostra senza chiarire se i suoi esponenti, definiti “scappati” in quanto espatriati negli USA a seguito della seconda guerra di mafia, fossero stati autorizzati o meno a rientrare in Italia e a reinserirsi nell’associazione, se si fossero effettivamente reinseriti, e se tale loro presenza fosse riconosciuta all’interno di Cosa Nostra. Manca, in particolare, una puntuale analisi di elementi da cui dedurre la rinnovata costituzione degli COGNOME come famiglia mafiosa intranea a Cosa Nostra, e la sua operatività nel territorio indicato, da cui deriva una carenza di motivazione in ordine alla sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. La motivazione è illogica nei punti in cui interpreta, al contrario, come dimostrative di tale intraneità le conversazioni di NOME COGNOME relative alla riunione del 29/05/2018 finalizzata alla ricostituzione della commissione provinciale di Cosa Nostra.
13.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla partecipazione del ricorrente alla famiglia mafiosa di Passo di Rigano.
La sentenza fonda la condanna, per lo più, sulle intercettazioni, che non consentono però di accertare una partecipazione all’associazione, diversa rispetto ad una mera contiguità compiacente. Essa non risponde alla specifica doglianza
mossa nell’atto di appello e agli elementi forniti dalla difesa, idonei a confermare l’assenza, nell’attività del ricorrente, di un interesse dell’associazione mafiosa.
13.3. Con il terzo motivo deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.
La sussistenza dell’aggravante della natura armata dell’associazione è affermata solo sulla base del fatto notorio che riguarda la struttura di Cosa Nostra, come accertata giudizialmente nel 1990, ma la stessa sentenza di primo grado riconosce che la mafia di oggi è diversa. Tale aggravante, quindi, può ritenersi sussistente solo quando sia accertato concretamente che i partecipi della singola articolazione abbiano la disponibilità di armi, e che questa sia finalizzata al conseguimento delle finalità dell’associazione. Nel presente caso non risulta che il perseguimento delle finalità sia stato portato avanti, dalla famiglia di Passo di Rigano, programmando l’uso di armi, né risulta da alcun altro elemento una effettiva disponibilità di armi da parte dei predetti partecipi, così da poter imputare la omessa consapevolezza di tale caratteristica, da parte di qualcuno di essi, ad una ignoranza colposa.
13.4. COGNOME Con il quarto motivo di ricorso deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen.
Anche questa aggravante è ritenuta sussistente solo sulla base del “fatto notorio”, mentre la giurisprudenza di legittimità richiede che venga accertata sia la provenienza da delitto delle risorse economiche reimpiegate, che la sentenza si limita a presumere, sia la consistenza economica del reimpiego, che deve essere idoneo a prevalere nel settore di riferimento. La natura oggettiva dell’aggravante non autorizza una sua applicazione basata, di fatto, su una presunzione delle abituali modalità esecutive di Cosa nostra.
13.5. Con il quinto motivo deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza della propria responsabilità per il delitto di cui al capo 12), e dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. i contestata
La vicenda dell’asserita intestazione fittizia a NOME COGNOME delle quote della RAGIONE_SOCIALE è ricostruita, nella sentenza, in modo non certo, non essendo chiaro chi, dei tre imputati COGNOME, COGNOME e COGNOME, avrebbe conferito dei beni e se tra le finalità della intestazione al COGNOME vi sia quella richiesta dalla norma. La sentenza stessa dà atto che il ricorrente era estraneo alla finalità elusiva, essendo incensurato e titolare di attività proprie, ma afferma che egli potrebbe avere avuto comunque interesse ad una intestazione fittizia a terzi per
limitare i danni in caso di un’azione giudiziaria nei suoi confronti: si tratta di un motivazione puramente congetturale, e pertanto illogica e carente.
13.6. COGNOME Con il sesto motivo di ricorso deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in ordine alla sussistenza della propria responsabilità e dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. per i delitt contestati ai capi 15) e 16).
La vicenda riguarda l’asserita intestazione fittizia a tale COGNOME dell’agenzia di scommesse sita in INDIRIZZO attività nella quale la sentenza ha dedotto, dalle intercettazioni, che il ricorrente abbia avuto interessi gestori. Da tal interessi la sentenza deduce, del tutto apoditticamente, che egli abbia investito risorse proprie in detta attività, e che abbia agito al fine di evitare misure ablatorie, che poteva temere pur essendo incensurato. Sia tali affermazioni, sia la ritenuta sussistenza della finalità di agevolare la famiglia mafiosa, sono meramente assertive e non fondate su alcuna prova, che sia stata indicata e valutata nella motivazione.
Per il reato di cui al capo 16), inoltre, avrebbe dovuto essere rilevata la prescrizione, maturata prima della definizione del giudizio di appello.
NOME COGNOME condannato alla pena di undici anni e otto mesi di reclusione per i delitti di cui ai capi 2), 21) e 22), ha proposto ricorso per mezzo di due atti, predisposti l’uno dall’avv. NOME COGNOME articolato in sette motivi e l’altro dall’avv. NOME COGNOME articolato in dieci motivi
14.1. Con il primo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME deduce la violazione di legge processuale per l’omessa declaratoria di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo il 21/11/2015, data di scadenza del termine per le indagini preliminari.
Il presente procedimento trae origine dal procedimento n. 10652/2013 R.G.N.R., iscritto il 21/11/2013 a carico del ricorrente quale indagato per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. commesso dal 19/11/2013 e in corso. Detto procedimento, non archiviato, è poi confluito nel presente, in cui il ricorrente è stato iscritto in data 08/07/2019 quale indagato per il medesimo reato, commesso dal 2015 al giugno 2019. La motivazione con cui è stata respinta l’eccezione formulata in primo e secondo grado è errata: la sentenza afferma che non sono state utilizzate, per la condanna, indagini svolte a carico del ricorrente dopo il termine, ma solo indagini disposte ed eseguite a carico di altri soggetti o in altri procedimenti, in particolare la raccolta delle dichiarazioni dei collaborator di giustizia, ma in realtà tali dichiarazioni sono state rese nell’ambito di indagini sul mandamento Boccadifalco-Passo di Rigano, come nel procedimento i cui
termini erano scaduti, ponendo particolare attenzione alla famiglia di COGNOME, a cui il COGNOME apparterrebbe.
14.2. Con il secondo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine al reato di cui all’art. 416 bis cod. pen.
La sentenza non risponde alle doglianze dell’atto di appello circa l’insufficienza della prova, consistente nelle dichiarazioni dei collaboratori COGNOME e COGNOME per la loro inattendibilità e divergenza, e per la mancanza di riscontri, con particolare riferimento alle propalazioni di COGNOME, le cui inesattezze ed asserite falsità vengono nuovamente evidenziate nel ricorso. La corte di appello non ha tenuto conto delle dichiarazioni dell’altro collaboratore, COGNOME secondo cui il ricorrente e suo fratello erano assenti e isolati, e quindi lontani da contesti malavitosi, evidenziando invece la ulteriore dichiarazione di questi, secondo cui i COGNOME stavano ricostituendo la famiglia mafiosa, dichiarazione che è, però, priva di riscontri. I giudici di merito hanno ritenuto che le dichiarazioni del COGNOME fossero riscontrate da quelle del COGNOME, svilendo in modo illogico ed errato la circostanza, emersa con certezza, della conoscenza da parte del COGNOME del contenuto delle dichiarazioni rese dal COGNOME, in particolare quanto alla partecipazione del Sansone ad una riunione svoltasi il 22/10/2015. Tali dichiarazioni, peraltro, non costituiscono un riscontro alle precedenti anche per la evidente diversità da quanto riferito dal COGNOME, e per la loro imprecisione. I giudici di merito, quindi, hanno omesso di effettuare una approfondita valutazione dell’attendibilità delle chiamate di correità, sia quanto all’attendibilità soggettiva dei dichiaranti, sia quanto ai motivi delle loro chiamate e alla loro attendibilità intrinseca, sia infine in ordine ai necessari riscontri estrinseci di natura individualizzante. I giudici hanno anzi superato, con motivazione illogica, la prova fornita dalla difesa circa la mancata partecipazione del Sansone alla riunione indicata, per avere il suo telefono agganciato celle incompatibili con il luogo e l’orario della stessa. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
14.3. Con il terzo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME il ricorrente deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine all’attribuzione di responsabilità per i reati di cui ai capi 21) e 22).
La sentenza impugnata motiva la condanna attraverso le intercettazioni, ma da esse emerge solamente una co-gestione delle due attività con le rispettive intestatarie, le quali hanno apportato personalmente i capitali necessari per la loro costituzione, mentre non vi è alcuna prova di un apporto di capitali da parte del ricorrente. La sentenza, inoltre, deduce la sussistenza del dolo e la finalità di eludere possibili misure ablative solo dalla condanna già riportata dal ricorrente e dalla sua ritenuta qualità di partecipe all’associazione mafiosa, ma tali elementi
non sono idonei a far sorgere il timore di un intervento ablativo sul proprio patrimonio.
14.4. Con il quarto motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui all’art. 416-bis, commi 4 e 6, cod. pen.
La sentenza di appello motiva la sussistenza delle due aggravanti solo affermando la loro natura oggettiva e il “fatto notorio” della loro ricorrenza nelle mafie storiche, quale è Cosa Nostra. Le argomentazioni del ricorrente sono analoghe a quelle di altri ricorsi, ai quali si rimanda per esigenza di sintesi.
14.5. Con il quinto motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine all’applicazione della recidiva.
L’applicazione della recidiva è stata motivata, in entrambe le sentenze, con mere clausole di stile, senza esaminare in concreto se il nuovo reato risulti sintomatico di una maggiore pericolosità sociale. La risalenza nel tempo della precedente condanna, oltre trent’anni, e il ruolo marginale che il ricorrente avrebbe assunto nella compagine mafiosa, sono elementi che avrebbero dovuto indurre ad escludere la sussistenza di tale aggravante.
14.6. Con il sesto motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine all’omessa concessione delle attenuanti generiche.
Anche il beneficio di cui all’art. 62 -bis cod. pen. è stato negato con mere formule di stile, riferendosi solo all’assenza di elementi valutabili favorevolmente e all’oggettiva gravità dei fatti, ed omettendo di tenere conto dell’ottima condotta processuale, dell’età avanzata e del ruolo marginale ricoperto.
14.7. Con il settimo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME il ricorrente deduce la violazione di legge e l’omessa motivazione in ordine alla quantificazione della pena base e agli aumenti per i reati satellite.
Anche su questo punto la motivazione della sentenza di secondo grado è meramente apparente e non risponde alle doglianze dell’appellante, che chiedeva una riduzione di tutte le pene ai minimi applicabili.
14.8. Con il primo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME il ricorrente deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione per l’omessa declaratoria di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari. Il motivo è analogo al primo motivo del ricorso predisposto dall’avv. COGNOME e ad esso si rimanda, per evitare inutili appesantimenti.
14.9. Con il secondo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.
Il ricorrente deduce la violazione dell’art. 414 cod. proc. pen. perché l’intera sequenza procedimentale delle indagini preliminari sarebbe in contrasto con le norme codicistiche, contrasto che si riverbera sulla validità o utilizzabilità degli atti di indagine stessi, la cui inutilizzabilità deve essere ritenuta patologica, e perciò rilevabile anche nel giudizio abbreviato
14.10. Con il terzo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME deduce il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.
Il motivo, analogo al secondo motivo del ricorso predisposto dall’avv. COGNOME lamenta l’erronea valutazione della prova da parte dei giudici di merito, che non si sono conformati ai principi dell’art. 192 cod. proc. pen. Anche in questo caso, pertanto, si rimanda alla relazione sull’altro motivo, per necessità di sintesi.
14.11. GLYPH Con il quarto motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME il ricorrente deduce ulteriormente il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen.
La prova circa la sussistenza di detto reato consiste, di fatto, solo nelle dichiarazioni dei collaboratori COGNOME e COGNOME, a cui la corte di appello aggiunge, quale ulteriore elemento probatorio, il fatto che il ricorrente sia stato già condannato, in passato, per il medesimo reato. Tale affermazione ricalca il brocardo “semel mafioso, semper mafioso” ma, pur essendo noto che il vincolo associativo si instaura nella prospettiva di una permanenza a tempo indeterminato, il giudice non è esonerato dall’accertare la sussistenza di elementi concreti che dimostrino la effettiva protrazione dell’affiliazione e un reale apporto dell’imputato alla vita dell’associazione e al perseguimento dei suoi scopi.
14.12. Con il quinto motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME il ricorrente deduce il vizio di motivazione in relazione all’affermata sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 4, cod. pen.
L’argomentazione è analoga a quella di altri ricorsi, e ad essi si rimanda per la già indicata esigenza di sintesi.
14.13. Con il sesto motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME deduce il vizio di motivazione in relazione all’affermata sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen.
Il motivo è analogo a quello dei ricorsi già relazionati, per cui si rimanda alle già descritte argomentazioni.
Al termine di questo sesto motivo il ricorrente chiede alla corte di cassazione di acquisire il dispositivo della sentenza emessa dalla corte di appello di Palermo in data 02/07/2024 nei confronti degli originari coindagati NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME per i quali l’aggravante in questione, ugualmente contestata, è stata esclusa, e con successiva memoria ha ribadito la richiesta, chiedendo però l’acquisizione dell’intera sentenza, depositata nelle more.
14.14. Con il settimo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME deduce il vizio di motivazione in relazione all’affermata sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 22).
La sentenza indica, quali prove delle condotte contestate al ricorrente, alcune intercettazioni tra lui e le due donne ritenute intestatarie fittizie dell quote della RAGIONE_SOCIALE, le quali dimostrano solo una gestione occulta della società da parte del ricorrente, non la sua effettiva titolarità. Anche per ritenere sussistente la responsabilità del ricorrente nel trasferimento di quote dalla Argano alla Cascavilla, la Corte di appello avrebbe dovuto verificare se vi era stato un conferimento economico da parte del predetto nel costituendo patrimonio sociale, e poi valutare la consapevolezza delle due coimputate circa la finalità elusiva richiesta dalla norma.
14.15. Con l’ottavo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME deduce il vizio di motivazione in relazione all’affermata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 22) .
In ordine a detto reato la sentenza non ha motivato in modo corretto la sussistenza della finalità del ricorrente di eludere possibili misure ablative, dichiarandola presente solo a causa della sua precedente condanna e della sottoposizione, all’epoca, alla misura di prevenzione personale. La risalenza nel tempo di tali vicende imponeva alla corte di appello di motivare in modo specifico la sussistenza della finalità elusiva perseguita dal ricorrente nelle condotte contestate, dovendo questa essere diretta contro eventuali misure di prevenzione patrimoniali.
14.16. Con il nono motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME il ricorrente deduce il vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 21).
La sentenza motiva la condanna solo affermando che, essendo provati l’investimento nell’azienda agricola e la gestione della stessa da parte del ricorrente, è logico ritenere che ne percepisse anche gli utili. Essa trascura, quindi, di valutare che il ricorrente ne era solo il gestore occulto, e che non vi è la prova della provenienza da questi delle risorse impiegate.
14.17. Con il decimo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME infine, il ricorrente deduce il vizio di motivazione in relazione all’affermata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato al capo 21).
La sentenza riporta, alla pag. 333, una motivazione relativa all’elemento soggettivo del reato che, in realtà, attiene al reato contestato al capo 22): pertanto manca del tutto la motivazione relativa al reato di cui al capo 21).
NOME COGNOME condannato alla pena di dodici anni di reclusione per i delitti di cui ai capi 2), 10), 12) e 23), ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando cinque motivi.
15.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge penale e il vizio di motivazione, per violazione dell’art. 192 cod. proc. pen., in relazione a tutti i delitti contestati.
La motivazione della sentenza consiste in un mero copia-incolla di quella di primo grado, e non affronta le questioni poste con i motivi di appello. La condanna è fondata solo sulle intercettazioni ambientali, prive di riscontro, la spiegazione sul mancato riconoscimento del ricorrente da parte dei collaboratori di giustizia è illogica e contraddittoria, il contenuto delle intercettazioni riprodott in sentenza è diverso da quello ascoltato dalla difesa stessa in relazione ad un diverso imputato, e le intercettazioni non sono esaminate in ordine cronologico, ma estrapolate dal contesto per supportare singole ipotesi accusatorie. La sentenza ha ritenuto sussistente il reato associativo solo sulla base dell’inserimento del ricorrente nell’associazione, ma non ha accertato quale effettivo contributo causale egli abbia dato alla stessa; anzi, proprio dalle intercettazioni citate emerge che egli, spesso, non ha neppure dato seguito alle richieste del suocero NOME COGNOME. Le intercettazioni, poi, sono utilizzate come prova anche quando non sono del tutto comprensibili o sono comunque poco chiare, e peraltro la sentenza stessa ammette che il ricorrente sapeva di essere intercettato, per cui non è credibile che parlasse liberamente delle proprie condotte illecite. E’ illogico, infine, che egli fosse intestatario di un’attivi commerciale, dal momento che rischiava di vedersi qualificare intestatario fittizio in favore del suocero, noto mafioso.
15.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce il vizio di motivazione, in relazione all’art. 62 -bis cod. pen.
il diniego delle attenuanti generiche è motivato solo con la sua mancanza di resipiscenza, senza tenere conto della sua incensuratezza, delle condizioni di vita familiari e sociali, della scarsa entità del dolo, delle modalità dell’azione. La gravità del reato contestato non consente ex se il diniego, né è un motivo sufficiente per giustificarlo.
15.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge penale in relazione all’asserita sussistenza delle aggravanti di cui agli artt. 416, commi 4 e 6, cod. pen.
Le argomentazioni contrarie alla sussistenza delle due aggravanti sono analoghe a quelle contenute in altri ricorsi, alle cui relazioni si rimanda per necessità di sintesi.
15.4. Con il quarto motivo deduce la violazione di legge penale per l’omessa motivazione in ordine all’art. 378 cod. pen.
La sentenza ha omesso di motivare sulla richiesta di qualificare il delitto associativo come violazione dell’art. 378 cod. pen., sussistente quando, come in questo caso, l’imputato non ha la consapevolezza di agevolare il sodalizio criminale ma agisce solo con la volontà di sostenere il singolo partecipe, senza che tale suo aiuto agevoli in modo rilevante anche l’associazione mafiosa.
In ogni caso, anche mantenendo la qualificazione dei reati di cui alla prospettazione accusatoria, non vi sono elementi per ritenere sussistente l’aggravante di cui all’art. 7 L. n. 203/1991, che non può essere applicata automaticamente, dovendo essere accertata l’oggettiva finalizzazione dell’azione all’agevolazione dell’associazione stessa. In questo caso è evidente che i rapporti tra il ricorrente e i Liga (sic) sono maturati fuori da Cosa Nostra, e sono irrilevanti le eventuali affermazioni dei collaboratori di giustizia.
15.5. Con il quinto motivo di ricorso deduce la violazione di legge penale e il vizio di motivazione, per violazione dell’art. 63, comma 4, cod. pen.
La sentenza ritiene sussistenti le tre aggravanti di cui agli artt. 416-bis, commi 4 e 6, cod. pen. e 416-bis.1 cod. pen., ma invece di applicare il criterio moderatore previsto dall’art. 63, comma 4, cod. pen. calcola ed applica singoli aumenti di pena per ciascuna di esse.
NOME COGNOME condannato alla pena di due anni e due mesi di reclusione per il delitto di cui al capo 11), ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando due motivi.
16.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in relazione all’art. 270 cod. proc. pen.
Le due sentenze di merito hanno ritenuto utilizzabili, quale prova del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., le intercettazioni disposte per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., affermando la sussistenza della connessione tra il trasferimento di beni al fine di eludere possibili misure ablatorie, e la partecipazione dell’interponente, NOME COGNOME all’associazione criminosa. La modifica dell’art. 270 cod. proc. pen., che amplia la deroga al divieto di utilizzabilità delle intercettazioni disposte in altro procedimento, non è applicabile
a quelle disposte prima del 31/08/2020, per cui nel presente caso deve applicarsi la normativa previgente, come interpretata dalla sentenza Sez. U, n. 51 del 2020, dep. 2021, Cavallo, in particolare quanto alla utilizzabilità delle intercettazioni per la prova di reati connessi, ai sensi dell’art. 12 cod. proc. pen., a quello per cui esse sono state autorizzate. La sentenza impugnata, però, afferma detta connessione con una frase generica e senza precisare se ravvisi l’ipotesi della continuazione di cui all’art. 12, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., o quella di cui all’art. 12, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., ma anche nel primo caso deve essere accertata la sussistenza, sin dall’origine, di un medesimo disegno criminoso che leghi i vari delitti, mentre la motivazione, sul punto, è del tutto omessa. Di fatto la sentenza unisce il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e quello di cui all’art. 512-bis cod. pen., nel senso di ritenere che se il partecipe concorre con un terzo nel reato di intestazione fittizia di beni deve affermarsi che egli ha agito con il medesimo fine di eludere eventuali misure ablative, anche quando non si ritenga sussistente l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. Questo ragionamento, invece, postula come corollario che il terzo, non partecipe all’associazione, dovrebbe sempre essere a conoscenza delle finalità agevolative della stessa, e chi partecipa, invece, al reato associativo dovrebbe compiere operazioni di interposizione fittizia con la sola finalità di eludere le misure ablative. L’esclusione delle intercettazioni rende il reato contestato al ricorrente del tutto sfornito di prova.
16.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione, in relazione alla sussistenza del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 11).
La sentenza omette di motivare in merito alla consapevolezza del ricorrente di concorrere nella eventuale finalità dell’interponente di eludere possibili misure ablative, e non valuta la possibilità di una sua mera co-gestione con l’interposto. Non è sufficiente, per la sussistenza del reato, che l’interposto sia il fittizio amministratore di una società, ma è necessario che egli sia anche il socio, ovvero il titolare delle quote societarie. La sentenza, invece, valorizza elementi che dimostrano una co-gestione del coimputato COGNOME ma non valuta neppure se questi abbia o meno apportato risorse economiche e se partecipasse agli utili, così da potersi dedurre che fosse il titolare delle quote.
NOME COGNOME condannato a tre anni di reclusione per il delitto di cui al capo 12), ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando tre motivi.
17.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge penale e processuale e il vizio di motivazione quanto alla utilizzabilità, in relazione al reato di cui
all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 12), delle intercettazioni disposte in altro procedimento.
La sentenza non ha risposto all’eccezione, sollevata con i motivi di appello, della inutilizzabilità delle intercettazioni quale prova del reato di cui all’art. 51 bis cod. pen. per la mancanza di connessione con il reato associativo, essendo le condotte di intestazione fittizia delle operazioni imprenditoriali funzionali solo ad interessi personali. Il ricorrente è stato ritenuto responsabile di detto reato, quale terzo estraneo, solo per avere rinunciato al pagamento dell’avviamento commerciale, ma non è provata né la fittizietà dell’operazione né la consapevolezza che, per gli altri soci, essa fosse funzionale ad interessi dell’associazione anziché del singolo sodale. Il ricorrente è estraneo a contesti di criminalità organizzata, e la mera conoscenza di alcuni sodali o la partecipazione ad una singola operazione commerciale non provano né il concorso nel reato né la conoscenza degli interessi degli altri soci, conoscenza che deve essere certa e non costituita da un mero sospetto. Il ricorrente ha accettato di attribuire la titolarità formale dell’attività ad un terzo e di intestare a terzi anche la propri quota, assumendo la qualità di socio occulto, ma non aveva alcun timore della possibile applicazione di una misura di prevenzione, né poteva conoscere se gli altri soci occulti avessero, invece, una finalità elusiva.
17.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge penale e il vizio di motivazione in relazione all’art. 62-bis cod. pen.
La sentenza non valuta la richiesta di concessione delle attenuanti generiche per l’età avanzata del ricorrente e per la sua finalità di trovare una futura attività lavorativa, in quanto rigetta la domanda con frasi generiche.
17.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge penale e processuale e il vizio di motivazione in relazione all’aggravante di cui all’art. 99 cod. pen.
La sentenza ha respinto la richiesta di disapplicare la contestata recidiva con una motivazione generica, benché la precedente condanna sia relativa solo ad un delitto di favoreggiamento risalente al 2007. In particolare, non motiva se la commissione del nuovo reato sia espressione di una maggiore colpevolezza e pericolosità sociale, tale da giustificare l’aumento della pena.
NOME COGNOME condannato alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione per il delitto di cui al capo 13), con esclusione dell’aggravante, ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando tre motivi.
18.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge penale e il vizio di motivazione, in relazione alla sussistenza del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 13).
La motivazione della sentenza impugnata è carente, in quanto non spiega in modo sufficiente le ragioni per cui la versione del ricorrente, di avere investito denaro proprio proveniente dal risarcimento ottenuto per l’incendio della propria attività, andata perciò fallita, è stata giudicata inattendibile, ed è contraddittoria perché, mentre esclude che i rapporti interpersonali del ricorrente con i coimputati possano giustificare le frasi intercettate, come sostenuto con la tesi difensiva, dall’altro lato sostiene la sua colpevolezza anche sulla base di tali rapporti. Invece non c’è prova di un intervento economico del coimputato COGNOME nell’attività in questione, ed il terzo che riferisce tale notizia nella intercettazione citata in sentenza non è in rapporto di amicizia con il ricorrente, così da poter avere ricevuto una sua confidenza. E’ errato, pertanto, avere fondato la prova della colpevolezza sulle intercettazioni, che sono suscettibili anche di una spiegazione alternativa, come quella fornita dal ricorrente stesso.
18.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge penale in relazione alla determinazione della pena.
La pena irrogata è eccessiva. La sentenza la dichiara congrua perché determinata in misura inferiore al medio edittale, ma non ha valutato, in applicazione dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., la modesta gravità del fatto e la scarsa entità del dolo.
18.3. Con il terzo motivo deduce la violazione di legge penale in relazione alla omessa concessione delle attenuanti generiche.
La sentenza motiva tale mancata concessione per i precedenti penali del ricorrente, i quali non sono, però, ostativi al beneficio, e omette di tenere conto degli elementi favorevoli, quali il buon comportamento processuale, da lui tenuto fornendo la propria versione dei fatti corroborata da documenti, comportamento che ha addirittura valutato negativamente, traendo da esso la valutazione di una mancanza di resipiscenza.
NOME COGNOME condannata alla pena di due anni e due mesi di reclusione per il delitto di cui al capo 13), con esclusione dell’aggravante, ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando due motivi.
19.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge penale e il vizio di motivazione, in relazione alla sussistenza del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 13).
La sentenza ha ritenuto che il reato in questione non abbia natura di reato plurisoggettivo improprio, ma sia una fattispecie a forma libera in cui l’interposto, se si rende fittiziamente titolare di beni o utilità con una delle finalit previste, risponde del reato a titolo di concorso con l’interponente. Tale interpretazione viola le norme codicistiche sul concorso di persone nel reato, che hanno la funzione di dare rilevanza penale a comportamenti atipici, estendendo la responsabilità penale a soggetti che non tengono personalmente la condotta criminosa, ma concorrono alla commissione del reato da parte di altri. La dottrina e la maggior parte della giurisprudenza qualificano il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. come un reato a concorso necessario, in cui l’interposto è il soggetto la cui presenza è necessaria per la realizzazione della condotta tipica, ma anche come un reato plurisoggettivo improprio, perché la norma non prevede la responsabilità penale anche dell’interposto, che, pertanto, non può essere sanzionato, pena la violazione dell’art. 25, comma 2, Cost., perché la sanzione dovrebbe essere applicata in via analogica. Né si può ritenere punibile l’interposto ai sensi dell’art. 110 cod. pen., perché questa norma incrimina condotte atipiche, non previste dalle norme, mentre in questo caso l’interposto tiene la condotta prevista dalla norma stessa.
19.2. Con il secondo motivo deduce la violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del dolo richiesto dalla norma.
La sentenza premette di ritenere sufficiente, per la sussistenza della responsabilità dell’interposto, che egli sia a conoscenza del dolo specifico dell’interponente, pur non agendo egli stesso a tal fine, ma afferma che la ricorrente ha agito ella stessa con la finalità di aiutare lo zio NOME ad eludere possibili misure ablative. Essa fonda la prova solo sulla parentela con il coimputato, applicando quindi la regola del “non poteva non sapere”, ma il dolo non può essere ritenuto sussistente sulla base di mere presunzioni, bensì deve essere oggetto di uno specifico ed effettivo accertamento.
NOME COGNOME condannata alla pena di due anni e due mesi di reclusione per il delitto di cui al capo 13), con esclusione dell’aggravante, ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando tre motivi.
20.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge penale e il vizio di motivazione, in relazione alla sussistenza del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 13).
La motivazione della sentenza impugnata è carente, in quanto non spiega in modo sufficiente le ragioni per cui la versione del coimputato COGNOME è stata giudicata inattendibile, ed è contraddittoria perché, mentre esclude che i rapporti
interpersonali dei vari coimputati possano giustificare le frasi intercettate, come affermato dalla difesa, dall’altro lato sostiene la colpevolezza della ricorrente, che è la convivente del coimputato COGNOME anche sulla base di tali rapporti.
Il COGNOME ha spiegato di non essere stato aiutato economicamente da NOME COGNOME dopo il fallimento della sua attività, diversamente da quanto emergerebbe da una conversazione tra i coimputati COGNOME e COGNOME nella quale, peraltro, tale episodio è riferito in modo dubitativo; pertanto non c’è prova di tale intervento del COGNOME, né di alcun investimento di questi nell’attività, ed il terzo che riferisce tale notizia in quella intercettazione non è in rapporto di amicizia con il COGNOME, così da poter avere ricevuto una sua confidenza. E’ errato, pertanto, avere fondato la prova della colpevolezza sulle intercettazioni, che sono suscettibili anche di una spiegazione alternativa, come quella fornita dal COGNOME, o come quella consistente nei rapporti interpersonali tra i coimputati.
20.2. GLYPH Con il secondo motivo deduce la violazione di legge penale in relazione alla determinazione della pena.
La pena irrogata è eccessiva. La sentenza la dichiara congrua perché determinata in misura inferiore al medio edittale, ma non ha valutato, in applicazione dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., la modesta gravità del fatto e la scarsa entità del dolo.
20.3. Con il terzo motivo deduce la violazione di legge penale in relazione alla omessa concessione delle attenuanti generiche
La sentenza motiva tale mancata concessione ritenendo indice di gravità il rapporto personale che lega la ricorrente al COGNOME e al COGNOME ma omette di tenere conto degli elementi favorevoli, diversi dalla mera incensuratezza.
NOME COGNOME condannato alla pena di tre anni di reclusione per il delitto di cui al capo 15), ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando tre motivi.
21.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge penale e il vizio di motivazione, in relazione alla sussistenza del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 15).
La motivazione della sentenza impugnata è carente, in quanto ritiene sussistente il reato senza indicare alcun elemento che dimostri un apporto patrimoniale del coimputato COGNOME al soggetto ritenuto fittiziamente titolare dell’agenzia, cioè NOME COGNOME e afferma il concorso del ricorrente e il suo contributo causale riproponendo la medesima interpretazione delle intercettazioni, senza rispondere alle doglianze contenute nell’atto di appello. La sentenza, infatti, si limita a ribadire che le intercettazioni dimostrano un’attività
di intermediazione svolta dal ricorrente, e non valuta la decisività di tale condotta per la consumazione del reato.
La motivazione è carente anche quanto all’elemento soggettivo del reato. La finalità elusiva è data per certa a carico dell’interponente COGNOME e la sentenza deduce la consapevolezza di tale finalità, da parte del ricorrente, solo in via presuntiva, per i rapporti con il predetto e per le facilitazioni, da parte d questi, di alcune occasioni lavorative, senza valutare che tali frequentazioni non possono provare con certezza la sussistenza del dolo specifico richiesto dalla norma, anche perché l’intestazione fittizia può essere funzionale anche ad altri scopi, e non solo alla elusione di possibili misure di prevenzione.
21.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen.
La motivazione è carente anche in ordine alla finalità agevolatrice di un clan mafioso, in quanto afferma solamente, in modo generico, che il settore delle scommesse costituiva un settore di interesse degli affiliati alla famiglia mafiosa di Passo di Rigano, controllato da NOME COGNOME. Non è stata citata alcuna intercettazione o altro elemento di indagine da cui emerga tale preteso coinvolgimento o, comunque, la volontà di agevolare l’associazione capeggiata dall’COGNOME. Non è provato neppure che il ricorrente fosse, quanto meno, consapevole della volontà agevolatrice presente in almeno uno dei coimputati, così da concorrere con questi, in quanto la sentenza si è limitata a richiamare le medesime circostanze indicate per motivare la conoscenza della finalità elusiva del Militello, cioè i rapporti di frequentazione con mafiosi, circostanze insufficienti anche per la prova di tale finalità.
21.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla omessa concessione delle attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio.
La sentenza non tiene conto dell’atto di appello, che indicava una serie di elementi a sostegno della richiesta di concessione delle attenuanti generiche e di contenimento della pena nei minimi edittali, e nega il beneficio affermando l’insussistenza di elementi valutabili in senso favorevole: si tratta di una motivazione apparente e illogica, che afferma la gravità del fatto solo per la caratura mafiosa dei coimputati, giustificando così l’irrogazione di una pena lontana dal minimo edittale ed aumentata, per l’aggravante contestata, nella misura massima.
E’ illogico e immotivato anche il diniego della sospensione condizionale, nonostante l’incensuratezza del ricorrente e l’unicità dell’episodio a lui ascritto.
NOME COGNOME condannata alla pena di due anni e quattro mesi di reclusione per i delitti di cui ai capi 21) e 22), ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando sei motivi.
22.1. Con il primo motivo deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione per l’omessa declaratoria di inutilizzabilità delle intercettazioni svolte a carico del coimputato NOME COGNOME dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari a suo carico. Il motivo ripropone le medesime argomentazioni del primo motivo proposto dal coimputato COGNOME nei suoi due ricorsi, e si rimanda a tale parte della relazione, per esigenze di sintesi.
La ricorrente afferma, perciò, la inutilizzabilità, quale prova dei reati a lei ascritti, delle intercettazioni effettuate a carico di NOME COGNOME in base al decreto autorizzativo n. 992/2018 R.I. Non è corretta la motivazione delle due sentenze di merito, secondo cui tali intercettazioni sarebbero utilizzabili perché disposte in altro procedimento e per altri reati, a cui questi sono connessi, dal momento che il decreto autorizzativo, per le ragioni dette, deve ritenersi emesso nel medesimo procedimento, e che l’art. 270 cod. proc. pen., nella formulazione vigente all’epoca, consentiva l’utilizzazione solo in relazione a reati per i quali era obbligatorio l’arresto in flagranza. L’esclusione dal compendio probatorio delle intercettazioni indicate rende insussistente la prova a carico della ricorrente.
22.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in relazione alle condanne per il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato ai capi 21) e 22).
La ricorrente deduce la violazione dell’art. 414 cod. proc. pen. perché l’intera sequenza procedimentale delle indagini preliminari, in relazione all’iscrizione del coimputato COGNOME nel registro degli indagati, è in contrasto con le norme codicistiche; il vizio riverbera i suoi effetti sulla validità o utilizzabilità degli indagine stessi, la cui inutilizzabilità deve essere ritenuta patologica, e perciò rilevabile anche nel giudizio abbreviato.
22.3. COGNOME Con il terzo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’affermata sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 22).
L’imputazione contesta due diverse condotte, tenute il 06/10/2016 e il 24/01/2017, ma palesemente solo la seconda è attribuita alla ricorrente, mentre la prima è attribuita alla coimputata COGNOME
La sentenza indica, quali prove delle due condotte contestate, alcune intercettazioni tra il coimputato COGNOME e le due donne ritenute intestatarie fittizie delle quote della RAGIONE_SOCIALE, le quali però dimostrano solo una gestione occulta della società da parte del Sansone, non la sua effettiva titolarità delle quote societarie. Anche per ritenere sussistente una interposizione fittizia
del Sansone nel trasferimento di quote dalla Argano alla ricorrente, la Corte di appello avrebbe dovuto verificare se vi era stato un conferimento economico da parte del predetto nel costituendo patrimonio sociale, e poi valutare la consapevolezza delle due coimputate, ed in particolare della ricorrente, della finalità elusiva richiesta dalla norma, attribuibile solo al Sansone.
22.4. Con il quarto motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione in relazione all’affermata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 22).
In ordine al medesimo reato la sentenza non ha motivato in modo corretto la sussistenza della finalità di eludere possibili misure ablatorie, richiesta dalla norma. La sentenza afferma che la ricorrente era consapevole della finalità elusiva del coimputato COGNOME solo sulla base della sua frequentazione o del rapporto affettivo che aveva con questi, così di fatto basandosi su una mera presunzione ovvero compiendo una valutazione ex post, e non compiendo una valutazione ex ante, cioè sulla base delle conoscenze che ella, quale concorrente necessaria, aveva, o poteva avere, al momento della condotta.
22.5. COGNOME Con il quinto motivo deduce il vizio di motivazione in relazione all’affermata sussistenza del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 21).
La sentenza motiva la condanna solo affermando che, essendo provati l’investimento nell’azienda agricola e la gestione della stessa da parte del Sansone, e quindi l’interposizione fittizia della ricorrente, è logico ritenere che egli ne percepisse anche gli utili. Essa trascura, quindi, di valutare che il Sansone era solo il gestore occulto dell’attività, e che non vi è la prova della provenienza da questi delle risorse impiegate.
Anche quanto all’elemento soggettivo del reato, la motivazione presenta il vizio già dedotto a proposito del reato di cui al capo 22), in quanto lo deduce dal rapporto affettivo o di frequentazione della ricorrente con il COGNOME. Anche in questo caso, quindi, la sussistenza della consapevolezza della finalità elusiva di questi è solo presunta, o comunque motivata attraverso un automatismo.
22.6. Con il sesto motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio.
La determinazione della pena base è stata motivata in modo incongruo. La sentenza si limita a dichiarare congrua quella decisa dal giudice di primo grado perché determinata in misura inferiore al medio edittale, ma non ha valutato tutti i criteri di cui all’art. 133 cod. pen., alla luce anche della incensuratezz della ricorrente e della funzione rieducativa della pena.
GLYPH NOME COGNOME condannata alla pena di un anno e sei mesi di reclusione, dichiarata sospesa, per il delitto di cui al capo 22), ha proposto ricorso per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando quattro motivi.
23.1. Con il primo motivo deduce, analogamente ai coimputati COGNOME e COGNOME, la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione per l’omessa declaratoria di inutilizzabilità delle intercettazioni svolte a carico di NOME COGNOME dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari. Si rimanda, perciò, al contenuto delle relazioni relative ai motivi proposti dagli altri due ricorrenti. L’esclusione dal compendio probatorio delle intercettazioni indicate rende insussistente la prova a carico della ricorrente, per il reato a lei ascritto.
22.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge processuale e il vizio di motivazione in relazione alla condanna per il reato di cui all’art. 512-bis cod. pen.
La ricorrente deduce, come i co-indagati COGNOME e COGNOME, la violazione dell’art. 414 cod. proc. pen. perché l’intera sequenza procedinnentale delle indagini preliminari, in relazione all’iscrizione del coimputato COGNOME nel registro degli indagati, è in contrasto con le norme del codice di procedura, vizio che attribuisce inutilizzabilità patologica agli atti di indagine compiuti.
22.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’affermata sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. a lei contestato.
La sentenza indica, quali prove delle due condotte contestate al capo 22), alcune intercettazioni tra l’interponente COGNOME e le due donne ritenute intestatarie fittizie delle quote della RAGIONE_SOCIALE, nonché l’intercettazione di una lite tra la ricorrente e la figlia, timorosa per il coinvolgimento della madre nell’affare, conversazioni che però dimostrano solo una gestione occulta della società da parte del Sansone, non la sua effettiva titolarità delle quote societarie.
22.4. Con il quarto motivo di ricorso deduce il vizio di motivazione in relazione all’affermata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al capo 22).
La sentenza non ha motivato in modo corretto la sussistenza della finalità di eludere possibili misure ablative, richiesta dalla norma. Essa afferma che la ricorrente era a conoscenza della finalità elusiva del coimputato Sansone solo fondando la valutazione sul rapporto affettivo che ella aveva con questi e sulla predetta lite tra la ricorrente e sua figlia, in cui quest’ultima si mostrav consapevole della illiceità degli affari in cui la madre era coinvolta e dello spessore criminale del Sansone. Questa motivazione si basa pertanto, di fatto,
su una mera presunzione, ovvero compie una valutazione ex post, mentre avrebbe dovuto compierla ex ante, cioè valutando la conoscenza che la ricorrente, concorrente necessaria, aveva o poteva avere al momento in cui ha tenuto la condotta incriminata. L’interponente, infatti, può agire per finalità diverse da quella di eludere possibili misure ablative, e l’interposto concorre con lui, ai sensi dell’art. 110 cod. pen., solo se effettivamente consapevole del fatto che egli agisce per l’unica finalità prevista alla norma.
Il procuratore generale, nella requisitoria orale, ha chiesto il rigetto di tutti i ricorsi.
Le seguenti parti civili hanno inviato memorie e conclusioni dettagliate.
8.1. La parte civile “RAGIONE_SOCIALE” ha depositato una memoria difensiva, redatta dall’avv. NOME COGNOME con cui contesta la fondatezza dei vari motivi dei ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e chiede il rigetto o la declaratoria di inammissibilità di tutti i loro ricorsi.
8.2. La parte civile “Associazione Nazionale per la lotta contro le illegalità e le mafie NOME COGNOME” ha inviato una memoria conclusiva, redatta dall’avv. NOME COGNOME con cui chiede dichiararsi l’inammissibilità o comunque rigettarsi i ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME COGNOME
8.3. La parte civile “RAGIONE_SOCIALE” ha inviato una memoria, redatta dall’avv. NOME COGNOME con cui respinge i motivi dei ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME,NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME.
8.4. La parte civile “RAGIONE_SOCIALE di Palermo”, ha inviato una memoria, redatta dall’avv. NOME COGNOME con cui contesta la fondatezza dei motivi dei ricorsi di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, e ne chiede il rigetto o la declaratoria di inammissibilità.
8.5. Le parti civili “RAGIONE_SOCIALE” e “RAGIONE_SOCIALE” hanno inviato due separate memorie, dal contenuto analogo, redatte dall’avv. NOME COGNOME con cui contestano la fondatezza dei motivi dei
ricorsi di NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME e ne chiedono il rigetto o la declaratoria di inammissibilità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi proposti sono, nel loro complesso, infondati, e devono quindi essere respinti. Deve evidenziarsi, pur non essendo stata proposta la relativa eccezione, salvo da parte del ricorrente COGNOME in ordine al delitto contestato al capo 16), che nessun reato può essere dichiarato prescritto, perché dalla sentenza di secondo grado risulta che è stata disposta la sospensione dei termini di durata della custodia cautelare, ai sensi dell’art. 304, comma 2, cod. proc. pen., dal 27/10/2022, data di emissione della relativa ordinanza, al 09/11/2023, data di emissione della sentenza di appello, per un periodo, quindi, di un anno e tredici giorni. Costituisce un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità quello secondo cui la sospensione dei termini di custodia cautelare comporta la sospensione anche del decorso della prescrizione, per tutti i reati contestati nel relativo procedimento (si vedano Sez. 1, n. 28073 del 08/07/2020, Rv. 279665; Sez. 6, n. 15477 del 28/02/2014, Rv. 258967; Sez. 6, n. 31875 del 12/04/2016, Rv. 267982).
La motivazione della sentenza impugnata si salda ed integra quella del giudice di primo grado, secondo la struttura della c.d. “doppia conforme”.
Ciò impone di escludere che essa possa essere qualificata come apparente o assente in relazione a tutti gli aspetti contestati, in particolare quanto all’interpretazione e alla valutazione delle intercettazioni, e alla valutazione della attendibilità dei vari collaboratori di giustizia e della credibilità delle l dichiarazioni.
Secondo il consolidato principio di questa Corte, infatti, «la struttura giustificativa della sentenza di appello, trattandosi di c.d. doppia conforme, si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando il giudice del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico-giuridici della prima sentenza, concordi nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione» (Sez. 2, n. 25016 del 30/06/2022, in motivazione). Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, quindi, le due sentenze devono essere lette congiuntamente, potendo le argomentazioni di quella di
primo grado andare ad integrare e completare la motivazione di quella di secondo grado.
Quanto all’ammissibilità dei ricorsi, deve ricordarsi che questa Corte, in particolare nelle sentenze Sez. 2, n. 9106 del 12/02/2021, Rv. 280747 e Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015, Rv. 262965, ha più volte ribadito che «in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicché sono inammissibili tutte le doglianze che ‘attaccano’ la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento». In molti ricorsi si sollecita, invece, la rivalutazione degli elementi di prova già esaminati, nelle due sentenze di merito, con motivazioni complete e non illogiche né apparenti in ordine alla sussistenza dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo dei delitti contestati, in particolare del delitt associativo.
Si ricordi altresì che, in tema di sindacato del vizio di motivazione previsto dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il compito del giudice di legittimità, nell’apprezzamento delle fonti di prova, non è di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma solo di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se ne abbiano fornito una corretta interpretazione, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. Unite n. 930 del 13/12/1995 dep. 1996, Clarke, Rv. 203428; Sez. 5, n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Rv. 215745; Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, dep. 2004, Rv. 229369). Anche la sentenza Sez. 2, n. 25016 del 30/06/2022, sopra citata, ha ribadito, nella motivazione, che «al giudice di legittimità è preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di migliore capacità esplicativa».
Nel caso di specie, la motivazione della sentenza della Corte di appello è completa, non manifestamente illogica ed esaustiva, avendo i giudici esaminato
e valutato tutti gli elementi di prova acquisiti, anche attraverso il rinvio all sentenza di primo grado, e non è dunque suscettibile di rivalutazione, nel merito, da parte di questa Corte.
Quanto alle principali contestazioni mosse nei vari ricorsi, relative alla rilevanza probatoria nonché all’interpretazione delle intercettazioni, e alla rilevanza e attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, devono ribadirsi i seguenti principi, più volte stabiliti da questa Corte.
3.1. Le intercettazioni telefoniche sono state valutate correttamente, alla luce del principio giurisprudenziale espresso in termini chiari dalla sentenza Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263714, secondo cui «Le dichiarazioni auto ed etero accusatorie registrate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata hanno piena valenza probatoria e, pur dovendo essere attentamente interpretate e valutate, non necessitano degli elementi di corroborazione previsti dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen.». Questa Corte, pertanto, ha stabilito che «In tema di prove, il contenuto di intercettazioni telefoniche captate fra terzi, da cui emergano elementi di accusa nei confronti dell’indagato, può costituire fonte probatoria diretta della sua colpevolezza, senza necessità di riscontro ai sensi dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., fatto salvo l’obbligo del giudice di valutare il significato delle conversazioni intercettate secondo criteri di linearità logica» (Sez. 3, n. 10683 del 07/11/2023, dep. 2024 Rv. 286150) e, più specificamente, che « In tema di associazione per delinquere di tipo mafioso, gli indizi raccolti nel corso di conversazioni telefoniche intercettate, a cui non abbia partecipato l’imputato, possono costituire fonte diretta di prova, senza necessità di reperire riscontri esterni, a condizione che siano gravi, precisi e concordanti. (In motivazione, la Corte ha precisato che le intercettazioni vanno valutate verificando che: a) il contenuto della conversazione sia chiaro; b) non vi sia dubbio che gli interlocutori si riferiscano all’imputato; c) per il ruolo ricoperto dagli interlocut nell’ambito dell’associazione di cui fanno parte, non vi sia motivo per ritenere che parlino non seriamente degli affari illeciti trattati; d) non vi sia alcun ragione per ritenere che un interlocutore riferisca il falso all’altro)» (Sez. 6, n 5224 del 02/10/2019, dep. 2020, Rv. 278611). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Anche con riferimento alle intercettazioni, peraltro, deve applicarsi il principio richiamato nel paragrafo precedente, relativo ai limiti del controllo della motivazione, secondo cui «In materia di intercettazioni telefoniche, costituisce questione di fatto, rimessa all’esclusiva competenza del giudice di merito, l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti
della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite» (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Rv. 282337; vedi anche la già citata Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715).
3.2. Le dichiarazioni accusatorie dei vari collaboratori di giustizia sono state valutate in maniera adeguata dalla pagina 36 della sentenza di primo grado, e singolarmente per ciascuno degli imputati del reato associativo, escluso il solo COGNOME, nella sentenza di secondo grado, quanto alla credibilità, all’attendibilità intrinseca delle propalazioni e a quella soggettiva del singolo dichiarante, nonché quanto all’individuazione dei riscontri esterni, costituiti dalle cita intercettazioni.
Anche in questo caso le due sentenze applicano correttamente i principi giurisprudenziali consacrati in molteplici pronunce di legittimità. I criteri di valutazione dell’attendibilità dei dichiaranti sono stati precisa dalla fondamentale sentenza Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, Rv. 255143; vanno altresì sottolineate Sez. 1, n. 31004 del 10/05/2023, Rv. 284840, secondo cui «In tema di chiamata di correo, gli altri elementi di prova da valutare, ai sensi dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., unitamente alle dichiarazioni del chiamante, non devono possedere necessariamente i requisiti propri degli indizi di cui all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., essendo sufficiente che siano precisi nella loro oggettiva consistenza e idonei a confermare, in un apprezzamento unitario, la prova dichiarativa dotata di propria autonomia rispetto a quella indiziaria», e Sez. 6, n. 42705 del 12/10/2010, Rv. 248732, secondo cui «In tema di valutazione della chiamata in correità proveniente da un soggetto che abbia reso dichiarazioni complesse, oggetto della valutazione è la dichiarazione globale del chiamante, relativamente ad un determinato episodio criminoso nelle sue componenti oggettive e soggettive, e non ciascuno dei punti dallo stesso riferiti. Ne consegue che, per stabilire l’attendibilità di una dichiarazione concernente più chiamate fra loro strettamente collegate, si può tener conto anche solo di alcuni aspetti significativi di essa, in modo che, una volta effettuata l’operazione con esito positivo, il giudice di merito possa legittimamente riconoscere valore probatorio a tutta la dichiarazione e non solo a quella specificamente riscontrata». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Deve, inoltre, ribadirsi che «il sindacato di legittimità sulla valutazione delle chiamate di correo non consente il controllo sul significato concreto di ciascuna dichiarazione e di ciascun elemento di riscontro, perché un tale esame invaderebbe inevitabilmente la competenza esclusiva del giudice di merito, potendosi solo verificare la coerenza logica delle argomentazioni con le quali sia stata dimostrata la valenza dei vari elementi di prova, in sé stessi e nel loro reciproco collegamento» (Sez. 1, n. 36087 del 13/11/2020, Rv. 280058)
3.3. Nell’esame dei ricorsi proposti dai singoli imputati queste valutazioni, circa la sussistenza di una motivazione sufficiente in ordine alle questioni esposte in questo paragrafo, verranno solamente richiamate, approfondendole solo ove necessario in riferimento a questioni specificamente poste.
E’ opportuno anche esporre una valutazione generale in merito alla sussistenza, nel delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., contestato ai capi 1) e 2), delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6, di cui tutti gli imputati per detti cap hanno chiesto l’esclusione, deducendo la carenza e la manifesta illogicità, sul punto, della motivazione della sentenza impugnata.
Questa ha valutato approfonditamente la questione dalla pag. 17 ed ha affermato, conformemente alla sentenza di primo grado che ha valutato la medesima questione dalla pag. 59, che entrambe le aggravanti, aventi una natura oggettiva, devono essere riferite all’attività dell’associazione e non del singolo partecipe, e la prova della loro sussistenza può fondarsi sul “fatto notorio”, ravvisabile nel caso, come il presente, di un’associazione che costituisce un’articolazione di Cosa Nostra, cioè un sodalizio mafioso storico di cui sono state accertate in via definitiva, attraverso plurime sentenze, sia la natura armata, intesa come disponibilità di armi a cui possono accedere tutti i partecipi e come finalizzazione di tale disponibilità al raggiungimento degli scopi dell’associazione stessa, sia la abituale destinazione dei proventi delle attività illecite al reinvestimento in attività economiche lecite. La sentenza ha peraltro ribadito che il richiamo al “fatto notorio” non legittima un automatismo e deve essere sorretto dalla sussistenza, con riferimento alla singola articolazione, di elementi che confermino sia la astratta disponibilità di armi, o la consapevolezza di questa, sia l’attività di reinvestimento dei proventi illeciti. Tali elementi son stati individuati con riferimento alla famiglia di Passo di Rigano e dei suoi componenti, in particolare il soggetto apicale NOME COGNOME e richiamati alla pag. 22 con riferimento all’aggravante di cui al comma 4, e alle pagine 27 e 28 quanto all’aggravante di cui al comma 6. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La motivazione della sentenza impugnata, sul punto, è esaustiva, logica e conforme ai principi consolidati di questa Corte.
4.1. In merito alla sussistenza dell’aggravante di cui al quarto comma, la sentenza si è conformata ai principi dettati, in particolare, nella sentenza Sez. 2, n. 22899 del 14/12/2022, dep. 2023, Rv. 284761, secondo cui «In tema di associazioni di tipo mafioso storiche (nella specie, “Cosa nostra”), per la configurabilità dell’aggravante della disponibilità di armi, non è richiesta l’esatta individuazione delle stesse, ma è sufficiente l’accertamento, in fatto, della disponibilità di un armamento, desumibile anche dalle risultanze emerse nella
P/U)’-
pluriennale esperienza storica e giudiziaria, essendo questi elementi da considerare come utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori» (si vedano anche Sez. 5, n. 18837 del 05/11/2013, dep. 2014, 260919; Sez. 6 n. 11194 del 08/03/2012, Rv. 252177; Sez. 6, n. 5400 del 14/12/1999, dep. 2000, Rv. 216149). La giurisprudenza è concorde anche nell’affermare che «In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, la circostanza aggravante della disponibilità di armi, prevista dall’art. 416-bis, comma quarto, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa, per l’accertamento della quale assume rilievo anche il fatto notorio della stabile detenzione di tali strumenti di offesa da parte del sodalizio mafioso» (Sez. 2, n. 50714 del 07/11/2019, Rv. 278010; Sez. 6, n. 32372 del 04/06/2019, Rv. 276831). La sentenza, peraltro, evidenzia la sussistenza di elementi che confermano come tra i partecipi alla famiglia di Passo di Rigano fosse nota la disponibilità di armi, ed anche la loro finalizzazione a soddisfare gli scopi della stessa, stante l’inserimento della predetta famiglia nell’associazione denominata RAGIONE_SOCIALE, elementi costituiti non solo dalla già intervenuta condanna di alcuni di costoro per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. così aggravato, ma anche dalle intercettazioni a carico di NOME COGNOME in cui si parla di “attrezzature” disponibili in caso di necessità (e che i due stiano parlando di armi è reso evidente dalla risposta di NOME COGNOME secondo cui essi, invece, devono “stare in pace”), e a carico di COGNOME quanto al possesso di una pistola da parte sua (così alla pag. 22 della sentenza di secondo grado).
4.2. Anche in merito alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen. la motivazione è conforme ai principi giurisprudenziali dettati, in primo luogo, dalla sentenza Sez. U, n. 25191 del 27/2/2014, COGNOME, Rv. 259589, secondo cui «L’aggravante prevista dall’art. 416-bis, comma sesto, cod. pen. ha natura oggettiva e va riferita all’attività dell’associazione in quanto tale e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, sicché essa è valutabile a carico di tutti i componenti del sodalizio di tipo mafioso, sempre che essi siano stati a conoscenza dell’avvenuto reimpiego di profitti delittuosi, ovvero l’abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa». Anche in relazione a questa aggravante, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che lo svolgimento dell’attività di reinvestimento dei proventi in attività lecite deve essere valutata con riferimento all’associazione nel suo complesso e non alla singola articolazione, e che tale attività costituisce un fatto notorio per Cosa nostra e tutte le sue articolazioni: così Sez. 2, n. 23890 del 01/04/2021, Rv. 281463, secondo cui «La circostanza aggravante di cui al sesto comma dell’art. 416-bis cod. pen. – che si configura ove le attività
economiche di cui gli associati intendano assumere o mantenere il controllo siano finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti natura oggettiva e va riferita all’attività dell’associazione e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, il quale, nel caso di associazioni cd. storiche come mafia, camorra e ‘ndrangheta, ne risponde per il solo fatto della partecipazione, dato che – appartenendo da anni al patrimonio conoscitivo comune che dette associazioni operano nel campo economico utilizzando ed investendo i profitti di delitti che tipicamente pongono in essere in esecuzione del suo programma criminoso – un’ignoranza al riguardo in capo ad un soggetto che sia ad alcuna di tali associazioni affiliato è inconcepibile».
Le censure dei vari ricorrenti circa la necessità, secondo la giurisprudenza di legittimità (si veda, ad esempio, Sez. 5, n. 9108 del 21/10/2019, dep. 2020, Rv.278796), che sia provata la provenienza illecita delle somme reinvestite, che il reinvestimento avvenga in attività lecite e che sia di dimensioni tali, sotto il profilo dell’entità dei capitali impiegati, da poter alterare il mercato o quanto meno il settore di investimento, sono state valutate dalla sentenza impugnata, che ha confermato la sussistenza di tali elementi. La provenienza illecita del denaro reinvestito è legittimamente ritenuta dimostrata attraverso la prova logica, come questa Corte ha esplicitamente sostenuto in tema di riciclaggio (reato ritenuto sussistente qualora, in merito ad una somma riciclata, «possa ritenersi certa la sua provenienza illecita, non essendo necessario, a tal fine, l’accertamento giudiziale della commissione del delitto presupposto, della sua esatta tipologia e dei suoi autori, posto che il giudice può affermarne l’esistenza attraverso prove logiche», Sez. 2, n. 16012 del 14/03/2023, Rv. 284522). Nel presente procedimento non è dimostrata alcuna provenienza lecita dei mezzi con cui i vari imputati sia sostentano sé stessi e le loro famiglie, sia reinvestono capitali in svariate attività economiche, non avendo peraltro essi stessi indicato alcuna attività lavorativa lecita o alcuna fonte legittima di entrate; in relazione ad alcuni imputati, inoltre, è stata specificamente accertata la totale assenza di entrate lecite, come indicato in generale alle pagine 61 e 62 della sentenza di primo grado, e dalla pagina 384 della stessa a proposito degli imputati COGNOME e COGNOME nel valutare la sussistenza della necessaria sproporzione reddituale al fine di disporre la confisca dei loro beni in sequestro. L’entità non modesta dei reinvestimenti, poi, è stata ritenuta provata dalle dichiarazioni intercettate, nelle quali NOME COGNOME fa riferimento ad un investimento previsto di 250.000300.000 euro per la sola ristrutturazione dei locali in cui insediare l’attività della RAGIONE_SOCIALE, e di 60.000 euro richiesti dal La Rosa a titolo di buonuscita (pag. 284 della sentenza di primo grado). E’ stato ritenuto significativo anche il fatto che i reinvestimenti in attività commerciali vengano effettuati da molti Corte di Cassazione – copia non ufficiale
coimputati, pur sempre sotto il controllo di NOME COGNOME essendo tale diffusività logicamente valutata come dimostrazione di un’attività svolta dall’intera associazione, e in favore di questa.
E’ stato altresì valutato l’impatto negativo sul mercato delle varie iniziative economiche, e della finalità dei reinvestimenti di creare un monopolio in singoli settori economici, nel territorio controllato dalla famiglia di Passo di Rigano, in particolare nell’apertura di agenzie di scommesse, attività in sé non illecita, salvo che le stesse operino, poi, con modalità non consentite, e nel settore della ristorazione, mediante l’apertura di un bar, una hamburgeria, la RAGIONE_SOCIALE, in ordine alla quale numerose intercettazioni dimostrano che gli imputati agivano con modalità minacciose per costringere i clienti a rifornirsi solo da tale società, come riportato genericamente a pag. 65 della sentenza di primo grado e, più in dettaglio, alle pagine 140-141, 270, 343 di quella di secondo grado, così di fatto cercando di eliminare ogni concorrenza e monopolizzare il settore.
Appare opportuno anche valutare la correttezza delle due sentenze di merito, nella parte in cui hanno ritenuto pienamente accertata l’appartenenza a Cosa nostra della famiglia di Passo di Rigano. Tale affermazione è stata contestata solo dal ricorrente COGNOME nel suo primo motivo di ricorso, ma la sentenza di primo grado ha ampiamente motivato tale appartenenza, ricostruendo non solo la struttura e le modalità organizzative di Cosa nostra, dalla pag. 42, ma soprattutto la storia della famiglia COGNOME, dalla pag. 47, ricostruendo in particolare la sua violenta estromissione dall’associazione e il rientro in Italia, dopo decenni, dei suoi esponenti, essendo stato consentito loro, almeno di fatto, di riprendere ad operare quale articolazione di Cosa nostra.
La valutazione della certezza di tale appartenenza è logica e non contraddittoria, perché dedotta dalla storia della famiglia, tratteggiata anche nella sentenza “Gotha” emessa il 21 gennaio 2008 dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palermo, più volte richiamata nelle due sentenze di merito, dalle dichiarazioni di diversi collaboratori, che attribuiscono agli COGNOME il titolo di “uomini d’onore” e riconoscono il ruolo da loro nuovamente assunto nel territorio, dalla concreta operatività della famiglia, dai rapporti in particolare d NOME COGNOME con altri mafiosi quali Settimo Mineo, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, come emergono dalle intercettazioni, ed in particolare dall’invito rivolto da Settimo Mineo a NOME COGNOME di partecipare alla riunione tenutasi il 29/05/2018, finalizzata alla ricostituzione della commissione provinciale di Cosa nostra, a cui erano ammessi solo i capi mandamento o i relativi reggenti.
La partecipazione ad articolazioni di Cosa nostra, poi, è stata accertata in precedenti procedimenti nei confronti di molti dei ricorrenti i quali, come detto, ad eccezione del solo Militello, non hanno negato né l’esistenza della famiglia mafiosa operante nel mandamento di Passo di Rigano, né la sua appartenenza a Cosa nostra.
Passando, quindi, ad esaminare i ricorsi dei singoli imputati, deve essere ribadita la infondatezza di tutti i motivi del ricorso proposto da NOME COGNOME.
6.1. Il primo motivo di ricorso, che espone una pluralità di questioni, nel suo complesso è infondato e deve essere rigettato. La deduzione della inutilizzabilità delle intercettazioni effettuate sulla base dei decreti autorizzativi n. 1107/2017 e n. 1216/2017, perché i verbali previsti dall’art. 268 cod. proc. pen. non sono stati inseriti nel TIAP, è stata respinta dalla sentenza impugnata con motivazione corretta, in quanto conforme ai principi della giurisprudenza di legittimità. Questa Corte, infatti, ha stabilito che, in caso di inosservanza dei protocolli in materia di inserimento degli atti processuali nell’apposito sistema informatico, le parti devono fare affidamento sul fascicolo cartaceo, che rimane sempre a loro disposizione, con la conseguenza che «in applicazione del principio, la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva rigettato l’eccezione di inutilizzabilità, nel giudizio abbreviato, di un’informativa di polizia giudiziaria trasmessa al giudice con il fascicolo cartaceo, ma non menzionata nell’indice del fascicolo “TIAP”, compilato in assenza della prescritta attestazione del cancelliere di corrispondenza dei contenuti del fascicolo digitalizzato con quelli del fascicolo cartaceo» (Sez. 5, n. 27315 del 07/03/2019, Rv. 276346). In ogni caso, l’eventuale nullità deve essere ritenuta fisiologica e non patologica, perché non consiste in una assenza dei verbali stessi; essa, perciò, non è eccepibile nel giudizio abbreviato, sulla base del consolidato principio dettato da Sez. U, n. 16 del 21/06/2000, COGNOME, Rv. 216246. Deve anche ribadirsi che «La inutilizzabilità cosiddetta “patologica”, rilevabile, a differenza di quella cosiddetta “fisiologica”, anche nell’ambito del giudizio abbreviato, costituisce un’ipotesi estrema e residuale, ravvisabile solo con riguardo a quegli atti la cui assunzione sia avvenuta in modo contrastante con i principi fondamentali dell’ordinamento o tale da pregiudicare in modo grave ed insuperabile il diritto di difesa dell’imputato» (Sez. 3, n. 882 del 09/06/2017, dep. 2018, Rv. 272258). La sentenza Sez. 3, n. 40209 del 13/05/2014, Rv. 260424, citata dal ricorrente, è relativa ad una ben diversa situazione, di un’assenza o contraddittorietà dei verbali stessi, mentre nel presente caso la sentenza afferma alle pagine 42 e 43, senza essere smentita sul punto, che i Corte di Cassazione – copia non ufficiale
verbali erano presenti nel fascicolo cartaceo del pubblico ministero ed erano completi e non contraddittori, come affermato dalla sentenza di primo grado, alla pag. 26, e come verificato dalla stessa Corte di appello. E’ infine evidente, come affermato dalla sentenza impugnata, che l’asserita violazione dell’art. 442, comma 1 -bis, cod. proc. pen., ripetuta dal ricorrente in questo motivo di ricorso perché il giudice avrebbe deciso utilizzando atti non contenuti nel fascicolo processuale, ma da lui acquisiti dopo l’udienza di discussione, è insussistente, essendo detta norma relativa al materiale probatorio che il giudice può utilizzare per la decisione, materiale a cui è estraneo quello necessario per verificare la regolarità formale dell’acquisizione delle prove stesse.
La deduzione della inutilizzabilità delle intercettazioni effettuate sulla base dei decreto n. 28, con cui è stata prorogata l’intercettazione disposta con il decreto autorizzativo n. 1107/2017, per la tardività della sua emissione, è manifestamente infondata: oltre a non rispettare l’onere di allegazione, il ricorrente ripete la doglianza esposta alla Corte di appello, in particolare quanto alla mancata emissione del decreto attuativo, senza confrontarsi con la sentenza impugnata, che risponde dettagliatamente sul punto, affermando che, secondo la costante giurisprudenza, il decreto di proroga tardivo assume il valore di una nuova autorizzazione, e in questo caso esso era completo perché, richiamando esplicitamente le modalità esecutive disposte nel provvedimento originale, conteneva in sé anche il necessario decreto attuativo.
Questo primo motivo di ricorso è, infine, inammissibile nella parte in cui censura la valutazione delle dichiarazioni dei vari collaboratori di giustizia, richiamandone alcune parti per evidenziarne le asserite incongruenze o falsità. La sentenza impugnata ha valutato in modo approfondito e non manifestamente illogico, dalla pag. 29, tali doglianze, ed il ricorso ne ripropone alcune senza confrontarsi con tale decisione, e sollecitando a questa Corte una diversa valutazione della credibilità e rilevanza di tali dichiarazioni. Devono, perciò, ribadirsi i principi esposti nei precedenti paragrafi 2, in merito ai motivi di ricors proponibili davanti al giudice di legittimità, e 3.2, in merito ai criteri valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
6.2. Il secondo motivo del ricorso proposto da NOME COGNOME deve essere dichiarato inammissibile, perché interamente versato in fatto. Il ricorrente censura la valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in merito al ruolo apicale a lui attribuito sul mandamento di Boccadifalco/Passo di Rigano, ma la motivazione della sentenza impugnata, anche sul punto , è ampia, non contraddittoria e non manifestamente illogica, e si sottrae, perciò, al controllo di legittimità. La sentenza, inoltre, ritiene provato il ruolo apicale de ricorrente non solo dalle dichiarazioni dei predetti collaboratori, ma anche da
numerose intercettazioni, esaminate dalla pag. 44, dalle quali emerge la sua posizione sovraordinata rispetto agli altri membri della famiglia mafiosa, il riconoscimento della sua autorevolezza da parte dei terzi, e l’invito rivoltogli di partecipare alla riunione del 29/05/2018 finalizzata alla ricostituzione della commissione provinciale di Cosa nostra, partecipazione riservata ai capi mandamento o ai loro reggenti. Il ricorso non si confronta con questa parte della motivazione, ed anche per tale ragione questo motivo deve essere dichiarato inammissibile.
6.3. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza, in quanto non sussiste alcuna violazione di legge processuale né lesione dei diritti della difesa in relazione alla contestazione dell’aggravante della natura armata dell’associazione mafiosa di appartenenza. Tale aggravante è contestata in una forma sufficientemente chiara e precisa, idonea a consentire un’adeguata difesa, perché non solo vi è la citazione esplicita della norma, l’art. 416-bis, comma 4, cod. pen., ma la contestazione dell’aggravante è espressamente riportata nella parte finale del testo, con la precisazione del trattarsi di una «associazione armata».
Anche il dedotto vizio di motivazione è insussistente: la sentenza impugnata non ha preso in esame l’eccezione di un difetto di contestazione, ma deve essere ribadito il principio, stabilito da questa Corte, secondo cui «In tema di impugnazioni è inammissibile, per carenza d’interesse, il ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado che non abbia preso in considerazione un motivo di appello inammissibile “ah origine” per manifesta infondatezza, in quanto l’eventuale accoglimento della doglianza non sortirebbe alcun esito favorevole in sede di giudizio di rinvio» (Sez. 2, n. 35949 del 20/06/2019, Rv. 276745; vedi anche Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Rv. 263980).
6.4. Il quarto motivo del ricorso di NOME COGNOME deve essere rigettato in quanto infondato.
Il ricorrente deduce l’insussistenza, nel merito, delle aggravanti di cui all’art. 416-bis, commi 4 e 6, cod. pen., ma la motivazione della sentenza impugnata è, sul punto, esauriente, logica, fondata sugli elementi probatori acquisiti e conforme ai principi della giurisprudenza di legittimità, per le ragioni già esposte ai superiori paragrafi 4.1 e 4.2., ai quali si rimanda per la valutazione dell’infondatezza di questo motivo di ricorso.
6.5. Il quinto e il sesto motivo di ricorso, relativi all’asserita insussistenza dei reati di estorsione contestati ai capi 4) e 5), sono infondati e devono essere rigettati.
Le due vicende sono ricostruite in modo dettagliato nella sentenza di primo grado, alle pagine da 224 e da 235, attraverso le intercettazioni che, come
valutato nel superiore paragrafo 6.1., sono pienamente utilizzabili, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente. In entrambe le vicende, NOME COGNOME interviene per chiarire i termini dell’estorsione, che è già in atto ad opera di altri soggetti: nel primo episodio egli sollecita gli estorti, che sono suoi parenti, a versare quanto richiesto dall’estorsore, che si è rivolto a lui per lamentarsi del tentativo degli estorti di versare una somma inferiore; nel secondo episodio egli interviene a concordare con gli estorsori l’importo dell’estorsione, affinché esso tenga conto anche degli interessi della famiglia di Passo di Rigano.
Le due sentenze di merito hanno valutato tali condotte del ricorrente come una forma di concorso nell’estorsione perpetrata da altri, e tale valutazione è logica e conforme agli elementi probatori acquisiti. Il ricorrente, infatti, da un lato rafforza il proposito criminoso degli estorsori, sostenendo un loro “diritto” a commettere il reato, e dall’altro ne facilita l’azione perché induce gli estorti a continuare a sottostare alla pretesa criminale. Il suo intervento, pertanto, concorre nella commissione di entrambi i reati, perché è diretto a rafforzare la singola azione criminosa in atto, che stava rischiando di cessare, ed inoltre rafforza il dominio mafioso sul territorio, perché ribadisce il sistema di suddivisione del potere delle singole famiglie, distinto per mandamenti, e ribadisce il potere di ogni singola articolazione sul territorio di competenza. Egli, peraltro, ricava da tale intervento anche un vantaggio personale, sia perché il riconoscimento e mantenimento del potere delle singole famiglie sui propri mandamenti è funzionale anche all’attività criminale svolta dalla sua famiglia, sia perché egli rafforza il vincolo con le altre famiglie mafiose, a cui appartengono gli estorsori, e dimostra sia a queste ultime, sia agli estorti, la propria autorevolezza, facendo apparire il suo intervento necessario, e idoneo ad eliminare difficoltà o liti che potrebbero sfociare in atti di violenza. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il concorso del ricorrente nei due reati, pertanto, è provato ed è stato correttamente ritenuto sussistente: il concorso nel reato di estorsione, infatti, può consistere anche in una condotta agevolatrice della sua consumazione, come nel caso dell’intermediario che agisca non nell’interesse esclusivo della vittima e per ragioni di solidarietà, ma eserciti su questa una forma di pressione, anche solo morale, così contribuendo alla sua coartazione psicologica (si veda Sez. 2, n. 6824 del 18/01/2017, Rv. 269117).
6.6. I motivi settimo, ottavo e nono, relativi alla insussistenza dei reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., possono essere esaminati congiuntamente, stante il loro contenuto analogo. Essi sono infondati e devono essere respinti perché, anche in relazione ad essi, la motivazione delle due sentenze di merito è esaustiva, logica, e fondata sugli elementi probatori raccolti, di cui fanno parte le numerose intercettazioni perché pienamente utilizzabili, come già valutato. Tali
intercettazioni provano ampiamente l’intestazione fittizia a terzi delle varie attività indicate nelle imputazioni, e la finalità di sottrarre i beni a possi provvedimenti ablatori, che il ricorrente sapeva di poter subire, essendo già sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, come risulta dalla imputazione di cui al capo 24).
In relazione al reato di cui al capo 10), il ricorrente non si confronta adeguatamente con le due sentenze di merito, in quanto sostiene la propria estraneità all’attività della RAGIONE_SOCIALE affermando essere irrilevante la sua asserita proprietà dell’immobile in cui la società opera, proprietà peraltro negata, ed essere mancante la prova di un suo conferimento di denaro per l’acquisto delle quote intestate al genero COGNOME mentre i giudici di merito hanno ritenuto dimostrato che egli sia il reale titolare di dette quote non solo dalla proprietà dell’immobile, valutata come un mero indizio, anche se pregnante, ma soprattutto dalle intercettazioni, dalle quali emerge con evidenza il suo interessamento non alla concreta gestione dell’attività, ma piuttosto al controllo del suo corretto e utile funzionamento, pretendendo dal genero un resoconto preciso delle movimentazioni di denaro, delle forniture effettuate, dei clienti restii ad approvvigionarsi da essa. L’investimento diretto da parte del ricorrente per l’acquisto delle quote, poi, può essere ritenuto dimostrato anche attraverso la prova logica o indiziaria, come ribadito dalla sentenza di secondo grado richiamando i principi dettati da questa Corte (Sez. 6, n. 26931 del 29/05/2018, Rv. 273419): la deduzione della sussistenza di tale prova dal forte interessamento del ricorrente in merito all’andamento della società, e dal suo ruolo dominante sul genero, formale intestatario delle quote, appare logica, in quanto il rapporto tra i due sarebbe necessariamente diverso se egli fosse un socio alla pari dello COGNOME e questi apparirebbe personalmente interessato al buon andamento della società, mentre risulta preoccupato solo per la necessità di assicurare tale buon andamento al suocero. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Anche in relazione al reato di cui al capo 12) il ricorso non si confronta adeguatamente con le motivazioni di entrambe le sentenze, che deducono la titolarità della srlk RAGIONE_SOCIALE dalle intercettazioni, dalle quali emerge con evidenza il ruolo del ricorrente quanto meno come socio occulto, sempre attraverso l’interposizione del genero, come questi riferisce a sua moglie nella conversazione del 05/11/2018, citata alle pagine 71-72 della sentenza di secondo grado. Le intercettazioni evidenziano il diretto e continuo interessamento del ricorrente all’apertura dell’attività, per la quale egli diverrebbe socio unitamente al COGNOME e al La Rosa, in particolare calcolando l’entità dell’investimento, per il quale afferma essere necessari 250.000-300.000 euro, e soprattutto preoccupandosi di far chiedere, per effettuare l’operazione,
l’autorizzazione del reggente del mandamento di Cruillas, nel cui territorio è posto l’immobile da utilizzare, come sottolineato alla pag. 71 della sentenza di secondo grado.
In relazione al reato di cui al capo 18), analogamente, il ricorso non si confronta adeguatamente con la motivazione di entrambe le sentenze, fondata sulle intercettazioni di cui è infondatamente ribadita la inutilizzabilità. Anche in questo caso, infatti, le intercettazioni dimostrano che il ricorrente era direttamente coinvolto nell’installazione dell’attività, interessandosi dei costi e dei pagamenti necessari, ai quali egli stesso provvedeva, effettuando così un investimento sufficiente per dimostrare la sua titolarità, insieme ad NOME COGNOME e NOME COGNOME atteso anche che da tale investimento egli, dopo la chiusura dell’attività, pretendeva di rientrare, come motivato alla pag. 78 della sentenza di secondo grado. L’affermazione del ricorrente, secondo cui le conversazioni intercettate non si riferirebbero all’attività contestata nell’imputazione, commessa in data 11/04/2017, perché successive a tale data, e perché l’intestatario fittizio, COGNOME avrebbe chiesto l’autorizzazione a gestire una sala scommesse solo a settembre 2017, iniziando così un’attività diversa da quella contestata, è infondata, perché le due sentenze ricostruiscono dettagliatamente l’operazione, evidenziando che già in data 11/04/2017 l’RAGIONE_SOCIALE aveva dichiarato alla Camera di commercio l’inizio di un’attività di internet point e posto telefonico pubblico, pur continuando a lavorare come pizzaiolo, per poi chiedere nel settembre successivo il rilascio di un’autorizzazione ai sensi dell’art. 88 TULPS. Le intercettazioni sono relative, pertanto, ai lavori per la predisposizione dell’agenzia di scommesse, ma correttamente il reato è stato contestato come commesso 1’11/04/2017, costituendo tale primo atto già una intestazione fittizia dell’attività, palesemente finalizzato alla successiva apertura della diversa attività. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Il ricorrente contesta anche la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416bis.1 cod. pen., in relazione a tutti e tre i reati, ma non si confronta con le sentenze di merito, che motivano tale sussistenza in modo approfondito e logico, soprattutto dalla pagina 265 e poi alla pag. 272 della sentenza di primo grado. In particolare, la loro motivazione è logica nella parte in cui deduce l’essere l’apertura delle varie attività, intestate fittiziamente a terzi, funzionale non ag interessi del singolo ma a quelli dell’associazione, dal fatto che ad esse partecipano, solitamente in forma occulta, numerosi membri dell’associazione stessa, dal fatto che gli investimenti sono di entità tale da provenire necessariamente dai denari appartenenti all’associazione, stante anche la innpossidenza dei singoli sodali, dal fatto di essere le attività consistenti per lo più in agenzie di scommesse, attività per la quale la famiglia di Passo di Rigano
opera o intende operare, nel suo territorio, in forma monopolistica, rafforzando anche attraverso tali attività imprenditoriali il proprio controllo sul territorio.
In merito al reato di cui al capo 10), analogamente la sussistenza dell’aggravante è stata dedotta dalle modalità di gestione della RAGIONE_SOCIALE che, senza giungere all’impiego del metodo mafioso, impone però ai clienti di rispettare l’esclusività nei rifornimenti, utilizzando così l’attività per ribadi consolidare il controllo sul territorio, a vantaggio dell’associazione.
In relazione al capo 12), poi, la sentenza di secondo grado evidenzia, alle pagine 74 e 75, due circostanze che, logicamente, vengono valutate come estremamente significative dell’essere l’attività della srls RAGIONE_SOCIALE svolta in favore della famiglia mafiosa e non del solo ricorrente: il fatto che egli informi dell’operazione il capo mandamento COGNOME che se ne dimostra molto soddisfatto, e il fatto che chieda al reggente del mandamento di Cruillas l’autorizzazione per l’apertura dell’agenzia nel territorio sotto il suo controll affermando però, falsamente, che ad essa è interessata una compagnia del Nord. La soddisfazione mostrata dal capo mandamento COGNOME dimostra che egli era consapevole del fatto che l’attività era diretta ad agevolare l’associazione, in quel momento da lui diretta; il tacere al COGNOME, reggente del mandamento di Cruillas, che all’attività era direttamente interessato il ricorrente era finalizza ad evitare che egli sospettasse una volontà espansiva della famiglia di Passo di Rigano, alla quale avrebbe naturalmente associato l’intervento di NOME COGNOME.
Anche con riferimento alla sussistenza dell’aggravante contestata, pertanto, i predetti motivi di ricorso sono infondati e devono essere rigettati.
6.7. Il decimo motivo di ricorso, relativo alla sussistenza del delitto di cui all’art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011, è manifestamente infondato e deve, perciò, essere dichiarato inammissibile.
Il ricorso ripete il motivo di appello, già respinto dalla sentenza impugnata, alla pag. 80, con una motivazione adeguata, senza confrontarsi con essa. Oltre a non rispettare l’onere di allegazione, non risultando allegato il decreto applicativo della misura di prevenzione, asseritamente privo della prescrizione di non associarsi abitualmente a soggetti pregiudicati, il ricorso afferma erroneamente che tale prescrizione non può essere ritenuta applicata perché non era prevista dalla normativa vigente all’epoca della sua emissione, il 29 febbraio 1984. Tale affermazione è palesemente errata, in quanto la legge n. 1423/1956 ha sempre previsto come obbligatoria tale prescrizione, e sicuramente la prevedeva alla data di emissione del provvedimento violato, dal momento che il suo art. 5 stabiliva che, in ogni caso, il provvedimento applicativo della misura doveva contenere il divieto di “associarsi abitualmente a persone che hanno
subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza”, divieto ribadito dall’art. 8, comma 4, d.lgs. n. 159/2011, vigente all’epoca di esecuzione della misura stessa. Correttamente, pertanto, le due sentenze di merito hanno ritenuto sussistente, ed applicata al ricorrente, detta prescrizione, conformandosi al principio di questa Corte secondo cui «In tema di sorveglianza speciale, le prescrizioni accessorie di cui all’art. 8 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, valevoli ad adattare al caso concreto le esigenze di difesa sociale proprie delle misure di prevenzione, hanno efficacia integrativa del precetto relativo ai reati di cui all’art. 75, commi 1 e 2, del decreto citato, sicché anche la loro violazione integra tali reati» (Sez. 1, n. 32575 del 21/04/2023, Rv. 285051)
Deve essere dichiarata l’infondatezza di tutti i motivi del ricorso proposto da NOME COGNOME che deve perciò essere rigettato.
7.1. GLYPH Il primo e il secondo motivo di ricorso sono al limite della inammissibilità, per la loro carenza di specificità. Deve ribadirsi che, secondo questa Corte, «L’impugnazione è inammissibile per genericità dei motivi se manca ogni indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità» (Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007, Rv. 236945) e «In tema di ricorso per cassazione, sono inammissibili i motivi che riproducono pedissequamente le censure dedotte in appello, al più con l’aggiunta di espressioni che contestino, in termini meramente essertivi ed apodittici, la correttezza della sentenza impugnata, laddove difettino di una critica puntuale al provvedimento e non prendano in considerazione, per confutarle in fatto e/o in diritto, le argomentazioni in virtù delle quali i motivi di appello non sono stat accolti» (Sez. 6, n. 23014 del 29/04/2021, Rv. 281521).
Il ricorrente, oltre ad esporre solo motivi in fatto e diretti a richiedere giudice di legittimità una diversa valutazione delle prove, non consentita così come ribadito nel superiore paragrafo 2, ripete i motivi già contenuti nell’atto di appello, come riportati nella sentenza impugnata, motivi che quest’ultima ha affrontato singolarmente e a cui ha risposto con motivazione esaustiva e logica. La sentenza impugnata, in particolare, evidenzia la rilevanza delle intercettazioni, se esaminate e valutate non in modo parcellizzato, ma nella loro concatenazione, così come emergente dalla sentenza di primo grado, che le riporta in modo dettagliato: da queste risulta provato il ruolo preminente del ricorrente, in seno alla famiglia di Passo di Rigano, riconosciuto dal reggente NOME COGNOME già prima della sua scarcerazione, dimostrato dal rapporto che si instaura tra i due, di palese superiorità del COGNOME come risulta
dall’intercettazione del 19/04/2018, in cui egli impone a NOME COGNOME di risolvere la questione di tale COGNOME e di risolverla in modo opposto a quello da lui prospettato, ruolo infine riconosciuto dagli altri capi mandamento, che invitano COGNOME a partecipare alla riunione del 29/05/2018, finalizzata alla ricostituzione della commissione provinciale di Cosa nostra e riservata, come già sottolineato, ai capi e ai reggenti dei mandamenti. La sentenza impugnata riporta stralci di numerose intercettazioni, valutate dalla pag. 82, dalle quali emerge il coinvolgimento di questo ricorrente nelle vicende interne dell’associazione e nei suoi rapporti con le associazioni dei territori vicini, su quali viene informato da NOME COGNOME così come risulta dalla conversazione dell11/05/2018, e si interessa direttamente del controllo delle attività imprenditoriali che operano o intendono impiantarsi nel territorio controllato dalla famiglia di Passo di Rigano, o addirittura in altri territori, come emerge dalle conversazioni tra terzi del 21/08/2018 e del 10/12/2018: la conseguente valutazione che esse dimostrino non solo la immediata ripresa della partecipazione del COGNOME all’associazione stessa, ma anche il suo ruolo apicale, è logica e conforme al contenuto di tali intercettazioni, che appaiono chiare e non corrispondenti alla interpretazione alternativa fornita dal ricorrente per alcune di esse.
Anche le doglianze in merito alla valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ripetono i motivi di appello, ribadendone la inattendibilità intrinseca ed estrinseca, per la mancanza di riscontri. Il giudice di legittimità, come ricordato al superiore paragrafo 3.2., è tenuto solo a verificare la coerenza logica delle argomentazioni con le quali sia stata valutata la credibilità e la rilevanza probatoria di tali dichiarazioni, senza poter sostituire un valutazione alternativa a quella proposta dai giudici di merito, se non affetta dai vizi della manifesta illogicità, carenza, contraddittorietà. Nel presente caso, la sentenza impugnata valuta approfonditamente tali dichiarazioni, in particolare, dalla pag. 96, quelle del collaborante COGNOME in merito alla partecipazione del COGNOME alla riunione svoltasi il 29/05/2018, ritenute riscontrate dalle dichiarazioni del collaboratore COGNOME e da alcune intercettazioni a carico di NOME COGNOME. La partecipazione del ricorrente alla predetta riunione, pertanto, è logicamente ritenuta dimostrativa del ruolo apicale da lui nuovamente assunto all’interno dell’articolazione di Passo di Rigano, ruolo emergente, come detto, anche da molte intercettazioni, la cui interpretazione, nuovamente e approfonditamente motivata dalla pag. 104, alla luce delle ulteriori deduzioni della difesa in merito alla loro idoneità a dimostrare il ruol apicale ricoperto dal COGNOME, non presenta il vizio di illogicità dedotto nel secondo motivo di ricorso.
Non sussistono, pertanto, i vizi di violazione di legge e di difetto di motivazione, dedotti in questi due motivi di ricorso, che devono perciò essere rigettati perché infondati.
7.2. Il terzo e il quarto motivi di ricorso sono infondati.
La sussistenza delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen., contestate al ricorrente al capo 1), è stata ritenuta provata, dalle due sentenze di merito, mediante le argomentazioni già esaminate nei superiori paragrafi 4.1 e 4.2. e ivi ritenute logiche e non contraddittorie. Ad esse si rimanda, perciò, per la valutazione dell’infondatezza di questi due motivi di ricorso. Nei confronti di questo ricorrente, in particolare, deve evidenziarsi che egli era a conoscenza della natura armata dell’associazione di appartenenza, in quanto articolazione di Cosa nostra, essendo stato già condannato per il delitto associativo aggravato dalla natura armata dell’associazione, e che il suo diretto intervento nel controllo delle attività imprenditoriali svolte dall’associazione mediante il reimpiego dei proventi delittuosi, e quindi la sua partecipazione a tale reimpiego, è dimostrato non solo dalle conversazioni citate nella sentenza impugnata, circa le decisioni assunte per consentire o meno lo svolgimento di specifiche attività, ma dal suo coinvolgimento, da parte di NOME COGNOME nell’iniziativa dell’apertura di un’agenzia di scommesse tramite la srls RAGIONE_SOCIALE, riferito nel superiore paragrafo 6.6., in relazione all’ottavo motivo di ricorso di NOME COGNOME. Anche questi due motivi di ricorso, pertanto, devono essere rigettati.
I motivi del ricorso proposto da NOME COGNOME sono infondati, e devono essere rigettati.
8.1. Nel primo motivo anche questo ricorrente, inizialmente, deduce la inutilizzabilità delle intercettazioni svolte sulla base dei decreti autorizzativi 1107/2017 e n. 1216/2017, perché i verbali previsti dall’art. 268 cod. proc. pen. non sono stati inseriti nel TIAP, e di quelle svolte in seguito al decreto n. 28 che ha prorogato la durata delle operazioni autorizzate con il decreto n. 1107/2017, per la sua tardività. Le ragioni di tali doglianze sono speculari a quelle prospettate nel primo motivo del ricorso presentato da NOME COGNOME per cui si rimanda alla valutazione contenuta nel superiore paragrafo 6.1., con cui dette doglianze sono state rigettate.
La seconda parte del motivo di ricorso afferma, invece, la inidoneità di tali intercettazioni, anche qualora ritenute utilizzabili, per provare la responsabilità del ricorrente, ma anche questa doglianza è infondata, e al limite della inammissibilità. Il ricorrente, infatti, esamina le singole intercettazioni in modo parcellizzato, sostenendo l’illogicità dell’interpretazione che ne viene data dalla
sentenza impugnata: egli, quindi, di fatto ne chiede a questa Corte una diversa interpretazione senza evidenziare, in concreto, la manifesta illogicità di quella riportata nella sentenza impugnata ed omettendo di confrontarsi con essa, che valuta le conversazioni non in modo parcellizzato, ma specificando, dalla pag. 119, la necessità che esse vengano lette unitamente alle altre risultanze probatorie, e in particolare alle altre conversazioni in cui terzi soggetti fanno espliciti riferimento al COGNOME e al suo ruolo nell’articolazione di Passo d Rigano. Il ricorso, invece, contesta l’interpretazione delle singole intercettazioni, leggendole separatamente e riproponendo le medesime doglianze già affrontate dalla sentenza di secondo grado. Questa ha respinto tali doglianze con motivazione logica e completa, dalla pag. 119 alla pag. 132, sottolineando in particolare come da tutte le conversazioni emerga il rapporto subordinato del ricorrente verso NOME COGNOME la sua messa a disposizione per eseguirne gli ordini, e il suo coinvolgimento nelle vicende relative alla gestione delle agenzie di scommesse e delle macchinette da gioco installate in locali di terzi, riscuotendone i profitti e partecipando ad essi. Deve ribadirsi, pertanto, l’inammissibilità di tali doglianze, stanti i limiti del controllo di legittimità questioni di merito, quale è l’interpretazione e la valutazione delle intercettazioni quando, come in questo caso, essa non è manifestamente illogica, come ricordato al superiore paragrafo 3.1.
Anche le doglianze in merito alla rilevanza degli incontri con altri soggetti mafiosi e delle pur poche dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, infine ripetono le questioni sollevate con l’atto di appello, e respinte dalla pag. 132 con motivazione logica e non contraddittoria, ritenendole peraltro delle conferme alle prove già raccolte attraverso le intercettazioni; anche tali doglianze sono, pertanto, infondate, e devono essere rigettate.
8.2. Con il secondo e il terzo motivo di ricorso il COGNOME contesta la ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen.
Tali motivi sono analoghi a quelli proposti nel terzo e nel quarto motivo del ricorso di NOME COGNOME per cui si ritiene sufficiente rinviare alla valutazione di infondatezza già esposta ai paragrafi 6.3 e 6.4. Deve anche sottolinearsi che, dall’esame delle intercettazioni relative a questo ricorrente, svolto dalla sentenza impugnata, emergono conversazioni che lo coinvolgono direttamente in operazioni commerciali, o quanto meno dimostrano che egli ne è a conoscenza, circostanza che dimostra ulteriormente la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen.
I motivi del ricorso proposto da NOME COGNOME sono infondati, e devono essere rigettati.
Egli, nei suoi due motivi di ricorso, deduce l’insussistenza delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen., con argomentazioni analoghe a quelle contenute nel quarto motivo del ricorso proposto da NOME COGNOME Appare sufficiente, perciò, rinviare alla valutazione di infondatezza già espressa in merito a tale ricorso e nel superiore paragrafo 4. Anche per questo ricorrente, peraltro, le intercettazioni esaminate nella sentenza impugnata dimostrano il suo diretto coinvolgimento in operazioni commerciali, in particolare la gestione della RAGIONE_SOCIALE e quindi la sua conoscenza delle modalità di reinvestimento del denaro dell’associazione in attività imprenditoriali, circostanza che conferma, nei suoi confronti, la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen.
I motivi del ricorso proposto da NOME COGNOME sono infondati, e devono essere rigettati.
10.1. Anche questo ricorrente, nel primo e nel secondo motivo del suo ricorso, deduce l’insussistenza delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen., con argomentazioni analoghe a quelle di altri ricorrenti, per cui si ritiene sufficiente rinviare alla valutazione di infondatezza di tali doglianz già espressa nel superiore paragrafo 4. In relazione a questo ricorrente, peraltro, deve sottolinearsi che la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416bis, comma 6, cod. pen., è confermata dal suo diretto e stabile coinvolgimento nella gestione del settore delle scommesse, svolta almeno in parte anche con modalità legittime e costituente, pertanto, l’attività di reinvestimento sanzionata dalla norma, e che la sentenza di primo grado ha accertato e motivato, dalla pagina 384, la sua situazione di impossidenza, logicamente deducendo, da ciò, che le somme reinvestite anche da costui provengono dall’attività illecita svolta dall’associazione.
10.2. Nel terzo motivo di ricorso questo ricorrente chiede l’annullamento della sentenza di appello in merito alla confisca disposta sull’immobile sito in Torretta località Piano INDIRIZZO‘Occhio, per la sua erroneità circa il titolo de provvedimento ablativo e circa la provenienza lecita delle risorse economiche per l’acquisto del bene, avvenuto in epoca molto antecedente alla contestata partecipazione all’associazione mafiosa.
Il motivo è infondato, e deve essere rigettato.
In primo luogo non sussiste la lamentata carenza motivazionale perché, come già sottolineato nel precedente paragrafo 2, la sentenza di appello è stata strutturata nella forma della “doppia conforme”, per cui la sua motivazione si
fonda con quella della sentenza di primo grado, nella quale è indicato in modo chiaro, alla pag. 383, che il provvedimento ablativo è disposto ai sensi dell’art. 240-bis cod. pen., in relazione all’art. 512-bis cod. pen., e quindi richiede, per la sua adozione, l’accertamento di una sproporzione del valore del bene rispetto al reddito dichiarato, e l’incapacità dell’imputato di dimostrarne la legittima provenienza.
In secondo luogo, la citate condizioni, della sproporzione reddituale e della mancata prova di una provenienza legittima del bene, sono state accertate dal giudice di primo grado, e motivate dalla pag. 386, e ribadite dalla sentenza di secondo grado alla luce delle doglianze esposte nell’atto di appello. La totale impossidenza del Fanara e del suo nucleo familiare è stata accertata dalla polizia giudiziaria, e non smentita dal ricorrente, in particolare negli anni 2017 e 2018 in cui egli ha iniziato una rilevante attività di ristrutturazione dell’immobi acquistato nel 2007, in condizioni di rudere. L’affermazione del ricorrente, di avere eseguito una ristrutturazione modesta e di averla, comunque, terminata nel 2015 o 2016, prima di commettere, secondo l’imputazione, il delitto di partecipazione all’associazione mafiosa, è stata ritenuta smentita, in entrambe le sentenze di merito, con motivazioni logiche ed esaustive, dalle intercettazioni dalle quali risulta che, nel corso dell’anno 2018, egli si faceva recapitare, presso l’immobile in questione, rilevanti quantità di materiale da costruzione, curava il rifacimento del tetto, si informava sulla possibilità di realizzare una piscina, realizzava un nuovo impianto elettrico, addirittura concordava la realizzazione del giardino, con un prato e delle piante interrate. La sentenza di primo grado dà atto, anche, della mutata consistenza dell’immobile che, secondo le foto estrapolate dal sito Internet “google maps”, è stato dotato anche di una piscina. La sentenza di primo grado ha altresì escluso che le risorse impiegate per l’acquisto dell’immobile, nel 2007, possano provenire da un mutuo concesso in quell’anno a lui stesso e a sua madre, avendo la guardia di finanza accertato che esso aveva una diversa finalità, o che possano provenire dalle altre entrate lecite dimostrate, perché esse sono molto inferiori al valore dell’immobile e al costo della sua ristrutturazione, nonché risalgono ad epoche molto anteriori a quest’ultima. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La sentenza di secondo grado ha ribadito queste valutazioni, evidenziando in particolare che il mutuo per C 82.000 ottenuto nel 2007 era finalizzato, secondo gli atti dell’Ufficio del Registro, al recupero edilizio di un diverso immobile, offer in garanzia della restituzione del prestito, circostanza che, logicamente, è stata ritenuta idonea ad escludere che detta somma sia stata impiegata per l’acquisto dell’immobile confiscato, ma soprattutto ha evidenziato che non è stata fornita alcuna prova della provenienza lecita delle somme impiegate, molti anni dopo,
per la sua ristrutturazione. COGNOME La complessiva motivazione fornita dalle due sentenze di merito è quindi esaustiva in merito alla sussistenza dei requisiti richiesti per applicare la confisca ai sensi dell’art. 240-bis cod. pen.: è stata ritenuta provata la notevole sproporzione tra i redditi dichiarati e il valore del bene, sussistente sia al momento del suo acquisto sia, soprattutto, al momento della sua ristrutturazione, e non è stata ritenuta provata la provenienza lecita né delle somme impiegate per l’acquisto dell’immobile, né di quelle impiegate per la sua ristrutturazione. Questa, poi, è stata legittimamente ritenuta rilevante e tale da incrementare in modo significativo il valore del bene, vista la trasformazione operata e i lavori effettuati nel 2018, come deducibili dalle intercettazioni. Non vi è, quindi, una carenza motivazionale in merito al collegamento cronologico tra l’incremento patrimoniale e l’attività delittuosa, perché la tesi difensiva, di una ristrutturazione terminata tra il 2015 e il 2016, o quanto meno compiuta in quell’arco temporale con riferimento ai lavori più costosi, è stata ritenuta smentita dalle intercettazioni, valutate come dimostrative di un forte incremento del valore dell’immobile realizzato dopo la commissione del reato associativo. Deve peraltro ribadirsi che, per la confisca di un bene ai sensi dell’art. 240-bis cod. pen., non è richiesto il requisito della sua pertinenzialità al reato per il qual il titolare viene condannato, per cui essa può essere disposta su beni acquistati anche in epoca anteriore ad esso, sia pure in un ambito di ragionevolezza temporale (si vedano Sez. 2, n. 18951 del 14/03/2017, Rv. 269657; Sez. 1, n. 25239 del 23/01/2024, Rv. 286594). La confisca, perciò, sarebbe legittima anche se fosse ritenuto dimostrato che la ristrutturazione è stata completata tra il 2015 e il 2016, stante la forte vicinanza temporale rispetto all’inizio dell consumazione del reato associativo, indicato, nell’imputazione, risalire «almeno» al gennaio 2017.
Deve anche ribadirsi che, nel caso di un immobile lecitamente acquisito, ma migliorato con l’impiego di risorse di provenienza illecita ovvero non giustificata, la sproporzione tra il valore originario del bene e quello derivante dalle migliorie legittima la sua confisca integrale (vedi Sez. 2, n. 27933 del 15/03/2019, Rv. 276211; Sez. 6, n. 10105 del 10/10/2018, dep. 2019, Rv. 275426). La sentenza di appello motiva esplicitamente sul rilevante valore della ristrutturazione e delle addizioni eseguite sull’immobile, e sul fatto che esse sono state eseguite dopo la iniziale commissione del reato associativo, circostanza che è stata ritenuta dirimente per giustificare la confisca, al di là dell’eventuale provenienza lecita del denaro impiegato, nel 2007, per l’acquisto del bene, provenienza che, peraltro, è stata ritenuta non dimostrata.
Deve pertanto, conclusivamente, affermarsi l’insussistenza dei vizi dedotti dal ricorrente in ordine alla confisca dell’immobile, e ribadirsi il principio
questa Corte, secondo cui «In tema di confisca cd. allargata conseguente a condanna per uno dei reati di cui all’art. 12-sexies, commi 1 e 2, d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modifiche, nella legge 7 agosto 1992, n. 356 (attualmente art. 240-bis cod. pen.), non è censurabile in sede di legittimità la valutazione relativa alla sproporzione tra il valore di acquisto dei beni nella disponibilità del condannato e i redditi del suo nucleo familiare, ove la stessa sia congruamente motivata dal giudice di merito con il ricorso a parametri suscettibili di verifica e sia preceduta da un adeguato e razionale confronto con le avverse deduzioni difensive» (Sez. 3, n.1555 del 21/09/2021, dep. 2022, Rv. 282407).
10.3. Anche il quarto motivo di ricorso dell’imputato COGNOME è infondato e deve essere rigettato. Egli deduce la mancanza di prova della sua partecipazione all’associazione mafiosa contestando l’illogicità della interpretazione delle conversazioni intercettate, soprattutto tra terzi, ma esamina solo alcune delle molte intercettazioni in base alle quali la sentenza impugnata ha ritenuto dimostrata la sussistenza del reato associativo. In merito al limite del sindacato del giudice di legittimità sulla valutazione delle intercettazioni da parte del giudice di merito devono richiamarsi i principi esposti nel superiore paragrafo 3.1.: la sentenza di appello esamina le molte intercettazioni in modo esaustivo e non manifestamente illogico, e la diversa interpretazione proposta dal ricorrente solo per alcune di esse, oltre ad essere meno convincente, non è idonea a sovvertire il giudizio che la sentenza esprime dopo un esame approfondito e non parcellizzato di tutti gli elementi probatori. La sentenza, infatti, esamina dettagliatamente tutte le doglianze, solo in parte riproposte in questo motivo di ricorso, e spiega in modo logico il significato e la valenza probatoria da attribuire, ad esempio, alle intercettazioni del 01/12/2018, a quelle inerenti l’apertura dell’agenzia a San Lorenzo, ai rapporti intrattenuti dal ricorrente con NOME COGNOME e con NOME COGNOME, nonché alle intercettazioni sulla base delle quali è stato ritenuto sussistente il reato contestato al capo 18), la cui decisione non è stata impugnata, alle ulteriori intercettazioni citate dalla pag. 162, e agli incontr e riunioni, valutati dalla pag. 170. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La deduzione di una errata valutazione delle prove costituite dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia si limita, di fatto, a quelle di NOME COGNOME ma anche in questo caso la motivazione con cui la sentenza impugnata ha respinto la relativa doglianza è esaustiva e non manifestamente illogica; la rilevanza attribuita a tali dichiarazioni, peraltro, è limitata, ricorrente non effettua alcuna prova di resistenza mentre, dal contenuto della
motivazione, appare evidente che la loro esclusione non inciderebbe in modo significativo sul compendio probatorio a carico di questo ricorrente.
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è infondato, e deve essere rigettato.
In merito alla interpretazione delle conversazioni intercettate, peraltro, deve ribadirsi, come già motivato nel superiore paragrafo 3.1., che esse possono costituire prova piena, non necessitante di riscontri, anche se ad esse non partecipa l’imputato, come affermato, tra le molte, da Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263714, da Sez. 3, n. 10683 del 07/11/2023, dep. 2024, Rv. 286150, da Sez. 6, n. 5224 del 02/10/2019, dep. 2020, Rv. 278611. Il controllo del giudice di legittimità sulla interpretazione e valutazione dell intercettazioni, poi, è limitato alla congruità e non manifesta illogicità dell motivazione, come ribadito dalla sentenza Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Rv. 282337 citata in detto paragrafo.
11.2. Il secondo e il terzo motivo del ricorso sono analoghi a quelli proposti dal ricorrente COGNOME nei primi due motivi del suo ricorso, deducendo l’insussistenza delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen. E’ sufficiente, perciò, rinviare alla valutazione di infondatezza di tali doglianze come già esposta nel superiore paragrafo 4.
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è infondato, nel suo complesso, e deve essere rigettato.
12.1. Il primo motivo di ricorso, che ripete l’eccezione processuale già proposta davanti ai giudici di merito, è infondato.
Il ricorso è corretto nel dedurre l’erroneità della motivazione con cui la sua eccezione è stata respinta, perché l’omesso espletamento dell’interrogatorio tempestivamente richiesto dall’indagato dopo la notifica dell’avviso di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen. costituisce una nullità, anche se il pubblico ministero, non avendo avuto notizia di tale richiesta nel termine di venti giorni dalla notifica dell’avviso stesso, ha nel frattempo formulato la richiesta di rinvio a giudizio. L’unico onere che la norma di cui all’art. 415-bis, comma 3, cod. proc. pen. impone all’indagato è quello di formulare la richiesta di essere interrogato entro venti giorni dalla notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, e, tal caso, il pubblico ministero «deve procedervi», senza eccezioni o deroghe. Questa Corte ha più volte stabilito che la richiesta può essere trasmessa al pubblico ministero anche con lettera raccomandata (vedi Sez. 2, n. 41961 del 02/10/2024, Rv. 287166; Sez. 6, n. 50087 del 18/09/2018, Rv. 274506), sia pure con le necessarie cautele atte a dimostrarne la provenienza dall’indagato, e deve pertanto ritenersi, analogamente a quanto disposto per altre richieste legittimamente inviate dall’imputato agli uffici giudiziari con tale modalità, e nel rispetto del principio di fornire una interpretazione favorevole all’indagato e all’esercizio dei suoi diritti difensivi, che la sua tempestività deve essere valutata con riguardo alla sua data di spedizione, e non a quella di ricezione da parte dell’ufficio. Ne consegue che l’omesso espletamento dell’interrogatorio, richiesto con tale modalità, configura una nullità, avendo questa Corte sostenuto addirittura che anche il mancato espletamento dell’interrogatorio richiesto dopo il decorso del termine di venti giorni, purché prima dell’emissione della richiesta di rinvio a giudizio, configura una nullità per lesione del diritto di difesa (Sez. 2, 22364 del 24/03/2023, Rv. 284719). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La giurisprudenza di legittimità ha però costantemente sostenuto che «L’omesso espletamento dell’interrogatorio a seguito dell’avviso di cui all’art. 415-bis cod. proc. pen., benché sollecitato dall’imputato, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio che non può essere dedotta a seguito della
scelta del giudizio abbreviato, in quanto la richiesta del rito speciale opera un effetto sanante della nullità ai sensi dell’art. 183 cod. proc. pen.» (Sez. 2, n. 39474 del 03/07/2014, Rv. 260786; Sez. 6, n. 541 del 17/11/2015, dep. 2016, Rv. 265754). Nel presente caso, pertanto, la nullità verificatasi per il mancato espletamento dell’interrogatorio tempestivamente richiesto è stata sanata dall’ammissione del ricorrente al rito abbreviato. La sua eccezione, pertanto, è stata disattesa con una decisione giusta, anche se fondata su un presupposto errato, e il motivo di ricorso deve essere rigettato perché detta eccezione non sarebbe, in alcun caso, accoglibile.
12.2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile, perché versato interamente in fatto e diretto a chiedere a questa Corte una diversa interpretazione delle prove mentre, come già motivato nel precedente paragrafo 2, il controllo del giudice di legittimità si svolge sull’atto impugnato, ed è limita a verificare eventuali violazioni di legge e il rispetto dei requisiti motivaziona indicati dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
Il ricorrente contesta la rilevanza di singole intercettazioni, di cui ripropone la lettura parcellizzata già valutata come erronea dalla sentenza di secondo grado, ma sul punto deve ribadirsi che l’interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni è compito del giudice di merito, e può essere sindacato in sede di legittimità solo nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione, come ribadito al paragrafo 3.1. L’interpretazione fornita dalla sentenza impugnata non appare irragionevole né manifestamente illogica, emergendo dalle intercettazioni la intraneità del COGNOME rispetto all’associazione, l’abitualità del rapporto con NOME COGNOME il coinvolgimento per conto della cosca in operazioni commerciali di cui egli si dimostra pienamente a conoscenza, il rapporto con NOME COGNOME essendo logica l’osservazione, contenuta nella sentenza di appello, che nella conversazione del 06/02/2019 il ricorrente, quando parla di un altro soggetto, lo identifica non solo con il nome “Settimo” ma anche con il cognome “COGNOME“, evidentemente per distinguerlo da NOME COGNOME, del quale parla nella medesima occasione.
Anche in ordine all’utilizzabilità e attendibilità delle dichiarazioni d collaboratore di giustizia COGNOME il ricorso ripete la propria, diversa valutazion delle stesse, senza indicare specifiche ragioni di manifesta illogicità della motivazione della sentenza, e deve perciò essere dichiarato inammissibile.
La conclusione della sentenza impugnata, secondo cui le prove dimostrano la partecipazione del ricorrente all’associazione di Passo di Rigano, intesa come messa a disposizione e prestazione di un contributo per il suo mantenimento e rafforzamento, secondo il principio stabilito dalle sentenze Sez. U, n. 36958 del
27/05/2021, COGNOME, Rv. 281889, e Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv.231670, è perciò completa, approfondita e non manifestamente illogica.
12.3. Nel terzo motivo di ricorso anche il COGNOME deduce l’insussistenza delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen., con argomentazioni analoghe a quelle di altri ricorrenti, per cui si ritiene sufficiente rinviare alla valutazione di infondatezza di tali doglianze, già espressa nel superiore paragrafo 4. In relazione a questo ricorrente, peraltro, deve sottolinearsi che la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis, comma 6, cod. pen., è confermata dal suo coinvolgimento nell’apertura, da parte della cosca, di attività commerciali nel settore della ristorazione, anche nei casi in cui la proposta di coinvolgerlo non è stata accolta, in quanto ciò dimostra la sua consapevolezza dell’attività di reinvestimento in attività lecite dei proventi dei delitti, essendo la provenienza illecita dei denari investiti logicamente dimostrata, come già valutato nel paragrafo 3.2., dalla situazione di impossidenza di tutti gli imputati e dei loro familiari e dall’entità economica di molti di tali reinvestimenti.
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è, nel suo complesso, infondato, e deve essere rigettato.
13.1. GLYPH Il primo motivo di ricorso è inammissibile, in quanto ripete le eccezioni circa la non tempestiva decisione del giudice dell’udienza preliminare sulla prospettata inutilizzabilità di alcuni atti di indagine, e circa la tardività d indagini compiute dopo il 2015, che sono manifestamente infondate, in quanto fondate su affermazioni contrarie ai principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità. Tali eccezioni sono state respinte dal giudice di primo grado, alle pagine da 20 a 22 e da 26 a 27, con motivazione corretta e approfondita, ribadita alle pagine da 232 a 235 della sentenza di appello.
Questa Corte ha più volte affermato che «In sede di udienza preliminare, il giudice non è tenuto a decidere anticipatamente, rispetto alla trattazione del merito, le questioni riguardanti l’utilizzabilità degli atti processuali, neppure fine di consentire all’imputato di valutare l’opportunità di accedere al rito abbreviato nella piena conoscenza delle prove utilizzabili, in quanto nessun obbligo in tal senso è contemplato dalle disposizioni processuali. (Fattispecie relativa alla eccepita inutilizzabilità delle intercettazioni tardivament depositate)» (Sez. 1, n. 27902 del 08/04/2022, Rv. 283352; Sez. 3, n. 40209 del 13/05/2014, Rv. 260423). Pertanto il giudice dell’udienza preliminare, omettendo di valutare la fondatezza delle deduzioni di inutilizzabilità delle indagini prima di procedere alla discussione, si è conformato all’interpretazione
delle norme che prende atto dell’assenza di una disposizione in tal senso, prevista dal legislatore.
Il motivo di ricorso è manifestamente infondato anche nella parte in cui sostiene la nullità di entrambe le sentenze di merito perché fondate su prove acquisite a seguito di indagini svolte dopo la scadenza del termine: già la sentenza Sez. U, n.16 del 21/06/2000, COGNOME Rv. 216246 ha stabilito il principio della non rilevabilità, nel giudizio abbreviato, della inutilizzabil fisiologica delle prove assunte secundum legem, ed è costante la valutazione della nullità solo fisiologica delle prove assunte oltre il termine di legge: «La scelta del giudizio abbreviato preclude all’imputato la possibilità di eccepire l’inutilizzabilità degli atti d’indagine compiuti fuori dai termini ordinari di ini fine delle indagini preliminari in quanto, non essendo equiparabile alla inutilizzabilità delle prove vietate dalla legge (all’art. 191 cod. proc. pen.), stessa non è rilevabile d’ufficio ma solo su eccezione di parte, sicché essa non opera nel giudizio abbreviato» (Sez. 6, n. 4694 del 24/10/2017, dep. 2018, Rv. 272196).
Il ricorso, inoltre, non si confronta con la sentenza di secondo grado che, confermando la motivazione del giudice di primo grado, ha ritenuto insussistente la dedotta tardività delle indagini, risultando evidente che l’atto allegato, emesso dal pubblico ministero, che recita “dispone aggiornarsi” il procedimento n. 10652/2013 R.G.N.R. con il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. accertato il 23/10/2017, significhi che per mezzo delle indagini di cui riferisce la nota dello S.C.O. del 23/10/2017 si sono scoperti “nuovi autori del reato”, e si è pertanto iscritto ex novo il nome del ricorrente, in data 25/10/2017, quale indagato solo da quel momento per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. accertato il 23/10/2017. La richiesta di esclusione di tutte le prove acquisite mediante atti di indagine successivi al 2015, pertanto, è manifestamente infondata, sia per l’insussistenza della dedotta tardività, sia per la piena utilizzabilità di tali pr nel rito abbreviato a cui il ricorrente è stato ammesso.
13.2. Il secondo motivo di ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Le sentenze di merito hanno condannato il ricorrente per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. non per la sua appartenenza a Cosa nostra accertata da una precedente sentenza di condanna, ma in base alle prove della sua attuale intraneità all’associazione di Passo di Rigano, emergenti dalle intercettazioni. La sentenza impugnata afferma esplicitamente che «occorre sicuramente dimostrare il concreto contributo dato dall’appellante al sodalizio mafioso nel periodo in contestazione» (pag. 236), ed esamina le molte intercettazioni da cui, con argomentazione logica, ha ritenuto dimostrato il suo coinvolgimento nelle dinamiche associative, nel controllo del territorio, nel reinvestimento dei proventi
illeciti in attività commerciali di varia natura. L’intervento nelle diatribe relative tali COGNOME e COGNOME, delle quali si stavano occupando NOME COGNOME e, quanto al primo, anche NOME COGNOME è stato logicamente interpretato quale dimostrazione di intraneità nell’associazione, perché la risoluzione di conflitti è espressione tipica del controllo sul territorio da parte della cosca mafiosa, e un capo mandamento o reggente, quali erano i due predetti coimputati, non avrebbero neppure ascoltato un’ipotesi di soluzione formulata da un soggetto estraneo ad essa e che non aveva alcun interesse personale nelle due controversie. Le intercettazioni, poi, dimostrano il coinvolgimento del ricorrente in alcune delle attività imprenditoriali che costituiscono il reimpiego dei proventi illeciti, attività delle quali il ricorrente si dimostra a conoscenza e c contribuisce a costituire o a gestire. Altrettanto logica è la motivazione circa la rilevanza delle frequentazioni del ricorrente con esponenti mafiosi di spicco, in quanto svolte con accortezze tali da rendere evidente che non si trattava di incontri meramente conviviali o giustificati da rapporti di parentela. Quanto alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, la sentenza impugnata indica quali episodi narrati da NOME COGNOME si riferiscano con certezza a condotte tenute dal ricorrente dopo la sua condanna, divenuta definitiva nel 2012, e utilizza le altre dichiarazioni, che dimostrano la storica appartenenza del ricorrente a Cosa nostra, solo quali conferme della prosecuzione di tale appartenenza, sulla base della quale è stata riconosciuta la continuazione tra i reati giudicati in questo procedimento e la precedente condanna indicata.
La sussistenza del reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., pertanto, è stata motivata in modo logico e autonomo rispetto alla condanna precedente, fondandosi sulle prove acquisite in questo procedimento, per cui la sentenza non presenta i vizi lamentati.
13.3. COGNOME Il terzo e il quarto motivo di ricorso sono infondati e, nel loro complesso, devono essere rigettati.
Il ricorrente deduce l’insussistenza delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen., con argomentazioni analoghe a quelle degli altri ricorrenti, per cui deve rinviarsi alla motivazione già esposta nel precedente paragrafo 4. Anche per COGNOME, peraltro, la prova della sua consapevolezza dell’attività di reimpiego di proventi illeciti da parte dell’associazione non è solo di natura logica, essendo dimostrato, anche dalla sua condanna per i reati-fine contestati ai capi 11) e 18), che egli era personalmente coinvolto in tale attività.
13.4. Il quinto, il sesto e il settimo motivo di ricorso, relativi alla sussistenz dei reati-fine contestati, possono essere valutati insieme, per l’analogia del loro contenuto.
La deduzione della inutilizzabilità delle intercettazioni, per la prova della loro sussistenza, in quanto disposte per un reato diverso, cioè quello di cui all’art. 416-bis cod. pen., è infondata e deve essere rigettata. La sentenza impugnata, alla pag. 247, e quella di primo grado, dalla pag. 32, hanno ampiamente motivato la loro utilizzabilità quale prova dei reati-fine di cui all’art. 512-bis co pen., in conformità con il principio dettato dalla sentenza Sez. U, n. 51 del 28/11/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 277395, secondo cui «In tema di intercettazioni, il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen. di utilizzazione risultati delle captazioni in procedimenti diversi da quelli per i quali le stess siano state autorizzate – salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza – non opera con riferimento agli esiti relativi ai soli reati che risultino connessi, ex art. 12 cod. proc. pen. quelli in relazione ai quali l’autorizzazione era stata “ah origine” disposta, sennpreché rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dall’art. 266 cod. proc. pen.». Le due sentenze hanno ritenuto, infatti, che tra il delitto associativo, per il quale sono state autorizzate le intercettazioni, e i vari reati-fine contestati, s le estorsioni, sia i delitti di intestazione fittizia, sussista la connessi determinata dall’art. 12, comma 1, lett. b) o lett. c), cod. proc. pen., essendo stati anche questi ultimi programmati unitariamente, sin dall’origine, quali condotte nelle quali si esplica l’attività tipica dell’associazione, e commessi al fine di consentire la consumazione del delitto associativo, in quanto finalizzati a garantire la sopravvivenza dell’associazione criminosa stessa, che si alimenta tramite i proventi di tali condotte di reato e tramite l’elusione di possibi provvedimenti ablatori, che priverebbero non solo il singolo partecipe, ma anche l’associazione, dei beni accumulati grazie all’attività delinquenziale. Tale connessione, quanto meno nella forma della continuazione di cui all’art. 12, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., è stata logicamente ravvisata, dal giudice di primo grado, anche nel caso delle fattispecie di cui all’art. 512-bis cod. pen. per le quali non è stata contestata o è stata esclusa la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., perché essa sussiste in relazione alla commissione dei delitto associativo da parte del singolo imputato: l’intestazione fittizia a terzi di un bene o di un’attività è diretta, infatti, ad eludere poss provvedimenti ablativi, che un soggetto associato ad un clan mafioso ha ragione di temere dal momento che essi possono essere adottati in qualunque momento proprio a causa della sua partecipazione al sodalizio criminoso, per cui la commissione del reato in questione è sicuramente programmata, quanto meno nelle linee generali, sin dall’inizio della partecipazione a detto clan. Queste argomentazioni sono logiche e conformi alla disciplina vigente all’epoca della esecuzione delle intercettazioni, nonché ai principi stabiliti dalle Sezioni Unite di Corte di Cassazione – copia non ufficiale
questa Corte: i reati di cui all’art. 512-bis cod. pen., che formalmente sono stati accertati nell’ambito dell’unico procedimento nel quale sono state autorizzate le intercettazioni, ma solo con riferimento al reato di cui all’art. 416-bis cod. pen., sono connessi con quest’ultimo, ai sensi dell’art. 12 cod. proc. pen., e pertanto nei loro riguardi non opera il divieto stabilito dall’art. 270 cod. proc. pen., anch perché essi rientrano nei limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 cod. proc. pen (si vedano, sul punto, anche le sentenze Sez. 5, n. 1757 del 17/12/2020, dep. 2021, Rv. 280326; Sez. 5, n. 37697 del 29/09/2021, Rv. 282027; Sez. 1, n. 48560 del 04/07/2023, Rv. 285461)
In merito alla sussistenza dei reati di cui all’art. 512-bis cod. pen., contestati ai capi 11), 13) e 18), il ricorrente sostiene la mancanza di prova della sua titolarità delle tre attività e dell’investimento in esse di denaro da parte sua, quanto dalle intercettazioni emergerebbe solo una condotta di co-gestione unitamente all’intestatario, erroneamente ritenuto fittizio. La tesi difensiva si fonda sull’indirizzo giurisprudenziale secondo cui «Ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 12 -quinquies della legge 7 agosto 1992, n. 356 è necessaria l’attribuzione fittizia ad altri della titolarità o della disponibili denaro, beni o altre utilità, sicché, in ossequio al principio di tassatività, no assume rilievo il simulato trasferimento dei compiti di amministrazione di una società commerciale, anche nel caso in cui la condotta sia finalizzata alla elusione dell’applicazione di misure di prevenzione patrimoniali» (Sez. 2, n. 29633 del 28/05/2019, Rv. 276733), ma nel caso dei tre delitti indicati essa è infondata, ed è stata respinta dalle due sentenze di merito con motivazione logica e attraverso una valutazione approfondita delle intercettazioni attinenti ad ognuno di essi.
In relazione al reato di cui capo 11), la sentenza di appello ha evidenziato le molte conversazioni, riportate per esteso nella sentenza di primo grado, nelle quali il ricorrente risulta dare ordini al COGNOME, unico titolare formale, assumer iniziative, dirigere i lavori, e soprattutto effettuare i pagamenti agli operai ovver trattare con i committenti per la riscossione del prezzo per i lavori svolti: egli quindi, dirigeva l’azienda ma, soprattutto, ne controllava l’aspetto economico, dimostrando così di avere un diretto interesse alla sua redditività. La deduzione, da tale comportamento, di un suo investimento dell’azienda, è logica, né il ricorrente ha offerto alcuna diversa spiegazione delle predette conversazioni e delle ragioni del suo coinvolgimento. L’ulteriore elemento probatorio consistente nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME che ha affermato di avere saputo dallo stesso NOME COGNOME che quella ditta “era in mano loro” (chiarendo, la sentenza di primo grado alla pag. 282, trattarsi della RAGIONE_SOCIALE intestata al Lapi, anche se il COGNOME la chiama RAGIONE_SOCIALE), conferma e
rafforza tale deduzione. Il ricorso non si confronta, pertanto, con la motivazione della sentenza impugnata, in quanto omette di prendere in esame le intercettazioni relative al diretto intervento del ricorrente nell’amministrazione dell’azienda sotto il profilo economico-patrimoniale, e di indicare una manifesta illogicità della loro interpretazione e della predetta deduzione. Il quinto motivo di ricorso deve, pertanto, essere rigettato perché, nel suo complesso, infondato.
Il sesto motivo di ricorso, relativo al reato di cui capo 13), è del tutto generico: il ricorrente si limita a ribadire l’inutilizzabilità delle intercettaz perché disposte per un reato diverso, e la sussistenza di mero rapporto di cogestione, in assenza della prova della provenienza da lui stesso della provvista economica necessaria per l’acquisto delle quote da parte delle intestatarie ritenute fittizie. Il ricorso non si confronta, quindi, con la sentenza che, richiamando l’esaustiva motivazione di quella di primo grado (in parte contenuta nella valutazione del diverso delitto di cui al capo 8), ribadisce la rilevanza delle molte intercettazioni dalle quali emerge che il COGNOME, in società di fatto con il COGNOME, controllava in modo totale ed esclusivo il locale e la sua l’attività, formalmente intestati alla RAGIONE_SOCIALE occupandosi sia del suo originario acquisto, sia dei lavori di ristrutturazione, sia dei pagamenti, sia delle sue vicende successive, riguardanti l’originario titolare, ed inoltre lo utilizzava come base operativa ove incontrare i sodali, circostanza che conferma come egli ne fosse il vero proprietario. Anche in questo caso appare logica la deduzione, contenuta nella sentenza, che il suo diretto coinvolgimento in ogni operazione economica relativa al locale, operazioni di cui non si sono mai occupate, invece, le formali intestatarie della RAGIONE_SOCIALE dimostri che egli aveva investito denaro proprio nell’attività stessa, ed aveva fornito la provvista necessaria per la sua acquisizione. Il sesto motivo di ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile per mancanza di specificità. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
In relazione al reato di cui capo 18), infine, il ricorso ripete la rilevanza dell’intercettazione del 02/10/2017, dalla quale emergerebbe la titolarità di un altro associato sull’attività in questione, ma la sentenza di appello ha adeguatamente respinto tale censura, indicando le altre risultanze probatorie che, con motivazione logica ed esaustiva, sono state ritenute sufficienti per dimostrare il diretto coinvolgimento anche del ricorrente nella gestione dell’attività. In quella stessa intercettazione egli ne discuteva con NOME COGNOME elemento logicamente ritenuto provare, insieme agli altri evidenziati, la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., stante l’interesse dell’associazione sia ad operare nel settore della raccolta delle scommesse, sia a gestire quella specifica agenzia. Anche in questo caso, quindi, il ricorrente si confronta solo parzialmente con la sentenza impugnata, trascurando di prendere
in esame integralmente gli elementi di prova da essa valorizzati. Anche il settimo motivo di ricorso, pertanto, deve essere rigettato perché infondato.
13.5. Lottavo motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile, perché generico e privo di specificità.
Esso non si confronta con la sentenza impugnata, che ha respinto la richiesta di concessione delle attenuanti generiche non solo per la gravità del reato associativo commesso, essendo peraltro questo un parametro da esaminare, ai sensi dell’art. 133 cod. pen., ma anche per la ritenuta pericolosità del ricorrente, dimostrata dai rapporti intrattenuti con esponenti mafiosi di rilevante spessore e dai suoi precedenti penali, e per l’assenza di un effettivo ravvedimento e di altri elementi valutabili favorevolmente, che non vengono indicati neppure nel ricorso. La motivazione, sul punto, è pertanto priva di vizi, e conforme alle prescrizioni normative e della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione» (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269)
13.6. Infine deve essere respinto, perché infondato, il nono motivo di appello, non sussistendo alcuna violazione di legge nel calcolo delle aggravanti e dell’aumento per la ritenuta continuazione. La Corte di appello, ritenuto più grave il delitto associativo qui giudicato, ha applicato quale pena base quella già stabilita dal giudice di primo grado, evidentemente ritenuta congrua e comunque inferiore al medio edittale del delitto pluriaggravato, non sussistendo alcun obbligo di una sua riduzione solo perché a detto reato viene ritenuto unito per continuazione un diverso delitto, ed ha applicato, quali pene per i reati satellite, quelle già decise dal giudice di primo grado, esplicitamente definite congrue e, comunque, molto modeste, e una ulteriore pena di sei anni e due mesi di reclusione per il delitto associativo pluriaggravato ritenuto in continuazione, pena anch’essa contenuta stante l’entità della pena edittale per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 4 e 6, cod. pen. In merito alla dosimetria della pena, peraltro, deve ribadirsi il consolidato principio secondo cui «Nel caso in cui venga irrogata una pena prossima al minimo edittale, l’obbligo di motivazione del giudice si attenua, talchè è sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen..» (Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, Rv. 256464) e «La determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare
criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cu all’art. 133 cod. pen.» (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Rv. 256197).
L’eccezione della omessa applicazione dell’art. 63, comma 4, cod. pen. è inconferente, dal momento che la sentenza di appello, confermando la pena irrogata dal giudice di primo grado per il delitto associativo, non ha operato alcun aumento di pena ai sensi dell’art. 63, comma 4, cod. pen. in relazione alle aggravanti ad effetto speciale di cui agli artt. 99, commi 2 e 4, cod. pen. e 416bis.1 cod. pen., avendo peraltro la giurisprudenza di legittimità ritenuto inapplicabile alla seconda il disposto di cui all’art. 63, comma 4 cod. pen. (si veda Sez. 2, n. 9526 del 17/12/2021, dep. 2022, Rv. 282791). In merito all’applicazione della pena per le due aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen., invece, le due sentenze di merito si sono conformate alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «Nell’ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dai commi quarto e sesto dell’art. 416 bis cod. pen., ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non si applica la regola generale di cui all’art. 63, comma quarto, cod. pen., bensì l’autonoma disciplina derogatoria di cui al citato sesto comma dell’art. 416 bis, che prevede l’aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata» (Sez. 1, n. 29770 del 24/03/2009, Rv. 244460; Sez. &, n. 7916 del 13/12/2011, dep. 2012, Rv. 252069; Sez. 2, n. 7155 del 11/11/2020, dep. 2021, Rv. 280662; vedi anche, in motivazione, Sez. U, n. 38518 del 27/11/2014, dep. 205, COGNOME, Rv. 264674)
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è infondato, nel suo complesso, e deve essere rigettato.
14.1. Il primo motivo di ricorso è infondato: egli sostiene la mancanza di prova in merito all’esistenza ed alla attuale operatività della famiglia COGNOME, all’interno di Cosa nostra, non potendosi dare per acquisito, senza una specifica valutazione, che una cosca di nuova costituzione rappresenti la mera continuazione di una cosca preesistente quando quest’ultima abbia cessato di esistere a seguito di un evento traumatico, come avvenuto per gli COGNOME. L’infondatezza di tale affermazione è stata già valutata al precedente paragrafo 5, e ad esso si rimanda per l’indicazione dei molti elementi di prova che, al contrario, dimostrano il pieno inserimento di questa famiglia nel mandamento di Passo di Rigano, e il suo riconoscimento da parte di molti altri esponenti di Cosa nostra. La mancanza di un provvedimento formale di riammissione, dopo la violenta estromissione dei rappresentanti della famiglia stessa ad opera dei “corleonesi” agli ordini di NOME COGNOME, non appare rilevante, alla luce della evidente possibilità, lasciata agli COGNOME, di operare nel loro territorio senz
incontrare limiti od opposizioni, e di rapportarsi in termini di normalità con le altre famiglie appartenenti a Cosa nostra. L’invito a partecipare alla riunione del 29/05/2018, finalizzata a ricostituire la commissione provinciale, appare estremamente significativo, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, e la contrarietà di NOME COGNOME a parteciparvi appare motivata dal timore che non tutti gli altri capi mandamento accettino il loro rientro, di fatto autorizzato, forse proprio per la mancanza di una formale decisione dei vertici di Cosa nostra circa il diritto della famiglia a riprendere la posizione occupata in passato.
14.2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Il ricorrente sostiene che non vi sia la prova che il suo coinvolgimento in alcune iniziative imprenditoriali sia avvenuto perché egli è un partecipe all’associazione criminosa, e dimostrino perciò il suo consapevole inserimento in essa, piuttosto che un mero atteggiamento di contiguità compiacente. La sentenza di appello, al contrario, valuta approfonditamente, quali elementi che dimostrano la sussistenza del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., sia le dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME del quale ribadisce l’attendibilità, elemento con cui il ricorso non si confronta, limitandosi ad una critica del tutto generica, sia le frequentazioni del ricorrente, sia le molte intercettazioni, spesso a carico del COGNOME stesso, che dimostrano la continuità del suo rapporto con NOME COGNOME e la sua messa a disposizione di quest’ultimo per la gestione di molti affari che coinvolgono altri membri dell’associazione e costituiscono, palesemente, iniziative a vantaggio di ouésta. La sentenza impugnata evidenzia che egli si rapporta ad altri soggetti sempre a nome di NOME COGNOME e per iniziative dichiaratamente decise da questi, come nella vicenda dell’apertura di un’agenzia di scommesse da gestire tramite la società RAGIONE_SOCIALE, in cui il ricorrente va a trattare con NOME COGNOME unitamente al coimputato COGNOME, dicendogli apertamente, a nome di NOME COGNOME, che quell’agenzia “ce la dobbiamo prendere noi”, palesemente riferendo l’interesse dell’associazione mafiosa. Le numerose e significative intercettazioni sono riportate, in modo più dettagliato, nella sentenza di primo grado, dalla pagina 193 alla pag. 202, e poi ancora alle pagine da 265 a 269, e da 282 a 302. Il ricorso non si confronta affatto con esse, ed anche in ordine alle intercettazioni relative alla gestione della società RAGIONE_SOCIALE le sue censure sono generiche, e non si confrontano con le varie parti in cui le due sentenze di merito hanno ritenuto provata la sussistenza dell’aggravante dell’agevolazione dell’associazione mafiosa anche con riferimento a detta attività, in quanto frutto di investimento economico da parte della cosca, la quale ne riceveva anche i proventi (pag. 272 della sentenza di primo grado, pag. 69 di quella di appello). L’affermazione della responsabilità del ricorrente Corte di Cassazione – copia non ufficiale
per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. si fonda, quindi, su plurimi elementi di prova, tutti convergenti nel dimostrare la sua messa a disposizione della famiglia mafiosa di Passo di Rigano e la sua prestazione di un concreto e fattivo contributo per il mantenimento e rafforzamento della stessa, come ribadito alla pag. 274 della sentenza impugnata.
14.3. Il terzo e il quarto motivo del ricorso, relativi alla sussistenza delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen., propongono argomentazioni analoghe a quelle degli altri ricorrenti e perciò, per esigenze di sintesi, si rimanda alle valutazioni già esposte ai paragrafi 4.1. e 4.2.
14.4. Il quinto motivo di ricorso è infondato, per le ragioni già esposte, in parte, al superiore paragrafo 14.2. Le intercettazioni relative all’apertura di un’agenzia di scommesse da gestire tramite la società RAGIONE_SOCIALE dimostrano ampiamente che l’attività riguardava l’associazione mafiosa e non i singoli che agivano per essa. La sentenza di appello, e più dettagliatamente quella di primo grado, valutano approfonditamente tali elementi di prova e ne deducono, fondatamente, la partecipazione del ricorrente alla costituzione della società RAGIONE_SOCIALE stante il ruolo da lui assunto, definito, negli atti di indagine riportati in sentenza, “vero e proprio motore per la realizzazione del progetto”, peraltro sempre sotto le direttive di NOME COGNOME e la sua qualità di socio di fatto al 33%, come riferito dal coimputato NOME COGNOME alla moglie, in una intercettazione del 05/11/2018, riportata alla pag. 298 della sentenza di primo grado. La finalità elusiva, manifestamente sussistente per chi, come NOME COGNOME era già pregiudicato per un delitto associativo, è stata, con prova logica, ritenuta sussistente anche per questo ricorrente, il quale aveva il medesimo interesse ad occultare i beni di sua proprietà, essendo consapevole di poter essere sottoposto a misura di prevenzione, in quanto partecipe ad un’associazione di tipo mafioso. L’affermazione dei giudici di merito, secondo cui la creazione di una società occulta e l’intestazione fittizia, di questa come di altre attività, a soggetti estranei all’associazione mafiosa avevano la finalità di nascondere il coinvolgimento di quest’ultima, per evitare interventi di chiusura o di ablazione delle imprese stesse, appare logica e non è smentita dal ricorrente, il quale non ha indicato alcuna motivazione diversa per l’occultamento dei propri beni. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Quanto alla sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., le due sentenze ne deducono la prova, logicamente, dal coinvolgimento nell’iniziativa dei vertici dell’associazione, essendone stato informato persino NOME COGNOME che si era complimentato per essa e al quale era stato riferito il rilevante impegno profuso dal COGNOME per la sua realizzazione, ed avendo NOME COGNOME prima di intraprendere l’affare, fatto chiedere una sorta di
autorizzazione al reggente del mandamento di Cruillas, nel cui territorio era posto l’immobile da utilizzare, come sottolineato alla pag. 71 della sentenza di secondo grado. La prova è stata, logicamente, dedotta anche dall’entità dell’investimento economico, stimato da NOME COGNOME in 250.000-300.000 euro, come ricordato al superiore paragrafo 6.6., investimento che richiedeva la capacità economica dell’intera cosca e non di un singolo operatore, anche se proprio il COGNOME afferma, nella intercettazione del 09/10/2018, di avere già messo di tasca propria 100.000 euro, tanto da preoccuparsi di dover “recuperare i piccioli” (così alla pag. 300 della sentenza di primo grado).
14.5. Infine è infondato, per analoghi motivi, il sesto motivo di ricorso. La sentenza di secondo grado ha ritenuto provata la responsabilità del ricorrente per i due delitti relativi alla gestione dell’agenzia di scommesse fittiziamente intestata a NOME COGNOME dalle plurime intercettazioni dalle quali risulta il suo coinvolgimento in essa, dal momento che egli provvedeva sia a pagare quest’ultimo a titolo di compenso per il mero consenso all’intestazione fittizia, sia a individuare il nuovo soggetto da impiegare nell’attività, al posto del coimputato COGNOME. Il ricorso, affermando non essere indicate le intercettazioni da cui si sostiene provato l’investimento di risorse proprie, da parte del ricorrente, in questa attività, non si confronta con le due sentenze che, grazie alla struttura di “doppia conforme”, riportano tale dato alla pagina 313 della sentenza di primo grado, sia quanto all’essersi il COGNOME attivato per la stipula del contratto di locazione dell’immobile, sia quanto al pagare egli stesso l’intestatario fittizio. Le finalità elusive e di agevolazione dell’associazion mafiosa, poi, sono sufficientemente dimostrate attraverso la prova logica, analogamente a quanto motivato in relazione al capo 12), stante la necessità per il ricorrente stesso di occultare i propri beni, essendo consapevole della possibilità di essere sottoposto a misura di prevenzione a causa della sua appartenenza ad un’associazione mafiosa, e stante la natura dell’attività in questione, essendo ampiamente dimostrato, attraverso le intercettazioni, che il settore delle scommesse era sottoposto al controllo della cosca, ed essa non consentiva ad estranei, e neppure ai singoli sodali, l’apertura di agenzie apposite nel proprio territorio in concorrenza con quelle gestite dalla cosca stessa, come dimostrato dalle vicende che hanno riguardato il COGNOME in merito all’apertura di un’agenzia a San Lorenzo, e tale COGNOME per un’analoga ragione (pag. 155 e ss., e 136, 150 e 166, della sentenza di appello). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Questo motivo è, poi, inammissibile con riferimento alle censure relative al reato di raccolta abusiva di scommesse, contestato al capo 16), in quanto privo di specifiche doglianze. L’effettiva titolarità dell’agenzia in favore del ricorrente rende ampiamente provata la sua responsabilità per detto reato, in quanto egli
era consapevole del fatto che essa operava senza avere ottenuto le necessarie autorizzazioni, e la ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. nell’intestazione fittizia dell’agenzia al Ferdico rende dimostrato che l’attività stessa era svolta con tale finalità. Manifestamente infondata è, poi, l’eccezione di estinzione di detto reato per prescrizione, risultando evidente che il termine di legge, pari a sette anni e sei mesi, non era decorso né al momento dell’emissione della sentenza di secondo grado, né è decorso alla data odierna, stante la sospensione disposta nel corso di tale giudizio, come esplicitato nel precedente paragrafo 1.
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è infondato, in tutti i motivi contenuti nei due distinti atti, e deve essere rigettato.
15.1. Il primo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME e dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME sono infondati e ai limiti dell’inammissibilità, dal momento che i due atti non si confrontano adeguatamente con la motivazione delle due sentenze di merito.
In primo luogo, l’affermazione contenuta nell’atto predisposto dall’avv. COGNOME secondo cui l’indagato iscritto in data 21/11/2013 nel procedimento n. 10652/2013 R.G.N.R. non sarebbe il ricorrente, stante la diversa data di nascita, è contraddittoria, perché in tal caso questi non sarebbe stato indagato a partire da quella data, e non potrebbe essersi verificata alcuna tardività, nei suoi confronti, delle indagini svolte in quel procedimento.
La ricostruzione contenuta nei due ricorsi, peraltro, non appare corretta: dall’atto allegato da NOME COGNOME risulta che, diversamente da quanto affermato dal ricorrente, per il procedimento n. 10652/2013 R.G.N.R. il pubblico ministero chiese l’archiviazione in data 26/03/2018 (richiesta accolta in data 25/06/2019). Il n. 4847/18 R.G.N.R. è un procedimento diverso, in cui sono inizialmente confluiti gli indagati NOME COGNOME e NOME COGNOME, e solo successivamente NOME COGNOME in quanto iscritto in data 08/07/2019, anche per i reati di cui all’art. 512-bis cod. pen., e sulla base di atti di indagin svolti in altri procedimenti e a carico di altri indagati. Si è trattato realmente pertanto, di una nuova iscrizione, in un diverso e nuovo procedimento, in particolare per le condotte di intestazione fittizia. La motivazione delle due sentenze di merito, secondo cui gli elementi a carico di questo ricorrente sono emersi dalle intercettazioni disposte a carico di altri soggetti e per i reati ipotizzati a carico di questi, e dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizi che spontaneamente hanno parlato di lui, per cui non si tratterebbe del risultato di indagini finalizzate a verificare gli indizi già emersi a carico del Sansone nel
procedimento i cui termini erano scaduti, appare corretta e fondata su elementi di fatto, ed è censurata dal ricorrente solo in termini generici.
Il ricorso, nei suoi due atti, non si confronta, poi, con il chiaro principio della giurisprudenza di legittimità, secondo cui «La scelta del giudizio abbreviato preclude all’imputato la possibilità di eccepire l’inutilizzabilità degli atti d’indagi compiuti fuori dai termini ordinari di inizio e fine delle indagini preliminari i quanto, non essendo equiparabile alla inutilizzabilità delle prove vietate dalla legge (all’art. 191 cod. proc. pen.), la stessa non è rilevabile d’ufficio ma solo su eccezione di parte, sicché essa non opera nel giudizio abbreviato» (Sez. 6, n. 4694 del 24/10/2017, dep. 2018, Rv. 272196; Sez. 6, n. 12085 del 19/12/2011, dep. 2012, Rv. 252580).
15.2. Il secondo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME è inammissibile per manifesta infondatezza. Il ricorrente sostiene la nullità patologica delle indagini svolte dopo la data del 21/11/2014, essendo mancata la richiesta e l’autorizzazione alla riapertura delle indagini a suo carico per la sua reiscrizione nel registro degli indagati avvenuta in data 08/07/2019, ovvero essendo tardive le indagini svolte nell’ambito di quello che, nonostante il passaggio dal n. 10652/2013 R.G.N.R. al n. 4847/2018 R.G.N.R., è il medesimo e unico fascicolo di indagini. La doglianza relativa alla violazione dell’art. 414 cod. proc. pen. è manifestamente infondata, perché lo stesso ricorrente riconosce che non è stato emesso alcun provvedimento di archiviazione del primo procedimento aperto, tanto da presumerne l’esistenza in via implicita, e non si confronta con il rilievo, contenuto nelle due sentenze di merito, che la nuova iscrizione del ricorrente è stata disposta a seguito di indagini relative ad altri soggetti e ad altri reati, non essendo dette indagini mai proseguite a suo carico; deve ribadirsi che, secondo questa Corte, «La preclusione processuale ex art. 414 cod. proc. pen. derivante dall’omessa riapertura delle indagini dopo l’intervenuta archiviazione richiede che si sia in presenza dello stesso fatto di reato, oggettivamente e soggettivamente considerato» (Sez. 6, n. 44864 del 14/09/2023, Rv. 285448). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
L’affermazione di una nullità patologica delle indagini eventualmente svolte oltre il termine, poi, contrasta con il consolidato principio giurisprudenziale citato al paragrafo che precede.
15.3. Il secondo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME e il terzo e quarto motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME sono infondati e devono essere rigettati.
Il GLYPH ricorso, GLYPH in GLYPH questi GLYPH motivi, GLYPH lamenta GLYPH l’insufficienza GLYPH della GLYPH prova dell’appartenenza del ricorrente alla famiglia mafiosa di Uditore derivante dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia NOME COGNOME e NOME COGNOME, dei quali si contesta l’attendibilità, ma le due sentenze di merito motivano in modo
approfondito e non manifestamente illogico sia la credibilità dei due collaboratori, alle pagine 205 e ss. della sentenza di primo grado e 305 e ss. di quella di secondo grado, per la convergenza delle loro dichiarazioni nei punti essenziali, l’irrilevanza della contestata circolarità delle stesse e l’esistenza di sufficient riscontri, sia l’importanza delle loro propalazioni, alle quali si aggiungono quelle dell’altro collaboratore, NOME COGNOME, che sono state logicamente interpretate come confermative dell’inserimento del ricorrente e di suo fratello nel contesto mafioso del mandamento al quale, secondo costui, essi si stavano riavvicinando, ed anche quelle di NOME COGNOME che, pur non avendo mai avuto rapporti con il ricorrente e con suo fratello, li conosceva come “uomini d’onore”. In particolare, la partecipazione del ricorrente alla riunione del 22/10/2015 finalizzata alla nomina del nuovo reggente del mandamento mafioso di San Lorenzo, sponsorizzando uno specifico soggetto, riunione nella quale, secondo il COGNOME, erano ammessi a discutere solo i mafiosi ritualmente affiliati, è stata logicamente ritenuta una prova decisiva della sua appartenenza a Cosa nostra. Anche l’obiezione circa la diversa geolocalizzazione del telefono cellulare del ricorrente, che posizionerebbe quest’ultimo in un luogo diverso da quello in cui era in corso la riunione, è stata respinta con una motivazione fondata sulle risultanze processuali, in particolare una conversazione del 09/08/2018 tra il fratello del ricorrente, NOME COGNOME e il nipote NOME COGNOME circa l’abitudine del ricorrente di non portare con sé il cellulare alle riunioni di mafia (vedi pag. 209 della sentenza di primo grado, e pag. 319 di quella di appello).
In merito alla valutazione dell’attendibilità dei collaboratori di giustizia e delle loro dichiarazioni devono ribadirsi i principi giurisprudenziali richiamati al superiore paragrafo 3.2., in particolare quello secondo cui «il sindacato di legittimità sulla valutazione delle chiamate di correo non consente il controllo sul significato concreto di ciascuna dichiarazione e di ciascun elemento di riscontro, perché un tale esame invaderebbe inevitabilmente la competenza esclusiva del giudice di merito, potendosi solo verificare la coerenza logica delle argomentazioni con le quali sia stata dimostrata la valenza dei vari elementi di prova, in sé stessi e nel loro reciproco collegamento» (Sez. 1, n. 36087 del 13/11/2020, Rv. 280058). Nel presente caso la motivazione delle due sentenze di merito appare, sul punto, approfondita e logica, avendo affrontato tutte le doglianze espresse in merito alle asserite incongruità, mancanza di credibilità, assenza di riscontri delle dichiarazioni più rilevanti, ed avendole respinte con argomentazioni logiche e fondate sui collegamenti con i vari elementi di riscontro; essa si sottrae, pertanto, a censure da parte del giudice di legittimità.
I predetti motivi di ricorso devono, pertanto, essere respinti, perché la condanna del ricorrente non si fonda sulla sua precedente condanna per il delitto
di cui all’art. 416-bis cod. pen., ma sulle condotte accertate nel periodo in esame, logicamente valutate come dimostrative della sua attuale intraneità a Cosa nostra.
15.4. Il quarto motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME e il quinto e sesto motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME sono infondati e devono essere rigettati.
In tali motivi il ricorrente contesta la valutazione di sussistenza delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen., Essi propongono argomentazioni analoghe a quelle degli altri ricorrenti e perciò, per esigenze di sintesi, di rimanda alle valutazioni già esposte ai paragrafi 4.1.e 4.2.
Deve essere respinta anche la richiesta, avanzata nel sesto motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME di acquisizione della sentenza emessa a carico del fratello del ricorrente, che avrebbe escluso la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 461-bis, comma 6, cod. pen. La mancata indicazione della sua irrevocabilità la rende non acquisibile dal giudice di legittimità, secondo quanto stabilito, tra le altre, dalla sentenza Sez. 6, n. 13461 del 22/02/2023, Rv. 284473 che, come molte precedenti, limita la possibilità di acquisizione in questa fase processuale alle pronunce irrevocabili. Inoltre la richiesta deve essere valutata inammissibile perché il ricorrente non ha indicato la decisività dell’esame di quella pronuncia, tenuto conto del principio giurisprudenziale secondo cui «Le sentenze pronunciate in procedimenti penali diversi e non ancora divenute irrevocabili, legittimamente acquisite al fascicolo del dibattimento nel contraddittorio fra le parti, possono essere utilizzate come prova limitatamente alla esistenza della decisione e alle vicende processuali in esse rappresentate, ma non ai fini della valutazione delle prove e della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti» (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231677).
15.5. Il terzo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME e i motivi dal settimo al decimo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME nei quali il ricorrente contesta la sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo dei reati di cui ai capi 21) e 22), sono infondati e devono essere rigettati.
Le due sentenze motivano ampiamente l’impossidenza delle due coimputate, e la conseguente impossibilità che le stesse abbiano fornito il denaro necessario per impiantare le due attività, non con riferimento, ad esempio, alla somma versata dalla Cascavilla per la formale costituzione della società, ma a quelle, ben superiori, con cui affrontare le spese necessarie per la effettiva creazione e gestione delle attività stesse. La deduzione che tale denaro sia stato fornito dal ricorrente, e che questi sia l’effettivo titolare di entrambe le attività, si fond peraltro, non solo sulla prova logica, ma anche su elementi di fatto che la
supportano, come le intercettazioni, citate in particolare dalla pag. 339 e dalla pag. 357 della sentenza di primo grado, dalle quali risulta l’assoluta incapacità della Cascavilla di curare le problematiche della gestione, a lei di fatto ignote, nonché il suo sostanziale disinteresse, e l’intervento diretto del ricorrente per pagare il mangime per le vacche e le contravvenzioni a carico dei mezzi dell’azienda gestita dalla RAGIONE_SOCIALE o relative a violazioni fiscali, ma anche per riscuotere un rimborso dell’ENEL. La valutazione della sufficienza di tali elementi, sebbene indiziari, per dimostrare l’investimento di denaro da parte del ricorrente è conforme a quanto stabilito da varie pronunce che, pur richiedendo la prova piena della provenienza delle risorse economiche dall’interponente e della sua finalità elusiva, ritengono adeguata una sua natura solo indiziaria (vedasi Sez. 6, n. 26931 del 29/05/2018, Rv. 273419; Sez. 6, n. 5231 del 12/01/2018, Rv. 272128). Altrettanto adeguata è la motivazione in merito alla sussistenza dell’elemento soggettivo, e quindi del dolo specifico di eludere possibili misure ablative, avendo il ricorrente ragione di temere simili interventi, stante la condanna già subita per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. e il suo ancora attuale inserimento nell’associazione mafiosa facente capo a Cosa nostra. Lo stesso ricorrente, peraltro, neppure nel suo ricorso ha fornito una spiegazione alternativa all’evidente e provata interposizione fittizia delle due coimputate.
E’ del tutto infondata, infine, la doglianza di una mancanza di motivazione in merito alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato al capo 22). La sentenza di appello, infatti, dopo avere esaminato separatamente le prove relative al coinvolgimento del ricorrente nelle due attività, ai paragrafi 3.3 e 3.4. valuta unitariamente la sussistenza dapprima dell’elemento oggettivo, e quindi dell’elemento soggettivo, dei due reati. La motivazione circa la sussistenza del dolo, pertanto, è palesemente relativa sia al delitto di cui al capo 21), sia a quello di cui al capo 22), essendo infatti citate, nell’unico paragrafo 3.4, sia l’azienda agricola sia la RAGIONE_SOCIALE
15.6. Il quinto, il sesto e il settimo motivo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME, complessivamente relativi al trattamento sanzionatorio, sono inammissibili per manifesta infondatezza e mancanza di specificità.
Le doglianze relative all’applicazione della recidiva e al diniego delle attenuanti generiche ripetono i motivi proposti con l’atto di appello, senza confrontarsi con la sentenza impugnata che, richiamando anche la motivazione del giudice di primo grado, ha esplicitamente valutato la rilevanza della precedente condanna del ricorrente per l’analogo delitto associativo, e l’ha non illogicamente ritenuta sintomatica di una maggiore pericolosità e maggiore capacità a delinquere del soggetto, nonostante la sua risalenza nel tempo, alla luce del rinnovato inserimento del COGNOME nell’associazione mafiosa Cosa
nostra, con un ruolo non secondario, condotta dimostrativa del non avere egli riportato un effetto deterrente né da tale condanna, né dalla misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per quattro anni, a lui applicata con decreto emesso il 20/04/1995 ma confermato in data 27/06/2007.
Quanto all’omessa concessione delle attenuanti generiche, la sentenza motiva ampiamente l’assenza di elementi valutabili positivamente, alla luce anche delle violazioni alla misura degli arresti domiciliari da lui commesse, e che ne hanno determinato l’aggravamento. La doglianza, pertanto, risulta generica, priva di specifico confronto con la motivazione, e manifestamente infondata.
Manifestamente infondato, generico e privo di specificità è anche il motivo relativo all’entità delle pene irrogate per il reato base e per i reati satelli avendo la sentenza motivato in modo dettagliato le ragioni della loro entità, determinata secondo i criteri dell’art. 133 cod. pen., ed avendo evidenziato il limitato scostamento dal minimo edittale quanto alla pena determinata per il reato di cui all’art. 416-bis, commi 4 e 6, cod. pen., e la modesta entità degli aumenti per i due reati satellite, conseguentemente valutando non accoglibile la richiesta di una complessiva riduzione del trattamento sanzionatorio.
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è infondato, nel suo complesso, e deve essere rigettato.
16.1. Il primo motivo è infondato e al limite della inammissibilità, per la sua parziale genericità e mancanza di specificità.
Il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata è meramente ripetitiva di quella di primo grado, addirittura frutto di un copia-incolla, mentre essa esamina approfonditamente e in modo autonomo tutte le doglianze. Ha infatti valutato, esaminando le numerose intercettazioni sia singolarmente sia, soprattutto, nel loro complesso, che i rapporti del ricorrente con suo suocero NOME COGNOME con gli altri coimputati, con il cugino americano NOME COGNOME da lui più volte menzionato, andavano «ben oltre il mero legame di parentela» (così alla pag. 338), e dimostrano che il ricorrente era organicamente inserito nell’associazione mafiosa, ed in particolare si occupava della gestione degli affari della stessa, sotto lo stretto controllo del suocero, del quale seguiva le direttive, venendo anche da lui rimproverato quando non conseguiva i risultati richiesti, e al quale relazionava in modo continuativo circa l’andamento delle varie iniziative economiche e le problematiche insorgenti. In merito ai rapporti del ricorrente con il cugino americano, la sentenza risponde alla doglianza circa la modestia degli aiuti economici di quest’ultimo, indicandone la ben maggiore entità rispetto a quanto affermato nel ricorso, alla luce delle stesse conversazioni del ricorrente
con i sodali, e respingendo la spiegazione della difesa, secondo cui si tratterebbe solo di millanterie, visto che il ricorrente ha partecipato effettivamente a molte attività, investendo dei capitali e rapportandosi al cugino americano anche per ottenere finanziamenti ad esse dedicati (così alle pagine da 338 a 343 della sentenza). La Corte di appello ha replicato anche alla doglianza dell’essere state le intercettazioni citate senza rispettarne la cronologia, al fine di supportare l’ipotesi criminosa, valutando che «anche analizzando le conversazioni intercettate secondo un ordine cronologico», la loro valenza probatoria non cambia (così alla pag. 338). Dalla pag. 342, poi, la sentenza analizza dettagliatamente molte intercettazioni, già in precedenza richiamate, evidenziando per ciascuna di esse la rilevanza al fine di dimostrare il coinvolgimento del ricorrente in molteplici attività economiche, riferibili sempre al sodalizio criminoso, e valutandole perciò idonee a dimostrare il suo stabile inserimento in esso, la sua permanente messa a disposizione, il contributo concreto da lui fornito per il sostentamento dell’associazione stessa.
Il ricorso, invece, in ordine alle intercettazioni propone doglianze del tutto generiche, lamentando che la sentenza impugnata abbia riprodotto il contenuto di quelle ambientali in modo diverso rispetto alla posizione di un coimputato, senza neppure indicare di quali intercettazioni si tratterebbe, ovvero lamentando il mancato riconoscimento del ricorrente come “uomo d’onore” da parte dei collaboratori di giustizia, mentre la sentenza non parla affatto di tale fonte di prova, che non rientra, quindi, nel compendio probatorio a suo carico. Manifestamente infondate, infine, sono le affermazioni del ricorrente circa l’avere la sentenza impugnata omesso di motivare in merito al contributo effettivo da lui dato alla cosca, benché si tratti di un elemento necessario per la sussistenza del delitto associativo; circa il non avere motivato le ragioni dell’interpretazione data alle intercettazioni incomprensibili o poco chiare; circa il non avere valutato la rilevanza delle intercettazioni quale riscontro alle propalazioni dei collaboratori di giustizia. Su tutti questi elementi la sentenza ha motivato in modo adeguato e sufficiente, in particolare quanto al contributo concreto dato dal ricorrente alla cosca, per il suo mantenimento e rafforzamento, respingendo, dalla pag. 343, le analoghe censure mosse con l’atto di appello, e ribadendo che tale contributo è consistito nel gestire varie attività imprenditoriali dell’associazione, anche intestandosi le quote della RAGIONE_SOCIALE appartenenti al suocero, pur avendo egli stesso investito nell’iniziativa, e in generale eseguendo le direttive di questi, ad esempio nell’imporre ai clienti di rifornirsi solo da tale società, anche acquistando derrate a loro non immediatamente necessarie. Le censure in merito alla interpretazione delle intercettazioni, poi, non tengono conto del fatto che la sentenza non ha ravvisato conversazioni incomprensibili o poco chiare,
che peraltro non sono state indicate neppure dal ricorrente, né del fatto che, non essendosi fatto ricorso alle propalazioni dei collaboratori di giustizia quale elemento di prova a carico di questo imputato, non vi era la necessità di raffrontare le intercettazioni con esse.
Il motivo di ricorso è generico, altresì, nella parte in cui estende analoghe doglianze ai reati di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestati al ricorrente, in quanto la sentenza spiega l’apparente illogicità dell’essere stato lo COGNOME intestatario di un’attività commerciale, pur rischiando di essere qualificato come un prestanome del suocero (si veda la pag. 351), valutando logica la scelta di NOME COGNOME di intestare le quote della società RAGIONE_SOCIALE al genero, perché ancora incensurato. Il ricorso, infine, è aspecifico nella parte in cui afferma che la motivazione è contraddittoria perché valorizza le intercettazioni pur ammettendo che lo COGNOME era consapevole di essere intercettato: la sentenza, infatti, non sostiene affatto che egli avesse una tale consapevolezza bensì, citando la conversazione del 06/08/2018 in cui parlava della pistola da lui posseduta, valuta che egli «sebbene nutrisse il sospetto di essere intercettato, si sentiva di non correre alcun rischio nel parlare liberamente, dal momento che l’ama era ben nascosta» (così alla pag. 358). La sentenza ha ritenuto, pertanto, che il ricorrente, nel pronunciare la frase “… la dovete trovare prima, però”, si rivolgesse ad un ipotetico ascoltatore appartenente alle forze dell’ordine solo in forma scherzosa, non avendo in realtà alcuna certezza in merito ad intercettazioni a proprio carico.
16.2. Il secondo motivo di ricorso, relativo all’omessa concessione delle attenuanti generiche, è inammissibile per mancanza di specificità. Il ricorso, deducendo una violazione dell’obbligo motivazionale sul punto, non si confronta affatto con la sentenza, che alla pag. 361 motiva ampiamente il diniego di concessione delle attenuanti generiche, riportandosi alla pronuncia di primo grado e ribadendo l’irrilevanza della formale incensuratezza del ricorrente, alla luce della sua pericolosità dimostrata dalla gravità dei fatti contestati, dai rapporti da lui intrattenuti con mafiosi di elevato spessore criminale, dalla detenzione illegale di almeno una pistola, dall’indole violenza emergente dalle intercettazioni.
16.3. Il terzo motivo di ricorso, relativo alla sussistenza delle aggravanti di cui ai commi 4 e 6 dell’art. 416-bis cod. pen., deve essere rigettato perché infondato. Esso ripropone le argomentazioni già valutate e ritenute infondate ai precedenti paragrafi 4.1. e 4.2., ai quali, perciò, si rimanda, ribadendone le conclusioni. Inoltre deve sottolinearsi la genericità ed erroneità del contenuto di questo motivo, in quanto esso, in due passaggi identici, si riferisce, incomprensibilmente, ad una «occasione d’incontro» apparentemente tra
avvocati penalisti, e nella parte finale lamenta l’assenza di motivazione in ordine alle doglianze «riguardanti proprio la figura del COGNOME», soggetto non imputato in questo procedimento e in esso mai citato.
16.4. Il quarto motivo di ricorso, relativo all’omessa qualificazione del reato associativo in quello di favoreggiamento, è inammissibile per genericità e aspecificità. Esso non si confronta con la motivazione della sentenza, che alle pagine 362 (in ordine al delitto di cui all’art. 379 cod. pen.) e 366 (quanto al reato di cui all’art. 378 cod. pen.) ha respinto le argomentazioni del ricorrente richiamando le intercettazioni che dimostrano la sua intraneità all’associazione criminosa, elemento sufficiente per escludere che la sua condotta possa essere qualificata come un mero favoreggiamento in favore di questa o di suoi singoli partecipi. Proprio la sentenza Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 231670, citata dal ricorrente, dimostra l’incompatibilità tra i due reati, non potendo sussistere il mero delitto di favoreggiamento quando il soggetto risulti stabilmente a disposizione dell’associazione, come ritenuto provato per lo Spatola. Questa Corte infatti, in applicazione dei principi ritenuti dimostrativi del delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, ha stabilito che «E’ configurabile il delitto di favoreggiamento personale in corso di consumazione del delitto associativo di cui all’art. 416-bis cod. pen. nel caso in cui la condotta dell’agente sia sorretta dall’intenzione di aiutare il partecipe ad eludere le investigazioni dell’autorità e non dalla volontà di prendere parte, con animus socii, all’azione criminosa» (Sez. 1, n. 48560 del 04/07/2023, Rv. 285461, citata nella sentenza stessa), per cui la sussistenza di una volontà partecipativa esclude radicalmente la diversa qualificazione richiesta.
Anche questo motivo di ricorso, inoltre, presenta un contenuto erroneo, dal momento che, nella sua parte finale, cita a sostengo della tesi difensiva i rapporti tra tale «Liga Paolo» e tale «COGNOME», soggetti non imputati in questo procedimento e in esso mai citati.
16.5. Il quinto motivo di ricorso, nel quale viene contestato il criterio di calcolo degli aumenti per le aggravanti di cui all’art. 416-bis, commi 4 e 6 , cod. pen., e di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen., deve essere dichiarato inammissibile.
Dalla sentenza di secondo grado non risulta che tale punto sia stato oggetto di appello, essendo stato solo genericamente contestato il trattamento sanzionatorio nella sua entità complessiva, e l’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., in conformità al principio devolutivo delle impugnazioni, stabilisce l’inammissibilità del ricorso in cassazione se proposto per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello. Il calcolo degli aumenti per le aggravanti, infatti, non è stato effettuato né rivalutato dal giudice di secondo grado, mentre quello di primo grado risulta averlo effettuato in modo corretto, esplicitamente
conformandosi, in merito all’operatività dell’art. 63, comma 4, cod. pen., ai principi di questa Corte, secondo cui «Nell’ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dai commi quarto e sesto dell’art. 416-bis cod. pen., ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non si applica la regola generale prevista dall’art. 63, comma quarto, cod. pen., bensì l’autonoma disciplina derogatoria di cui al citato sesto comma dell’art. 416-bis, che prevede l’aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata» (Sez. 6, n. 7916 del 13/12/2011, dep. 2012, Rv. 252069, tra le molte).
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è infondato, e deve essere rigettato.
17.1. Il primo motivo, relativo alla non utilizzabilità, per la prova del delitto di cui all’art. 512-bis cod. pen. contestato al ricorrente, delle intercettazioni disposte per altro reato, è infondato.
Il ricorrente sostiene la violazione dell’art. 270 cod. proc. pen., per l’insussistenza della necessaria connessione, ai sensi dell’art. 12 cod. proc. pen., tra il delitto associativo, per il quale le intercettazioni sono state autorizzate, e il delitto a lui ascritto, non essendo stata neppure contestata l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. La sentenza impugnata, invece, ha adeguatamente motivato la sussistenza della connessione tra i due reati, in relazione al coimputato NOME COGNOME come valutato al superiore paragrafo 13.4., al quale si rimanda anche in ordine alla sussistenza di detta connessione, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b) o lett. c), cod. proc. pen., quando per il diverso reato non sia stata contestata o ritenuta l’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. Deve, in particolare, ribadirsi che la connessione qualificata, in presenza della quale la sentenza Sez. U, n. 51 del 28/11/2019, dep. 2002, Cavallo, ritiene non operante il divieto di cui all’art. 270 cod. proc. pen., e perciò utilizzabili le intercettazioni disposte per l’accertamento di un diverso reato, va individuata con riferimento al “fatto-reato”, cioè all’accadimento storico inquadrabile in una fattispecie criminosa, nella sua espressione oggettiva e non soggettiva: è irrilevante, perciò, la posizione soggettiva degli autori del reato, in quanto l’autorizzazione all’intercettazione concerne il fatto-reato nella sua materialità, indipendentemente dall’identità dei suoi autori. Per tale ragione questa Corte ha stabilito che «In tema di intercettazioni telefoniche, secondo la disciplina applicabile ai procedimenti iscritti fino al 31 agosto 2020, antecedente alla riforma introdotta dal d.lgs. 29 dicembre 2017, n. 216, come modificato dal d.l. 30 aprile 2020, n. 28, convertito dalla legge 25 giugno 2020 n. 70, i risultati delle intercettazioni autorizzate per un determinato fatto-reato sono utilizzabili
anche per gli ulteriori fatti-reato legati al primo dal vincolo della continuazione ex art. 12, lett. b), cod. proc. pen., senza necessità che il disegno criminoso sia comune a tutti i correi» (Sez. 5, n. 37697 del 29/09/2021, Rv. 282027).
Nel presente caso, la connessione tra il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., contestato ad NOME COGNOME e per il quale sono state autorizzate le intercettazioni, e quello di cui all’art. 512-bis cod. pen., contestato al capo 11) a costui e all’odierno ricorrente, è stata accertata in modo logico e conforme alle risultanze processuali, stante la evidente connessione tra detti reati quanto meno per continuazione, ma anche teleologica, come già valutato al predetto paragrafo 13.4. Tale connessione, di fatto, è stata indicata nelle imputazioni stesse, essendo il delitto associativo ascritto al Mannino anche «per aver curato l’intestazione fittizia di diverse attività per conto dell’organizzazione mafiosa» ed essendo quest’ultima condotta, pertanto, espressione della sua partecipazione al sodalizio mafioso. La sussistenza di tale connessione, come sopra valutato, rende le intercettazioni utilizzabili per l’accertamento e la prova anche del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., a carico di tutti i suoi autori.
17.2. Anche il secondo motivo di ricorso, relativo alla sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato di cui al capo 11), in particolare alla sussistenza del dolo specifico, è infondato.
La sentenza, richiamando espressamente la ricostruzione delle vicende storiche della ditta RAGIONE_SOCIALE contenuta nella pronuncia di primo grado, ha ribadito gli elementi che provano come tale attività sia stata da sempre nella disponibilità della famiglia COGNOME e, da ultimo, di NOME COGNOME, elementi rappresentati sia dalle intercettazioni, sia dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia NOME COGNOME. Ha ribadito, in particolare, che il COGNOME non esercitava una mera co-gestione occulta della ditta, ma ne era il vero titolare, tanto che il ricorrente, come risulta dalle intercettazioni, riservava a lui tutte le decisioni in merito ai lavori da effettuare e agli aspetti economici, decisioni idonee a dimostrare che costui aveva un diretto interesse alla redditività dell’azienda. Ha perciò dedotto, da tale comportamento, che il COGNOME vi avesse investito risorse proprie: tale deduzione è logica, e il ricorrente non ha offerto alcuna diversa spiegazione delle predette conversazioni e delle ragioni del coinvolgimento di detto coimputato nell’attività di cui egli era, formalmente, l’unico titolare.
Per la sussistenza, nell’interposto, del dolo specifico richiesto dalla norma, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che «In tema di trasferimento fraudolento di valori, l’intestatario fittizio del bene non deve essere animato necessariamente dal dolo specifico, che caratterizza, invece, la condotta dell’interponente, unico soggetto direttamente interessato a eludere la possibile
adozione di misure di prevenzione a suo carico, essendo sufficiente, invece, la consapevolezza del dolo specifico altrui» (Sez. 2, n. 16997 del 28/03/2024, Rv. 286355; Sez. 6, n. 19108 del 15/02/2024, Rv. 286662). La finalità elusiva dell’interponente COGNOME è ritenuta provata, nella sentenza di primo grado, dallo status del medesimo, già condannato per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. ed attualmente intraneo alla medesima associazione mafiosa. La consapevolezza di tale finalità da parte del ricorrente COGNOME è stata dedotta, applicando i principi della “prova logica”, dai rapporti di parentela che legano quest’ultimo con la famiglia COGNOME, essendo egli cognato di NOME COGNOME e marito di una cugina di NOME COGNOME (così alla pag. 273 della sentenza di primo grado), dal momento che tali rapporti lo rendevano consapevole sia della natura mafiosa di tale “famiglia”, sia dell’appartenenza ad essa dell’interponente, sia della caratura criminale di questi e dei motivi per cui egli poteva fondatamente temere di subire provvedimenti ablatori dei beni che fossero risultati a lui intestati (si veda pag. 281 della predetta sentenza). Tale argomentazione è logica e adeguata, nonché fondata sugli elementi probatori emersi nel procedimento, e peraltro il ricorrente non ne ha indicato la fallacia, avendo in realtà omesso di confrontarsi specificamente con essa, né vi ha opposto una diversa argomentazione altrettanto plausibile, che spieghi la sua condotta, come emersa dalle intercettazioni citate nelle due sentenze di merito.
18. Il ricorso proposto da NOME COGNOME in merito alla condanna per il reato a lui ascritto al capo 12), è infondato nel suo complesso, e deve essere rigettato.
18.1. Anche questo ricorrente, nel primo motivo, deduce la inutilizzabilità delle intercettazioni, in quanto disposte per l’accertamento del delitto associativo e non sussistendo alcuna connessione tra tale delitto e quello di cui all’art. 512bis cod. pen. a lui contestato, perché l’operazione imprenditoriale relativa alla costituzione della RAGIONE_SOCIALE e all’apertura, con essa, di un’agenzia di scommesse sarebbe stata funzionale solo ad interessi personali dei soggetti coinvolti. Tale affermazione è infondata: le due sentenze di merito hanno ampiamente motivato, in relazione ai coimputati NOME COGNOME e COGNOME, la sussistenza di una società di fatto tra gli ultimi due e il ricorrente COGNOME, e l’interesse non dei singoli, ma dell’associazione criminosa, all’apertura e gestione dell’agenzia di scommesse, in quanto attività inerente al settore di specifico interesse della stessa, in cui venivano reinvestiti i proventi dell’attività criminosa (così, in particolare, alle pagine da 70, da 274 e da 353 della sentenza di secondo grado, e da 265 di quella di primo grado). La prova del coinvolgimento di imputati responsabili del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen.,
i quali hanno reinvestito i proventi dell’attività delittuosa dell’associazione nell’attività imprenditoriale descritta in questa imputazione, in maniera occulta al fine di evitare possibili provvedimenti ablatori, dimostra la connessione tra il delitto associativo e quello di cui all’art. 512-bis cod. pen., connessione che rende utilizzabili le intercettazioni disposte solo in relazione al primo delitto, come valutato nei precedenti paragrafi 13.4. e 17.1., ai quali si rimanda.
In merito, poi, alla responsabilità del ricorrente per il reato a lui ascritto, le due sentenze di merito hanno ritenuto dimostrato che egli ha acconsentito ad intestare fittiziamente ad un terzo l’attività, essendo a conoscenza dell’identità dei suoi soci occulti e della loro finalità elusiva: dalle intercettazioni, infatt risulta che egli, accedendo alla proposta ideata dal COGNOME, invece di pretendere la buonuscita per cedere la sua attività, ha formato una società con costui e con lo COGNOME, le cui quote sono state fittiziamente intestate a tale NOME COGNOME. Il ricorrente non ha mai spiegato perché ha acconsentito ad attribuire alla società la natura occulta, e a gestire, quindi, l’attività mediante l’interposizione di un terzo a lui sconosciuto, ed ha omesso di indicare quale fosse il suo eventuale interesse, personale e privato, ad operare con tali modalità. In realtà, dalle intercettazioni emerge che egli non aveva alcuna esigenza di occultare il proprio ruolo nella società e nell’attività stessa, e che anzi interveniva personalmente nelle operazioni necessarie per l’apertura dell’agenzia, occultando invece il coinvolgimento dei suoi soci: nell’intercettazione del 27/07/2018 il coimputato COGNOME rassicura il prenditore di assegni emessi dal COGNOME circa la loro affidabilità, con le parole “non sono miei, come fossero miei”. Ciò significa, in primo luogo, che il COGNOME effettuava personalmente i pagamenti emettendo assegni a proprio nome, senza occultare il proprio coinvolgimento nell’attività, pur essendo consapevole che i suoi soci tenevano una condotta diversa. In secondo luogo, come logicamente valutato dalla sentenza di secondo grado, tale conversazione dimostra soprattutto che il La Rosa effettuava tali pagamenti con denaro appartenente ai soci occulti ovvero con assegni garantiti da questi ultimi, i quali, quindi, investivano nell’attività denaro proprio o dell’associazione criminosa, e venivano anche identificati, dai terzi, quali i veri titolari dell’attivit stessa. Il ricorso non solo non si confronta con tale valutazione, ma sostiene l’inesistenza della prova di avere il ricorrente effettuato pagamenti con le risorse dei sodali, tacendo sulla predetta intercettazione, e non offrendone una interpretazione alternativa altrettanto plausibile. Deve anche ribadirsi che l’investimento economico dell’associazione nell’attività che la srls RAGIONE_SOCIALE doveva intraprendere è provata dalle conversazioni in cui NOME COGNOME prevede un costo di 250.000-300.000 euro, e in cui COGNOME lamenta di avere già speso 100.000 euro, esaminate nei paragrafi 6.6. e 14.4.: tali intercettazioni, ed Corte di Cassazione – copia non ufficiale
anche l’entità delle somme investite, sono state logicamente ritenute dimostrare l’interessamento non dei singoli soci occulti, ma dell’intera associazione criminosa, l’unica struttura capace di mettere a disposizione simili risorse.
L’affermazione che il ricorrente sarebbe stato ignaro della finalità elusiva degli altri soci occulti, finalità che li ha determinati a coinvolgerlo nella creazione di una società occulta e nella intestazione fittizia delle sue quote, è stata ritenuta infondata dalle due sentenze di merito, con motivazione logica e completa, nonché fondata sulle risultanze processuali. La condotta sopra evidenziata, consistita nell’effettuare pagamenti con denaro proveniente dagli altri soci occulti, o comunque garantiti da questi ultimi, è stata ritenuta sufficientemente dimostrativa della sua conoscenza della necessità di costoro di nascondere tale provenienza, e la conversazione intercettata in data 24/05/2019 riportata alla pag. 380 della sentenza di secondo grado, in cui egli brinda in onore di NOME COGNOME e del COGNOME con le parole “brindo per due personaggi, più grande e più piccolo, che mi onora la loro presenza”, dimostra ampiamente la sua consapevolezza della identità e della caratura criminale dei soggetti con i quali si era associato nell’attività imprenditoriale in questione, nonché del coinvolgimento in essa non dei suoi singoli soci ma dell’associazione stessa, non essendo né NOME COGNOME né il COGNOME soci della srls RAGIONE_SOCIALE. La deduzione, in particolare da tale intercettazione, che egli conoscesse bene l’associazione mafiosa e i loro affiliati, e quindi la finalità elusiva di costoro e dei suoi soci, dovendo essi occultare di essere i veri titolari dell’attività per evitare i molto probabili provvedimenti ablatori, è del tutto logica, e sufficiente per ritenere dimostrata la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 512-bis cod. pen. dal momento che, analogamente a quanto già ricordato al paragrafo 17.2., «In tema di trasferimento fraudolento di valori, risponde a titolo di concorso anche colui che non è animato dal dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione o di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter cod. pen., a condizione che almeno uno dei concorrenti agisca con tale intenzione e che della medesima il primo sia consapevole» (Sez. 2, n. 27123 del 03/05/2023, Rv. 284795; Sez. 2, n. 38277 del 07/06/2019, Rv. 276954). Tale principio deve essere ribadito, perché conforme a quanto ritenuto, in tema di concorso in fattispecie a dolo specifico, da Sez. U, n. 16 del 05/10/1994, Demitry, e da Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, COGNOME, Rv. 202904. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
La condotta tenuta dal ricorrente risulta corrispondere a quanto indicato nella massima citata, in quanto egli non ha mai spiegato quale diversa, personale motivazione lo avrebbe spinto a formare una società occulta e ad affidare la gestione dell’attività ad un intestatario fittizio (pur avendo la predetta
sentenza affermato, in motivazione, che il dolo specifico del reato non è escluso dall’esistenza di finalità concorrenti con quella elusiva): la motivazione della sentenza impugnata, in merito alla sussistenza del dolo specifico richiesto dalla norma, è pertanto, oltre che logica, conforme ai principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità.
18.2. Il secondo e il terzo motivo del ricorso dell’imputato COGNOME devono essere ritenuti inammissibili per genericità e mancanza di specificità.
Il ricorrente lamenta l’apoditticità e l’erroneità della motivazione della sentenza in merito al diniego delle attenuanti generiche e all’applicazione della recidiva contestata, ripetendo le doglianze contenute nell’atto di appello e senza confrontarsi con la sentenza stessa, che alle pagine 382 e 383 le ha respinte sottolineando l’assenza di elementi positivi tali da giustificare la concessione delle attenuanti, elementi non indicati neppure nel ricorso, a fronte della gravità del reato e dell’intensità del dolo, dedotte dei rapporti intessuti con esponenti mafiosi di elevato spessore, e sottolineando che l’applicazione della recidiva è giustificata dalla natura del reato di cui alla precedente condanna e dalla sua non eccessiva risalenza nel tempo, elementi che rendono la nuova condotta indicativa di una maggiore pericolosità sociale del ricorrente, e dimostrativa di una progressione criminosa rispetto alla precedente condanna. A tale motivazione, ampia, logica e non contraddittoria, il ricorrente oppone una critica generica, affermando insussistenti queste valutazioni che, invece, sono state esplicitamente formulate, critica che deve, perciò, essere ritenuta aspecifica.
Il ricorso proposto da NOME COGNOME in merito alla sua condanna per il reato di cui al capo 13), è infondato e deve essere rigettato.
19.1. Il primo motivo, relativo alla sussistenza del delitto di cui all’art. 512bis cod. pen., è infondato.
Esso deduce l’insufficienza della motivazione, in merito al ritenuto coinvolgimento di NOME COGNOME nella gestione dell’attività fittiziamente intestata alla RAGIONE_SOCIALE, perché fondata sulla conversazione intercettata tra i coimputati COGNOME e COGNOME in cui il primo avrebbe parlato di un possibile aiuto economico che il COGNOME avrebbe in passato fornito al COGNOME, da cui deriverebbe un debito di quest’ultimo, mentre il ricorrente ha dichiarato di avere ricevuto un consistente risarcimento da parte di un’assicurazione, che lo ha reso economicamente indipendente, e che il collegamento con NOME COGNOME per la gestione dell’attività derivava solo dai rapporti personali tra i vari soggetti coinvolti, essendo la RAGIONE_SOCIALE, asseritamente interposta, la compagna del ricorrente, e l’altra socia della RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME, nipote del coimputato NOME COGNOME. Il ricorso, quindi, non si confronta
integralmente con la sentenza, perché essa ricava la prova di una interposizione fittizia delle due socie della RAGIONE_SOCIALE, nella gestione dell’attività sita in INDIRIZZO e del coinvolgimento in essa di NOME COGNOME e dello stesso COGNOME, anche da altri elementi probatori, quali, in primo luogo, una lettura complessiva e non parcellizzata dalle numerose intercettazioni a carico di costoro, e in secondo luogo le varie intercettazioni in cui NOME COGNOME afferma esplicitamente che il locale apparteneva a “COGNOME“, unitamente ad NOME COGNOME. Queste prove vengono, con argomentazione logica, ritenute dimostrative di un interessamento di detti coimputati che va oltre il mero dare consigli alle due socie, formali titolari e gestrici del locale, come sostenuto dalla tesi difensiva: le molte intercettazioni da cui risulta che il COGNOME si occupa personalmente dei lavori di ristrutturazione e dei pagamenti, e che il COGNOME cura la gestione economica dell’attività, assumendo ogni decisione senza coinvolgere mai le due socie, dimostrano una gestione totalmente affidata ai soli COGNOME e COGNOME e dimostrano altresì che l’attività deriva da un investimento economico compiuto da questi ultimi, i quali sono, quindi, i veri proprietari del locale e i titolari di ogni attività commerciale svolta in essi. La sentenza evidenzia anche che il COGNOME utilizzava, in effetti, il locale come se ne fosse il proprietario, organizzando al suo interno incontri con gli altri affiliati all’associazione criminosa, come già ricordato al precedente paragrafo 13.4.
La motivazione circa la sussistenza del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., e la partecipazione ad esso del ricorrente, è pertanto completa, logica, e fondata su un compendio probatorio ben più ampio e consistente di quello esaminato nel ricorso, e contestato come insufficiente e contraddittorio. Le deduzioni contenute in questo primo motivo di ricorso, pertanto, non sono idonee a creare anche solo un ragionevole dubbio circa la colpevolezza del ricorrente.
19.2. Anche il secondo e il terzo motivo del ricorso, relativi alla violazione di legge in ordine al trattamento sanzionatorio e all’omessa concessione delle attenuanti generiche, sono infondati e devono essere rigettati.
La sentenza di appello ha ritenuto congrua la pena irrogata, pari a tre anni e sei mesi di reclusione, poi ridotta per la scelta del rito abbreviato, perché inferiore alla media edittale, nonostante la già indicata gravità del fatto, l’intensità del dolo e la personalità negativa del ricorrente. Tale motivazione è sufficiente, in quanto fondata sugli elementi di cui all’art. 133 cod. pen., e conforme ai principi di questa Corte, secondo cui «La determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli
elementi di cui all’art. 133 cod. pen.» (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Rv. 256197; Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Rv. 276288).
Analogamente, è sufficiente e conforme ai principi giurisprudenziali la motivazione circa il diniego delle attenuanti generiche, in quanto fondata sulla gravità del fatto e l’intensità del dolo, dedotte dai rapporti instaurati con un soggetto di notevole caratura criminale quale NOME COGNOME e sulla personalità negativa dello stesso COGNOME, pregiudicato per vari delitti. Questa Corte ha affermato che «In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione» (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269); la motivazione si conforma a tale principio, ed è perciò insindacabile.
Il ricorso di NOME COGNOME in ordine alla sua condanna per il delitto di cui al capo 13), è infondato e deve essere rigettato.
20.1. Il primo motivo, relativo alla sussistenza del delitto in questione, è al limite della inammissibilità, in quanto generico ed erroneo quanto all’asserita non conformità della motivazione ai principi giurisprudenziali in merito alla natura del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen.
La ricorrente sostiene l’insussistenza di tale delitto perché esso avrebbe natura di reato plurisoggettivo improprio, a concorso necessario, e non sarebbe, pertanto, ipotizzabile un concorso ai sensi dell’art. 110 cod. pen. da parte di colui che accetta l’interposizione fittizia, ma solo da parte di chi collabora all’attività di interposizione senza tenere la condotta tipica dell’interposto, e non agisce, quindi, quale concorrente necessario; la norma, però, prevede la punibilità del solo interponente e non dell’interposto, che non potrebbe, pertanto, essere sanzionato ai sensi dell’art. 110 cod. pen., essendo la sua condotta tipizzata alla norma, ma non soggetta a sanzione per scelta del legislatore. Tale interpretazione dell’art. GLYPH 512-bis cod. GLYPH pen. GLYPH è errata, e si discosta dall’interpretazione giurisprudenziale, senza un fondamento convincente.
L’art. 512-bis cod. pen. stabilisce la responsabilità dell’interponente in quanto egli agisca per la specifica finalità prevista dalla norma stessa, potendo altrimenti l’interposizione fittizia, ovvero il trasferimento fraudolento di valori, non assumere rilevanza penale, o quanto meno non configurare il reato in questione, in assenza di tale finalità. Il soggetto interposto, pertanto, pur essendo un soggetto necessario per la realizzazione del reato, può rimanere del tutto estraneo ad esso, qualora non agisca con la medesima finalità ovvero non sia a conoscenza della finalità sottesa all’intestazione fittizia dei beni in proprio
favore: la sua partecipazione al reato, quindi, può consistere in una mera adesione all’atto materiale del trasferimento fittizio, ma non alla commissione del reato, così come configurato. Il concorso dell’interposto, peraltro, non è neppure necessario, dal momento che l’interponente potrebbe realizzare l’attribuzione fittizia dei propri beni ad un terzo anche all’insaputa di questi, mediante atti del tutto falsi compiuti senza la presenza dell’intestatario fittizio o mediante una illecita sostituzione di persona. La partecipazione dolosa e consapevole dell’interposto, pertanto, non avviene ai sensi dell’art. 512-bis cod. pen., essendo tale partecipazione, in realtà, non prevista e non indispensabile, ed è regolata, quindi, dall’art. 110 cod. pen., rilevando in quanto egli concorra nel reato commesso dall’interponente, con condotta dolosa materiale, morale, o comunque agevolatrice, alla realizzazione dell’intestazione fittizia. Questa Corte ha affermato, infatti, che «Il delitto di trasferimento fraudolento di valori di cui all’art. 512-bis cod. pen. non ha natura di reato plurisoggettivo improprio, ma rappresenta una fattispecie a forma libera in cui l’interposto, ove si renda fittiziamente titolare di beni o di utilità al fine di eludere misure ablatorie o di agevolare la commissione dei reati di riciclaggio e di reimpiego di beni di provenienza illecita, risponde a titolo di concorso ex art. 110 cod. pen.,…» (Sez. 2, n. 39774 del 07/05/2022, Rv. 283989-03; Sez. 2, n. 35826 del 12/07/2019, Rv. 277075; Sez. 1, n. 14626 del 10/02/2005, Rv. 231379).
La sentenza impugnata si è conformata a tale principio, che ha esplicitamente richiamato respingendo la qualificazione del reato quale reato plurisoggettivo improprio a concorso necessario, come proposto dalla ricorrente anche nei motivi di appello: il ricorso, pertanto, ripropone tale tesi difensiva senza apportare ulteriori elementi che la facciano ritenere maggiormente aderente al dato normativo, rispetto alla più convincente interpretazione seguita dalla Suprema Corte, e deve perciò essere rigettato.
20.2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
La ricorrente contesta la motivazione della sentenza, in merito alla sussistenza del dolo specifico richiesto dall’art. 512-bis cod. pen., sia riproponendo l’interpretazione giurisprudenziale secondo cui tutti i concorrenti nel reato devono avere agito con il dolo di eludere la legge in tema di prevenzione patrimoniale, sia deducendo la mera apparenza della motivazione stessa quanto alla propria consapevolezza della finalità elusiva degli interponenti.
L’affermazione della necessità che tutti i concorrenti nel reato agiscano con il dolo di eludere le disposizioni normative in tema di misure di prevenzione patrimoniale, che poggia su un indirizzo giurisprudenziale risalente (e che in realtà consiste, spesso, nella non distinzione tra il concetto di presenza in tutti i correi della finalità elusiva, e quello di mera consapevolezza della finalità elusiva
propria solo dell’interponente), non è conforme al principio dettato dalla giurisprudenza maggioritaria e più recente secondo cui, come già motivato al paragrafo 17.2., «In tema di trasferimento fraudolento di valori, l’intestatario fittizio del bene non deve essere animato necessariamente dal dolo specifico, che caratterizza, invece, la condotta dell’interponente, unico soggetto direttamente interessato a eludere la possibile adozione di misure di prevenzione a suo carico, essendo sufficiente, invece, la consapevolezza del dolo specifico altrui» (Sez. 2, n. 16997 del 28/03/2024, Rv. 286355; Sez. 6, n. 19108 del 15/02/2024, Rv. 286662). Questo principio deve essere qui ribadito, dal momento che esso appare maggiormente aderente al disposto della norma e alla natura del reato, che non prevede il concorso necessario dell’interposto, con il relativo elemento soggettivo, e sanziona quale condotta penalmente rilevante quella dell’interponente, al quale soltanto viene riferita la finalità di eludere le norme in materia di prevenzione patrimoniale.
La finalità elusiva dell’interponente NOME COGNOME è ritenuta provata, nella sentenza di primo grado, dallo status del medesimo, già condannato per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e all’epoca ancora intraneo alla medesima associazione. La consapevolezza di tale finalità da parte anche della ricorrente, sua nipote, è stata dedotta, applicando i principi della “prova logica”, dal suo rapporto di parentela con lo zio, tale da rendere del tutto incredibile che ella potesse ignorare le precedenti condanne da lui subite, per un delitto che rendeva altamente probabile l’adozione a suo carico di provvedimenti ablatori, atteso anche che egli era coinvolto in molteplici attività economiche, ma non risultava mai intestatario di alcuna di esse (così alla pag. 304 della sentenza di primo grado). Tale argomentazione è logica e sufficiente, anche perché la condotta tenuta dalla ricorrente, di lasciare che lo zio gestisse in modo del tutto autonomo l’attività imprenditoriale, senza intromettersi e senza neppure chiedergli conto dei risultati di tale gestione, dimostra non solo la coscienza della propria qualità di mera intestataria fittizia, ma anche la condivisione della volontà dello zio di occultare la propria titolarità. Essa, inoltre, si fonda sugli elementi probatori acquisiti nel procedimento, e la ricorrente non ha proposto una spiegazione alternativa della propria condotta, diversa da tale ritenuta consapevolezza e condivisione, che risulti altrettanto plausibile e maggiormente convincente.
Anche il ricorso di NOME COGNOME in ordine alla sua condanna per il delitto di cui al capo 13), nel suo complesso è infondato, e deve essere rigettato.
21.1. Il primo motivo, relativo alla sussistenza del delitto in questione, deve essere ritenuto inammissibile, in quanto non attinente alla posizione della ricorrente bensì a quella del coimputato COGNOME al punto da riprodurre
esattamente il primo motivo del ricorso proposto da questi, fino a definire la RAGIONE_SOCIALE, costantemente, come “il ricorrente” anziché “la ricorrente”.
L’esame nel merito di tale motivo, peraltro, porterebbe alla medesima valutazione di infondatezza già espressa con riferimento al primo motivo del ricorso del COGNOME, al paragrafo 19.1. Anche questo motivo del ricorso proposto dalla ricorrente COGNOME, infatti, deduce l’insussistenza della prova circa la sussistenza del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. per la non sufficienza, a tal fine, della conversazione tra i coimputati COGNOME e COGNOME circa l’aiuto economico che NOME COGNOME avrebbe dato al COGNOME, dopo il fallimento di un’attività di quest’ultimo. Si tratta però, come già valutato, di una doglianza infondata, perché non si confronta con la sentenza, che indica anche altri elementi di prova, tra cui, in particolare, le intercettazioni in cui NOME COGNOME afferma esplicitamente che il locale apparteneva a “COGNOME” unitamente ad NOME COGNOME, e le intercettazioni dello stesso COGNOME o del COGNOME, nelle quali essi risultano occuparsi dei lavori di ristrutturazione, dei pagamenti, e della gestione economica dell’attività, assumendo ogni decisione senza coinvolgere mai le due socie della RAGIONE_SOCIALE, società formalmente titolare delle attività svolte nel locale sito in INDIRIZZO Queste prove sconfessano la tesi difensiva, di un interessamento dei predetti interponenti limitato a dare consigli alle interposte, legate ad essi da rapporti di parentela o affettivi, essendo in particolare la COGNOME la compagna del coimputato COGNOME, in quanto sono state ritenute, con valutazione logica e approfondita, dimostrare non solo una gestione totalmente affidata ai soli COGNOME e COGNOME, ma anche la loro titolarità del locale e di ogni attività commerciale svolta in essi, stanti le affermazioni in tal senso di NOME COGNOME.
La motivazione circa la sussistenza del reato di cui all’art. 512-bis cod. pen., e la partecipazione ad esso della ricorrente, della quale non è contestata la sussistenza dell’elemento soggettivo, è pertanto logica e, soprattutto, fondata su un compendio probatorio ben più ampio e consistente di quello esaminato nel ricorso e definito insufficiente e contraddittorio, per cui non può ritenersi introdotto, dal ricorso, neppure un ragionevole dubbio circa la colpevolezza della stessa.
21.2. Anche il secondo e il terzo motivo del ricorso, relativi alla violazione di legge in ordine al trattamento sanzionatorio e all’omessa concessione delle attenuanti generiche, sono infondati e devono essere rigettati.
Anche in questo caso i due motivi di ricorso riproducono quasi esattamente il testo del ricorso proposto dal correo COGNOME al punto da indicare erroneamente la pena irrogata alla ricorrente, riportando quella inflitta invece al predetto coimputato.
La sentenza di appello ha ritenuto congrua la pena irrogata, pari a tre anni e tre mesi di reclusione, poi ridotta per la scelta del rito abbreviato, perché inferiore alla media edittale, e giustificata dalle modalità della condotta e dall’intensità del dolo, per gli stabili rapporti intrattenuti con un mafioso della caratura criminale di NOME COGNOME. Anche in questo caso la motivazione deve essere valutata come adeguata, in quanto fondata sugli elementi di cui all’art. 133 cod. pen., e conforme ai principi di questa Corte, già richiamati al superiore paragrafo 19.2.
Anche la motivazione circa il diniego delle attenuanti generiche è sufficiente e conforme ai principi giurisprudenziali, in quanto fondata sulla gravità del fatto e l’intensità del dolo, e sulla considerazione della irrilevanza della incensuratezza della ricorrente. L’affermazione della sentenza, circa l’assenza di elementi favorevoli alla concessione di questo beneficio, è contestata solo in modo generico nel terzo motivo di ricorso, limitandosi la ricorrente ad indicare, a tal proposito, «il contegno processuale del ricorrente» senza precisarne il contenuto, che non appare significativo atteso che la RAGIONE_SOCIALE, diversamente dal COGNOME, non risulta avere rilasciato alcuna dichiarazione, e «la sua personalità», senza evidenziare caratteristiche diverse dalla mera incensuratezza. La motivazione, pertanto, anche su questo punto non appare manifestamente illogica, carente o contraddittoria, ed è pertanto insindacabile in sede di legittimità.
Il ricorso proposto da NOME COGNOME è infondato in tutti i suoi motivi, e deve essere rigettato.
22.1. Il primo motivo, relativo alla sussistenza del reato di cui all’art. 512bis cod. pen. ascritto al ricorrente al capo 15), è infondato.
La sentenza risponde alle censure del ricorrente, secondo cui non sarebbe stato provato il contributo causale da lui apportato alla consumazione del reato, commesso intestando fittiziamente a tale COGNOME l’agenzia di scommesse sita in INDIRIZZO gestita in realtà dal coimputato COGNOME, ribadendo che tale prova è fornita dalle intercettazioni, lette e valutate in modo complessivo e non parcellizzato. Dalla loro lettura, secondo le due sentenze di merito, il ricorrente risulta direttamente e attivamente coinvolto nell’apertura dell’attività e nella individuazione del COGNOME quale intestatario fittizio, facendo costantemente da intermediario in favore del COGNOME.
Il coinvolgimento anche economico del Militello in tale attività è sufficientemente provato, come si è valutato nel precedente paragrafo 14.5., a cui si rimanda, così come è provata la finalità elusiva di tale intestazione fittizia, stante la consapevolezza di questi della possibilità di essere sottoposto a misura di prevenzione a causa della sua appartenenza ad un’associazione mafiosa. E’
provata anche, come indicato in detto paragrafo, la sussistenza dell’aggravante dell’avere egli agito per agevolare l’associazione stessa, che controllava il settore delle scommesse nel proprio territorio di competenza, e non consentiva ad estranei, e neppure ai singoli sodali, l’apertura in esso di agenzie apposite, in concorrenza con quelle da lei gestite. Le intercettazioni, secondo le due sentenze di merito, dimostrano il profondo e costante coinvolgimento del COGNOME nell’operazione contestata in questo capo di imputazione, essendo egli l’unico tramite tra il COGNOME e l’intestatario fittizio COGNOME, che forse era st individuato proprio dal ricorrente, dal momento che il COGNOME, parlando con lui, lo definisce “il tuo titolare” (intercettazione del 08/09/2016, pag. 309 della sentenza di primo grado), e che lo stesso COGNOME non si rivolge mai direttamente al COGNOME, neppure per chiedere il pagamento anticipato della somma che gli è stata promessa quale ricompensa per fungere da prestanome, ma si rapporta sempre al COGNOME.
La valutazione della sentenza di secondo grado, contenuta alla pag. 396, che tale coinvolgimento del ricorrente sia decisivo e costituisca, pertanto, un contributo fondamentale per la consumazione del reato con le specifiche modalità adottate, è pertanto logica e fondata sugli elementi probatori raccolti, in particolare le intercettazioni citate nelle due sentenze di merito, il cui contenuto è chiaro e di univoca interpretazione. Il ricorrente, peraltro, pur contestando tale valutazione di decisività del proprio contributo causale, non fornisce una interpretazione alternativa di tali intercettazioni, né una diversa giustificazione del suo coinvolgimento nella vicenda, tali da creare quanto meno un ragionevole dubbio circa la sussistenza del reato o della sua responsabilità per esso.
Anche la sussistenza del necessario elemento soggettivo è sufficientemente provata, attraverso la prova logica, fondata sulle risultanze processuali. La sussistenza della finalità elusiva del Militello è stata adeguatamente dimostrata attraverso le intercettazioni e la sua partecipazione all’associazione mafiosa di Passo di Rigano, come si è già valutato nei superiori paragrafi 14.4. e 14.5., ai quali si rinvia; per la configurazione del dolo specifico del concorrente nel reato di cui all’art. 512-bis cod. pen. la giurisprudenza di questa Corte non ritiene necessaria la sussistenza di un’analoga finalità, ma sufficiente la sua consapevolezza di tale finalità nell’azione dell’interponente, come affermato dalle sentenze Sez. 2, n. 16997 del 28/03/2024, Rv. 286355; Sez. 6, n. 19108 del 15/02/2024, Rv. 286662; Sez. 2, n. 27123 del 03/05/2023, Rv. 284795; Sez. 2, n. 38277 del 07/06/2019, Rv. 276954, già richiamate nei precedenti paragrafi 17.2. e 18.1.
Il ricorrente non contesta tale indirizzo giurisprudenziale, ma lamenta l’erroneità della sentenza di secondo grado perché dedurrebbe tale prova solo in
via presuntiva, dai suoi rapporti di frequentazione con esponenti mafiosi e dalle facilitazioni in campo lavorativo che avrebbe ricevuto dal COGNOME stesso. L’obiezione non è fondata perché la consapevolezza, da parte del ricorrente, della finalità elusiva del Militello, e quindi la sussistenza del suo dolo specifico, non è attribuita in via presuntiva, bensì dedotta dagli elementi acquisiti, attraverso un processo logico-deduttivo. La “prova logica” è ammessa nel procedimento penale, in particolare per valutare la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato che, appartenendo alla sfera interiore dell’autore, solitamente può essere solo dedotto dalle concrete modalità dell’azione e da indizi esterni, complessivamente valutati. Nel presente caso, ritenuta dimostrata la finalità elusiva dell’azione del COGNOME, la consapevolezza di questa da parte del ricorrente è stata dedotta dal suo stretto rapporto con il predetto, risultando evidente al COGNOME che il COGNOME era il vero titolare dell’agenzia di scommesse ma voleva intestare fittiziamente l’attività ad un terzo, dalla sua conoscenza sia della qualità del coimputato di appartenente all’associazione criminosa di Passo di Rigano, sia della possibilità per tutti i partecipi ad essa di subire provvedimenti ablatori dei propri beni, e infine dalla sua consapevolezza dell’interessamento dell’associazione mafiosa stessa alla apertura e alla gestione dell’agenzia di scommesse in questione. La sentenza impugnata evidenzia che il ricorrente non ignorava il contesto di appartenenza del Militello, essendo egli stesso vicino a NOME COGNOME, esponente di spicco dell’associazione di Passo di Rigano (così alle pag. 36 e 50 e ss. della sentenza di appello) e soggetto a sua volta coinvolto nel settore delle scommesse, al quale il COGNOME faceva da autista e prestava la propria utenza telefonica, come dettagliatamente esposto alle pagine 313 e ss. della sentenza di primo grado. Proprio lo stretto rapporto con NOME COGNOME è stato logicamente ritenuto idoneo a dimostrare anche la consapevolezza del ricorrente dell’essere, quello delle scommesse, un settore sottoposto al controllo della cosca di Passo di Rigano, la quale non consentiva l’apertura, nel proprio territorio, di agenzie che vi si sottraessero; tale riconducibilità alla cosca di tutt le agenzie di scommesse presenti sul suo territorio spiegava ulteriormente la necessità di una loro intestazione fittizia, al fine di occultare la loro riferibil all’associazione mafiosa. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Anche la sussistenza del necessario dolo specifico del ricorrente, pertanto, è stata motivata in modo sufficiente e logico, con una valutazione fondata sugli elementi presenti in atti e che si sottrae, perciò, alla sindacabilità del giudice di legittimità. Il ricorrente, peraltro, non ha mai fornito una interpretazione alternativa plausibile della sua condotta e delle varie intercettazioni, né ha spiegato quale diversa finalità avesse, almeno per quanto a sua conoscenza, l’intestazione fittizia dell’agenzia in questione.
22.2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato, e deve essere rigettato.
La sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 416-bis.1 cod. pen. è stata sufficientemente motivata, sulla base degli elementi sopra già evidenziati. La sentenza richiama, infatti, le molte intercettazioni da cui risulta dimostrato il controllo della cosca di Passo di Rigano sulle agenzie di scommesse aperte o da aprire nel proprio territorio di competenza, nonché il suo diretto coinvolgimento in esse, quali attività in cui reinvestire i proventi dell’attività criminosa e da c ricavare ulteriore denaro (si veda dalla pag. 399 della sentenza), La correttezza di tale motivazione è stata già valutata in relazione alle posizioni di NOME COGNOME (par. 6.6.) e di Militello (par. 14.4 e 14.5.), e deve perciò rinviarsi quanto esposto in tali parti della presente decisione: è sufficiente qui sottolineare come dalle intercettazioni sia emerso che nell’apertura di agenzie di scommesse venivano investiti capitali rilevanti, dei quali è stata ritenuta certa la provenienza dall’associazione, e non dal singolo sodale, data la mancanza di entrate legittime per ciascuno di essi, come esposto al precedente paragrafo 4.2.
Anche con riferimento al presente caso, in cui la sentenza di appello ha ritenuto provato l’investimento economico da parte del Militello, dal momento che questi ha pagato l’affitto del locale e versava al Ferdico la somma pattuita per la sua interposizione fittizia, è pertanto logica l’affermazione secondo cui tale investimento proveniva dall’associazione criminosa, alla quale andavano i profitti dell’attività, che veniva quindi gestita anche con il fine di agevolare la famiglia mafiosa di Passo di Rigano.
Questa Corte ha affermato che «La circostanza aggravante dell’aver agito al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso ha natura soggettiva inerendo ai motivi a delinquere, e si comunica al concorrente nel reato che, pur non animato da tale scopo, sia consapevole della finalità agevolatrice perseguita dal compartecipe» (Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, COGNOME, Rv. 278734). La sentenza impugnata si è conformata a tale principio, ed ha ritenuto provata la consapevolezza del ricorrente circa la finalità agevolatrice sicuramente perseguita dal Militello, in quanto il suo stretto e duraturo rapporto con il Sirchia lo aveva messo a conoscenza dell’interessamento dell’associazione mafiosa verso l’attività delle agenzie di scommesse e dell’essere queste gestite dalla cosca o, quanto meno, nel loro interesse, avendo egli stesso lavorato in una di esse. Anche questa motivazione appare logica e sufficiente, nonché fondata su elementi certi acquisiti nel processo, e non smentiti dal ricorrente.
22.3. Il terzo motivo di ricorso, relativo all’omessa concessione delle attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio, è infondato.
La sentenza impugnata ha motivato ampiamente le ragioni del diniego del beneficio richiesto, evidenziando che il contributo causale fornito dal ricorrente alla realizzazione del delitto è stato rilevante e continuativo, essendosi egli attivato per stipulare il contratto di affitto del locale, per individuare e convincere l’intestatario fittizio, per mantenere costantemente i rapporti con questi, operando sempre nella consapevolezza di agevolare, così, la consorteria mafiosa. La sua personalità, poi, non è stata ritenuta positiva e meritevole di un’attenuazione della pena, stanti i suoi rapporti costanti e non occasionali con esponenti mafiosi di elevata caratura criminale, in particolare il Sirchia, oltre al Militello. Il diniego della concessione delle attenuanti generiche si fonda, quindi sui criteri, previsti dall’art. 133 cod. pen., della gravità della condotta e dell personalità negativa del soggetto, e si conforma perciò al principio giurisprudenziale secondo cui «In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell’art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell’esclusione» (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269).
Considerazioni analoghe devono essere espresse in merito alla richiesta di mitigazione della pena: la sentenza ha ribadito la sua congruità alla luce della gravità del reato commesso e dell’intensità del dolo, per la continuità dei rapporti con gli esponenti mafiosi sopra indicati, e ne ha evidenziato, comunque, la sua inferiorità rispetto al medio edittale. Deve applicarsi, perciò, l’ulteriore principi secondo cui «La determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri d adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art 133 cod. pen.» (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Rv. 256197).
Il ricorso di NOME COGNOME è infondato, nel suo complesso, e deve essere rigettato.
23.1. Il primo motivo, relativo alla inutilizzabilità delle intercettazio disposte a carico del coimputato NOME COGNOME asseritamente dopo la scadenza dei termini di indagine, è analogo al primo motivo dei due ricorsi da questi proposti, in cui egli sostiene la inutilizzabilità patologica di tutte le indagi svolte a suo carico, in quanto tardive: si rinvia, perciò, alla valutazione di infondatezza esposta al paragrafo 15.1., ribadendo in particolare che «La scelta del giudizio abbreviato preclude all’imputato la possibilità di eccepire
l’inutilizzabilità degli atti d’indagine compiuti fuori dai termini ordinari di inizi fine delle indagini preliminari in quanto, non essendo equiparabile alla inutilizzabilità delle prove vietate dalla legge …, la stessa non è rilevabile d’uffi ma solo su eccezione di parte, sicché essa non opera nel giudizio abbreviato» (Sez. 6, n. 4694 del 24/10/2017, dep. 2018, Rv. 272196; Sez. 6, n. 12085 del 19/12/2011, dep. 2012, Rv. 252580). L’inutilizzabilità delle intercettazioni poste a base della condanna della ricorrente, da lei eccepita per la loro tardività rispetto al termine di scadenza delle indagini disposte a carico del Sansone, deve perciò essere esclusa, non essendo tale eccezione formulabile dall’imputato ammesso, su sua richiesta, al rito abbreviato, e questo primo motivo di ricorso deve essere rigettato.
La ricorrente deduce anche l’erroneo richiamo al disposto dell’art. 270 cod. proc. pen., nella formulazione precedente alla sua riforma disposta con il d.l. del 30/12/2019, n. 161, conv. con legge 28/02/2020, n. 7, ed in effetti il divieto di utilizzazione delle intercettazioni, stabilito da detta norma, non è qui operante, alla luce della sentenza Sez. U, n. 51 del 28/11/2019, dep. 2002, Cavallo, citata nel precedente paragrafo 17.1., alla cui più approfondita motivazione si rimanda.
23.2. COGNOME Il secondo motivo di ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.
Questo motivo, attinente all’asserita violazione dell’iter procedimentale stabilito dall’art. 414 cod. proc. pen., è identico a quello proposto dal coimputato COGNOME nel secondo motivo del ricorso predisposto dall’avv. COGNOME in quanto sostiene la nullità patologica delle intercettazioni disposte a carico di questi senza un formale provvedimento di archiviazione del primo procedimento aperto e un successivo decreto di riapertura delle indagini. Esso, quindi, deve essere ritenuto manifestamente infondato per i motivi già esposti nel precedente paragrafo 15.2., a cui si rinvia, non essendo stata mai disposta l’archiviazione del procedimento pendente, ed essendo la nuova iscrizione del Sansone nel registro degli indagati conseguente ad indagini svolte a carico di altri soggetti, secondo quanto ampiamente motivato nelle due sentenze di merito.
23.3. Il terzo, il quarto e il quinto motivo di ricorso, relativi alla sussistenz dei reati ascritti alla ricorrente ai capi 22) e 21), sono infondati, e devono essere rigettati. Essi possono essere esaminati unitariamente, stante l’identità delle questioni poste, analoghe anche al terzo motivo del ricorso predisposto dall’avv. COGNOME per il coimputato COGNOME e ai motivi dal settimo al decimo dell’atto predisposto dall’avv. COGNOME per detto coimputato.
La valutazione di infondatezza dei motivi proposti dal COGNOME, contenuta nel paragrafo 15.5., deve essere estesa ai motivi proposti dalla ricorrente COGNOME avendo anche la sentenza impugnata fatto riferimento, nell’esaminare
le doglianze relative ai reati contestati ai capi 21) e 22), a quanto esposto in relazione all’appello del coimputato. E’ infondata l’affermazione secondo cui le sentenze di merito avrebbero erroneamente valutato l’attività della ricorrente e del Sansone in merito alla RAGIONE_SOCIALE e all’azienda agricola, ritenendo provata una titolarità del secondo e una intestazione fittizia della prima, mentre le intercettazioni dimostrerebbero solo un’attività di gestione da parte del Sansone, che già gestiva la RAGIONE_SOCIALE quando le sue quote societarie erano intestate alla Argano. Le intercettazioni, riportate per esteso nella sentenza di primo grado, dimostrano infatti ampiamente che la ricorrente non aveva alcun potere decisionale e gestionale all’interno della società e nell’azienda agricola, e non ne curava neppure l’aspetto economico, perché tutti i pagamenti venivano effettuati dal Sansone, il quale intratteneva direttamente i rapporti con i clienti e assumeva tutte le decisioni necessarie, senza coinvolgere la donna e senza neppure riferirle l’andamento delle due attività, ed anzi rimproverandola perché ella non si rendeva mai immediatamente disponibile per compiere le operazioni formali riservate all’intestataria dell’azienda, ovvero delle quote societarie.
Il diretto, immediato e costante intervento del Sansone per far fronte a tutte le esigenze, anche economiche, della società RAGIONE_SOCIALE e dell’azienda agricola, peraltro anche riscuotendo personalmente un rimborso riconosciuto dall’Enel, è stato logicamente valutato, dalle due sentenze di merito, come dimostrativo dell’investimento da lui effettuato nelle due attività. La sentenza impugnata ribadisce, infatti, che la ricorrente è risultata innpossidente, e comunque non in grado di far fronte, con risorse proprie, ai costi non dell’acquisto formale delle quote della RAGIONE_SOCIALE, bensì dell’avviamento e della gestione dell’attività e, dopo poco più di un anno, dell’avviamento dell’azienda di allevamento di bovini e bufale. Gli indizi convergono, quindi, nel dimostrare che il solo Sansone aveva investito denaro proprio nelle due attività e ne era quindi non un mero gestore, subordinato alle decisioni e alle scelte della titolare, bensì ne era egli stesso il vero titolare, così come valutato da entrambe le sentenze di merito. Tale valutazione, perciò, è logica e sufficiente per la condanna, nonché conforme ai principi di questa Corte, secondo cui la prova della provenienza dall’interponente delle risorse economiche impiegate per l’acquisto dei beni intestati fittiziamente a terzi può essere anche solo indiziaria (Sez. 6, n. 26931 del 29/05/2018, Rv. 273419; Sez. 6, n. 5231 del 12/01/2018, Rv. 272128, già citate al par. 15.5.).
Questi motivi di ricorso devono essere rigettati anche in merito alle doglianze relative alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo dei due reati contestati ai capi 21) e 22). Ribadito il principio giurisprudenziale citato nei
precedenti paragrafi 17.2. e 18.1. secondo cui, per la sussistenza del dolo specifico dell’interposto, non è necessario che egli agisca con la finalità di eludere le nome in materia di prevenzione, ma è sufficiente la sua consapevolezza di tale finalità nell’azione dell’interponente (si vedano Sez. 2, n. 16997 del 28/03/2024, Rv. 286355; Sez. 6, n. 19108 del 15/02/2024, Rv. 286662; Sez. 2, n. 27123 del 03/05/2023, Rv. 284795; Sez. 2, n. 38277 del 07/06/2019, Rv. 276954), la motivazione delle due sentenze di merito, che hanno ritenuto provata in via indiziaria tale consapevolezza da parte della ricorrente, è sufficiente e logica, e si sottrae alle censure proposte.
In primo luogo deve ricordarsi che è provata la finalità elusiva del Sansone nell’attribuire fittiziamente alla ricorrente la titolarità delle quote della RAGIONE_SOCIALE e dell’azienda agricola: come si è valutato nel precedente paragrafo 15.5., le due sentenze di merito hanno adeguatamente e logicamente motivato che il Sansone aveva ragione di temere possibili provvedimenti ablatori, essendo stato già condannato per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. ed essendo ancora partecipe di un’associazione criminosa, tanto da essere ritenuto colpevole, in questo procedimento, dell’analogo delitto a lui ascritto al capo 2). In secondo luogo, la prova della consapevolezza della ricorrente circa la sussistenza di tale finalità nelle operazioni del Sansone è stata legittimamente dedotta dalle modalità delle condotte di lei, e dal rapporto di stretta conoscenza e frequentazione con il medesimo.
Come già ricordato nel precedente paragrafo 22.1., l’accertamento del dolo dell’agente avviene solitamente attraverso un processo logico-deduttivo di valutazione degli indizi costituiti, per lo più, dalle concrete modalità dell’azione e da elementi esterni, complessivamente valutati. La ricorrente, all’epoca, era fidanzata con il figlio del Sansone, e ciò rende logicamente deducibile, come ritenuto dalle due sentenze di merito, che ella fosse a conoscenza, quanto meno, dei trascorsi del futuro suocero, sottoposto per anni a detenzione per una condanna quale esponente mafioso operante in quello stesso territorio. In più, le concrete modalità della sua azione dimostrano che ella ha accettato senza difficoltà di essere nominata fittiziamente intestataria delle quote della srl RAGIONE_SOCIALE e dell’azienda agricola menzionata nel capo 21), pur non avendo alcuna esperienza imprenditoriale, tanto meno nei settori in cui tali imprese operavano, e si è completamente disinteressata della loro gestione, trascurando persino di occuparsi degli aspetti formali che non potevano essere svolti da altri, tanto da non essere mai disponibile quando veniva ricercata per eseguire qualche operazione bancaria o per presentarsi dal notaio (si veda l’intercettazione del 16/05/2018, alla pag. 408 della sentenza). Questa modalità della sua condotta dimostra che ella non ha accettato le nomine fittizie quale titolare per ottenere
un’occasione di lavoro o per acquisire esperienza, e quindi, in definitiva, per un interesse personale a svolgere le attività stesse. E’ logico pertanto dedurne, come ritenuto da entrambe le sentenze, che ella ha accettato esclusivamente per un interesse e un’esigenza del Sansone, ed era consapevole della necessità di questi di occultare la sua effettiva titolarità su entrambe le attività. L’unica ragione plausibile per tale occultamento è quella di eludere le norme relative alle misure di prevenzione patrimoniale, perché non ne sono emerse altre, e né il Sansone né la ricorrente le hanno mai prospettate; la ricorrente, inoltre, non ha mai fornito alcuna spiegazione per la propria condotta, indicando per quali diversi motivi avrebbe accondisceso a rendersi un’intestataria fittizia. La sussistenza del suo dolo specifico, pertanto, è stata motivata in modo sufficiente e logico, con una valutazione fondata sugli elementi presenti in atti e che si sottrae, perciò, alla sindacabilità del giudice di legittimità.
23.4. E’ infondato, infine, il sesto motivo di ricorso, relativo al trattamento sanzionatorio, che deve perciò essere rigettato.
La sentenza impugnata ha motivato in modo sufficiente le ragioni della irrogazione della pena base di tre anni di reclusione e di quella di sei mesi di reclusione quale aumento per la continuazione con il secondo reato, valutando grave la condotta tenuta, per gli stretti rapporti instaurati con un soggetto mafioso e dalla caratura criminale notevole, e intenso il dolo, per la reiterazione della condotta di reato in un arco temporale ristretto, ed ha sottolineato che la pena base è inferiore rispetto al medio edittale. Nel calcolo della pena, perciò, si è tenuto conto degli elementi elencati nell’art. 133 cod. pen., e deve pertanto applicarsi il principio, dettato da questa Corte, secondo cui «La determinazione della pena tra il minimo ed il massimo edittale rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito ed è insindacabile nei casi in cui la pena sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, anche nel caso il cui il giudicante si sia limitato a richiamare criteri di adeguatezza, di equità e simili, nei quali sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen.» (Sez. 4, n. 21294 del 20/03/2013, Rv. 256197).
24. Il ricorso proposto da NOME COGNOME in relazione alla sua condanna per il reato a lei ascritto al capo 22), è infondato nel suo complesso, e deve essere rigettato per le ragioni già esposte in relazione al ricorso proposto dalla coimputata NOME COGNOME stante l’analogia dei loro motivi.
24.1. Il primo motivo di ricorso, con il quale la ricorrente deduce la inutilizzabilità delle intercettazioni disposte a carico di NOME COGNOME perché successive alla scadenza del termine di indagine, è analogo, nelle varie considerazioni esposte, al primo motivo del ricorso proposto da NOME
COGNOME, al punto da estendere la sua deduzione, nella rubrica del motivo, al reato di cui al capo 21), non ascritto alla ricorrente. Appare sufficiente, perciò, richiamare la valutazione esposta al precedente paragrafo 23.1., ribadendo anche in questo caso che la nullità delle indagini effettuate dopo la scadenza del termine, qualora tale vizio fosse sussistente, è ritenuta una nullità fisiologica e non patologica, e la conseguente nutilizzabilità non può essere perciò eccepita nel rito abbreviato, a cui anche questa ricorrente è stata ammessa.
24.2. Anche il secondo motivo di ricorso, relativo all’asserita violazione dell’art. 414 cod. proc. pen., è analogo al secondo motivo del ricorso proposto da NOME COGNOME e deve essere dichiarato inammissibile, essendo manifestamente infondate le ragioni esposte.
Appare sufficiente, pertanto, il rinvio alle valutazioni contenute nel precedente paragrafo 23.2., non sussistendo la dedotta violazione di legge.
24.3. Il terzo e il quarto motivo di ricorso, attinenti alla sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato di cui al capo 22), sono infondati e devono essere rigettati.
Anche con riferimento al ruolo ricoperto dalla ricorrente nella RAGIONE_SOCIALE, è ampiamente provata la fittizietà della sua intestazione delle quote societarie, delle quali era in realtà titolare NOME COGNOME con il quale ella aveva intrecciato una relazione affettiva. La sussistenza di una prova piena circa l’elemento oggettivo del reato è stata già esaminata nel paragrafo 15.5., relativo alla responsabilità del COGNOME, e le valutazioni ivi esposte circa la sufficienza e logicità della motivazione contenuta nelle due sentenze di merito devono essere qui ribadite, richiamando quanto già affermato. Le intercettazioni dimostrano ampiamente che il Sansone non si limitava a gestire la società al posto della Argano, stante anche la totale inesperienza e incapacità gestoria di questa, ma ne disponeva in piena autonomia e, soprattutto, effettuava tutti i pagamenti necessari, provvedendo, ad esempio, a farsi carico del pagamento delle contravvenzioni di natura fiscale e amministrativa, peraltro divenendo anche l’unico e diretto destinatario del rimborso inviato dall’Enel, già citato ai paragrafi 15.5. e 23.3. Tale condotta è stata ritenuta, logicamente, dimostrare che il solo Sansone aveva finanziato la costituzione della società e l’inizio dell’attività, ed era il vero titolare sia delle quote societarie sia dell’attività intrapresa, essendo altrimenti ingiustificabile il pagamento da parte sua delle citate contravvenzioni, effettuato non su pressione della Argano, ma chiedendo semplicemente alla donna di fargli avere i vari provvedimenti, ed assumendo in piena autonomia le decisioni necessarie, comunicando poi alla Cascavilla, subentrata nella titolarità delle quote, i pagamenti da effettuare e le procedure da seguire (così nelle
intercettazioni del 18/07/2018 e del 09/08/2018, riportate alla pag. 418 della sentenza di secondo grado).
La valutazione delle due sentenze di merito appare effettivamente fondata sulle risultanze processuali, dal momento che il contenuto delle intercettazioni mostra con evidenza che la Argano, così come la Cascavilla, era del tutto estranea alla gestione della società e non veniva neppure informata delle decisioni che il Sansone assumeva in piena autonomia, e che entrambe le formali intestatarie si rapportavano al Sansone come al vero e unico titolare dell’attività; inoltre la Argano non ha mai smentito il suo stato di impossidenza e la sua totale inesperienza in campo imprenditoriale, circostanze che rafforzano la prova del suo ruolo di mera prestanome.
L’elemento soggettivo richiesto all’interposto non è necessariamente la condivisione della finalità elusiva di misure di prevenzione, ma può consistere nella sola consapevolezza della finalità elusiva dell’interponente, come già ricordato nel paragrafo 23.3., a cui si rimanda anche per le considerazioni in merito alla sufficienza della prova dell’avere il Sansone agito con tale finalità. La sentenza impugnata si conforma a tale principio giurisprudenziale, e trae la prova della consapevolezza, da parte della ricorrente, della finalità elusiva dell’interponente dalla sua condotta concreta e dal rapporto affettivo esistente tra i due. La valutazione della sentenza impugnata è logica: lo stretto rapporto di conoscenza e frequentazione rende non credibile che la Argano potesse ignorare le vicende giudiziarie subite dal Sansone, già condannato e detenuto per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., e il suo ruolo ancora attuale partecipe alla famiglia mafiosa dell’Uditore, circostanze che rendevano fondatamente ipotizzabile la possibilità di sottoposizione dei suoi beni a provvedimenti ablativi. La sua condotta, di totale disinteresse per la gestione della società e dell’attività, lasciata totalmente nelle mani del COGNOME, dimostra che ella era pienamente cosciente di essere una mera prestanome, e non si era intestata le quote societarie, sia pure fittiziamente, per un interesse personale, quale il trovare un’occasione di lavoro o l’acquisire esperienza imprenditoriale, bensì per un interesse esclusivo del Sansone. La deduzione della sentenza è confermata dall’intercettazione del 18/07/2018, citata alla pag. 419 della sentenza di secondo grado e riportata per esteso dalla pag. 357 di quella di primo grado, in cui la COGNOME racconta al Sansone della lite avuta con la figlia che, scoperte le contravvenzioni da pagare per la RAGIONE_SOCIALE, l’aveva aspramente rimproverata per essersi lasciata coinvolgere nella società, dicendole, tra l’altro, “in quali cose ti metti con queste persone”. Questa frase è stata ritenuta dimostrare che la figlia della ricorrente era a conoscenza del coinvolgimento del COGNOME, avendolo la madre menzionato come colui che Corte di Cassazione – copia non ufficiale
l’aveva rassicurata al momento della sua uscita dalla società, e che era altresì consapevole della illiceità della condotta tenuta dalla ricorrente, del pericolo che ella passasse “i guai”, nonché, evidentemente, della qualità del Sansone, indicato con il termine “queste persone”, significativo dell’attribuzione al soggetto di una caratura delinquenziale. La valutazione della rilevanza di questa conversazione, espressa da entrambe le sentenze di merito, appare logica: essa dimostra, in effetti, che le due donne erano consapevoli che l’attività della RAGIONE_SOCIALE riguardava solo il Sansone, e che la ricorrente si era fatta coinvolgere da lui, noto anche alla figlia per i suoi trascorsi, senza nutrire alcun interesse personale in tale coinvolgimento ma accettando, quanto meno secondo la figlia, di correre dei pericoli mettendosi con “queste persone”. Essa conferma, pertanto, che la ricorrente ha accettato l’intestazione fittizia delle quote societarie esclusivamente per un interesse e un’esigenza del COGNOME, quella di occultare la sua effettiva titolarità su entrambe le attività.
E’ altresì logica la valutazione che l’unica ragione per tale esigenza di occultamento era quella di eludere le norme relative alle misure di prevenzione patrimoniale, perché non ne sono emerse altre, e né il Sansone né la ricorrente le hanno mai prospettate, mentre la ricorrente non ha mai fornito alcuna spiegazione alla propria condotta. La sussistenza del suo dolo specifico, pertanto, è stata motivata in modo sufficiente e logico, con una valutazione fondata sugli elementi presenti in atti e che si sottrae, perciò, alla sindacabilità del giudice di legittimità.
25. Tutti i ricorsi proposti devono, pertanto, essere rigettati, per le ragioni sopra singolarmente esposte. Il rigetto dei vari ricorsi impone la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili, liquidate come in dispositivo, nella misura richiesta quanto alla Associazione Nazionale per la lotta contro le illegalità e le mafie NOME COGNOME e alla FAI-Federazione delle associazioni antiracket e antiusura italiane, e in misura ridotta per le altre parti, alla luce del contribut concretamente fornito per la decisione.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi di COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Alessandro, COGNOME Santo, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME Tommaso, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME, NOMECOGNOME NOME e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condanna, inoltre,
GLYPH
gli imputati COGNOME Giuseppe, COGNOME
Gabriele, COGNOME NOMECOGNOME NOME, COGNOME, COGNOME
NOME, COGNOME NOME, COGNOME Tommaso, COGNOME Francesco, COGNOME
NOME alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili: “RAGIONE_SOCIALE“, che liquida
in complessivi euro 7.800,00, oltre accessori di legge; “RAGIONE_SOCIALE“, che liquida in complessivi euro 7.800,00, oltre accessori di legge; e nei confronti,
unitamente all’imputato COGNOME Giuseppe, delle parti civili: “Confesercenti provinciale di Palermo”, che liquida in complessivi euro 7.800,00, oltre accessori
di legge; “Associazione Nazionale per la lotta contro le illegalità e le mafie
NOME COGNOME“, che liquida in complessivi euro 4.738,50, oltre accessori di legge; “RAGIONE_SOCIALE“, che liquida in complessivi euro 7.800,00,
oltre accessori di legge; “FAI “Federazione delle associazioni antiracket e antiusura italiane”, che liquida in complessivi euro 4.500,00, oltre accessori di
legge; “e RAGIONE_SOCIALE che liquida in complessivi euro 7.800,00, oltre accessori di legge.
Così deciso il 21 febbraio 2025
Il Consigliere estensore