Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 44115 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 44115 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 27/09/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME COGNOME nato a SASSARI il 03/01/1975 avverso la sentenza del 14/12/2023 della CORTE APPELLO SEZ.DIST. di SASSARI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le richieste del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso; lette le richieste del difensore dell’imputato, avv. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del Tribunale di Nuoro del 16/2/2018, NOME COGNOME veniva condannato per bancarotta fraudolenta per distrazione ai danni della fallita RAGIONE_SOCIALE (che si occupava dell’estrazione e lavorazione di materiale da cava), venendo assolto dall’accusa di bancarotta fraudolenta documentale. La Corte d’Appello di Cagliari – Sezione distaccata di Sassari confermava la condanna, riducendo la pena inflitta al COGNOME da quattro anni a tre anni e sei mesi di reclusione.
Secondo le due sentenze di merito, il COGNOME:
-aveva risolto consensualmente, il 28/9/2005, il contratto di affitto di ramo di azienda (che ineriva tutti i beni strumentali all’esercizio di impresa della fallita) sottoscritto il 18/2/2005 con la RAGIONE_SOCIALE (da lui pure rappresentata), per un canone pattuito di 57.600,00 euro annui;
-aveva, di seguito, il 5/10/2005, stipulato altro contratto di affitto del medesimo compendio aziendale, col quale aveva trasferito il godimento di tutti i beni della fallita (che, di fatto, aveva così cessato la sua attività) all RAGIONE_SOCIALE, costituita pochi giorni prima (il 28/9/2005) e, dunque, sin lì inattiva e senza alcun bilancio depositato.
In particolare, per quanto evidenziato dai giudici di merito: il secondo contratto aveva una durata trentennale; era stato concluso a favore di una società (la RAGIONE_SOCIALE) riconducibile alle medesime persone fisiche titolari della fallita (la famiglia Dessena); prevedeva un canone d’affitto annuo irrisorio (di soli 4.000,00 euro, a fronte dei 57.600,00 euro previsti nel precedente contratto risolto appena una settimana prima); tale canone, peraltro, non era stato mai comunque incassato dalla medesima fallita, in quanto compensato con l’accollo del debito (d 13.000,00 euro mensili) verso la RAGIONE_SOCIALE s.p.aRAGIONE_SOCIALE, fornitrice di macchine da lavoro.
Di fatto, venivano lasciati in capo alla cedente RAGIONE_SOCIALE i rilevanti debiti nei confronti dell’Erario, dell’Inps e dell’Inail, della cui esazione si faceva carico l’unico creditore che aveva agito per il loro recupero, Equitalia s.p.a.
Il difensore del COGNOME ha proposto ricorso per Cassazione, chiedendo annullarsi la sentenza della Corte d’appello di Cagliari, per i motivi oltre sintetizzati.
2.1. Col primo motivo contesta la “nullità della sentenza per mancanza, contraddittorietà, illogicità ed omissione della motivazione”.
La censura si basa su un assunto errore fattuale riguardo al periodo durante il quale COGNOME era stato amministratore della RAGIONE_SOCIALE, ovvero solo dal febbraio 2005 al novembre 2005, e non per un “buon periodo di tempo”, pari a circa 2 anni, come indicato nella sentenza impugnata. Questa imprecisione aveva (secondo parte ricorrente) influenzato la valutazione della sua responsabilità e la conseguente condanna, frutto di un errore materiale.
2.2. Col secondo motivo, parte ricorrente lamenta la nullità della sentenza per mancanza, contraddittorietà, illogicità e carenza di motivazione.
Il Collegio giudicante d’appello avrebbe basato la sua decisione sulla relazione ex art. 33 della Legge Fallimentare, ritenuta esaustiva e priva di criticità, nonostante in essa non fosse stato specificato di quali beni vi fosse stata l’effettiva distrazione ovvero quali fossero stati quelli oggetto dei contratti di cessione di
ramo d’azienda predetti e se essi coincidessero tra loro: ciò che rendeva la loro comparazione problematica.
Inoltre, si sarebbe trascurato, in sede d’appello, che il nuovo contratto con la RAGIONE_SOCIALE, considerato peggiorativo rispetto al pregresso, non teneva conto dell’assunzione del debito per le rate dovute alla RAGIONE_SOCIALE s.p.a. per il noleggio dei macchinari.
Ancora, il curatore si assume avesse erroneamente descritto la RAGIONE_SOCIALE come inattiva, mentre risultava dai documenti allegati che essa fosse operativa ed avesse assunto personale.
Insomma, secondo parte ricorrente il contratto di affitto con la RAGIONE_SOCIALE era un normale accordo commerciale e non costituiva manovra fraudolenta: sicché la sentenza era frutto di elementi non oggettivamente accertati.
2.3. Col terzo motivo parte ricorrente lamenta la nullità della sentenza per mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione.
Si assume che il dissesto finanziario della RAGIONE_SOCIALE fosse insorto prima della nomina di NOME COGNOME come amministratore, sicché questi non avrebbe dovuto rispondere di fattori precedenti e successivi alla sua amministrazione.
Era documentato, secondo parte ricorrente, che il fallimento non fosse dovuto esclusivamente al contratto di affitto di ramo d’azienda, ma anche ad altre cause come la rinuncia alla concessione della cava e il subentro di un’altra società.
La Corte d’appello, inoltre, aveva ignorato il fatto che la RAGIONE_SOCIALE, dopo le dimissioni del COGNOME, non aveva sollevato contestazioni nei suoi confronti e che la RAGIONE_SOCIALE, proprietaria dei mezzi in leasing, non s’era insinuata nel fallimento tra i creditori (ciò da cui si desumeva che eventuali debiti fossero stati saldati).
2.4. Col quarto motivo, parte ricorrente si duole ancora della nullità della sentenza per mancanza, contraddittorietà ed illogicità della motivazione e per la violazione dell’art. 14 d.lgs. 472/1997.
Si dice che l’unico creditore della RAGIONE_SOCIALE, l’RAGIONE_SOCIALE avesse garanzie specifiche, atteso che, secondo il detto art. 14 il cessionario era responsabile in solido per i debiti risultanti all’atto della cessione e se vi fosse stata frode. Dunque, il contratto di cessione di ramo d’azienda non avrebbe potuto, per tale ragione, creare pregiudizio per Equitalia, che avrebbe potuto agire sui beni aziendali senza alcun problema.
2.5. Col quinto motivo lamenta parte ricorrente l’omessa pronuncia sulla c.d. “bancarotta riparativa” (invocata nei motivi aggiunti d’appello), nonché il travisamento della prova.
Il contratto di cessione di ramo d’azienda tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE, oggetto dell’accusa, era stato successivamente neutralizzato da un provvedimento del Tribunale di Nuoro che aveva restituito i beni alla RAGIONE_SOCIALE, ripristinando lo status quo ante e, quindi, neutralizzando gli effetti negativi dell’operazione. Dunque, il sequestro giudiziario dei beni, del 9/12/2005, e la successiva sentenza del Tribunale di Nuoro avevano preservato l’integrità patrimoniale della RAGIONE_SOCIALE e il diritto di credito della società fallita, senza alcun effettivo depauperamento del patrimonio aziendale, essendo i beni stati restituiti alla società poi fallita e rimasti a disposizione dei creditori.
La Corte d’appello aveva ignorato questa argomentazione, travisando la prova, non considerando l’efficacia retroattiva della sentenza del Tribunale di Nuoro, che avrebbe (per parte ricorrente) eliminato la rilevanza penale della condotta di COGNOME.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
L’errore addotto (secondo cui la Corte d’appello non avrebbe considerato che il COGNOME era stato amministratore della fallita solo dal febbraio 2005 al novembre 2005) non scalfisce la ratio decidendi sottesa alla condanna, ovvero:
il COGNOME è intervenuto alla stipulazione dell’accordo di risoluzione del contratto di affitto di ramo d’azienda con la RAGIONE_SOCIALE, per poi stipulare, il 5/10/2005, un nuovo contratto di affitto di ramo d’azienda con la RAGIONE_SOCIALE che, pur avendo ad oggetto i medesimi beni del precedente (tutti i beni strumentali della RAGIONE_SOCIALE, che aveva di fatto cessato la sua attività), prevedeva un canone assolutamente incongruo e irrisorio (4.000,00 euro annui), come si ricavava sia dal ben maggiore canone previsto dal contratto precedente (57.600,00 euro sempre all’anno), sia dall’importo delle rate ancora da pagare al fornitore SCAI s.p.a. (13.000,00 euro mensili), rimaste a carico della fallita (tranne la quota compensata di cui appresso);
l’operazione aveva privato, in mancanza di un corrispettivo adeguato, la RAGIONE_SOCIALE di tutti i suoi beni, sottraendoli ai creditori pubblici e ponendoli a disposizione di un’altra società, sempre riconducibile alla famiglia Dessena, con il contributo determinante del COGNOME, che era intervenuto nella risoluzione de 28/9/2005 in rappresentanza di entrambe le società contraenti ed era, nel contempo, amministratore anche di tutte e due le società parti del nuovo contratto di affitto del 5/10/2005;
il COGNOME aveva dichiarato di non aver nulla a pretendere dalla RAGIONE_SOCIALE
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la quale era invece in debito per canoni d’affitto pari all’incirca ad C. 33.600,00.
A fronte di tale ratio decidendi, con cui parte ricorrente neppure si confronta (posto che l’omessa considerazione di alcuni dei decisivi argomenti su cui si basa il provvedimento impugnato comporta, di per sé, l’inammissibilità del ricorso, restando essi insuperabili, se non esprimendo un giudizio di merito qui precluso: Sez. 4, n. 19364 del 14/03/2024, Rv. 286468-01; Sez. 3, n. 3953 del 26/10/2021, dep. 2022, Rv. 282949-01; Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Rv. 259425-01), poco rileva che il COGNOME, poco dopo i fatti in questione, si sia dimesso: avendo comunque, ed evidentemente, secondo la logica conclusione dei giudici di merito, dato contributo determinante al depauperamento dell’azienda poi fallita.
Il secondo motivo di ricorso è inammissibile, omettendo, ancora una volta, di confrontarsi con le motivazioni della sentenza d’appello.
Quanto ai beni, è certo (secondo la Corte d’appello) che, pur non essendo gli stessi specificamente elencati nel contratto del 5/10/2005, dal tenore di quest’ultimo e di quello risolto una settimana prima, nonché dagli elementi di seguito evidenziati, si trattasse degli stessi beni e diritti, ovvero del diritto d sfruttamento di una cava e dei beni ivi collocati (una palazzina uso ufficio e vari macchinari di rilevante valore). In particolare, nella sentenza si evidenzia che:
-nel contratto del 5/10/2005 fosse stato fatto riferimento ai “beni materiali ammortizzabili” di cui al registro dei beni ammortizzabili (dunque assolutamente individuabili);
dopo tale contratto, la fallita sia rimasta definitivamente inattiva;
-dalla deposizione del teste COGNOME emergeva che oggetto di cessione fossero stati, per l’appunto, una cava molto grande e costosi macchinari per la lavorazione del marmo, acquisiti tra il 1999 ed il 2001 dalla società fallita per importi rilevanti (di quasi due milioni di euro), sicché del tutto incongruo era stato (sempre secondo il detto teste) il loro affitto ad appena 4.000,00 euro annui;
lo stesso compendio aziendale era stato affittato, pochi mesi prima, ad un canone ben diverso (di 57.600,00 euro);
il menzionato canone di 4.000,00 euro di cui al contratto oggetto di contestazione, peraltro di durata trentennale, non copriva neppure gli esborsi dovuti alla fornitrice dei macchinari, pari ad euro 13.000,00 mensili;
-la costituzione della società cessionaria era avvenuta appena una settimana prima della stipula del contratto de quo;
la società cessionaria era riconducibile alla famiglia RAGIONE_SOCIALE, che era titolare pure della società poi fallita, nonché della RAGIONE_SOCIALE, a cui, da ultimo, i menzionati beni erano stati nuovamente ceduti in godimento.
Parte ricorrente non si confronta minimamente con i dati predetti, che hanno portato la Corte d’appello, in modo del tutto logico, a concludere affermando la natura fraudolenta dell’operazione e che la stessa cessionaria del contratto del 05/10/2005 (RAGIONE_SOCIALE fosse stata costituita ad hoc, proprio in vista della cessione di cui si tratta: destinando nuovamente all’inammissibilità il motivo di ricorso in esame.
L’ulteriore dato allegato da parte ricorrente (circa la sussistenza di personale al servizio della cessionaria) non si vede in che modo modificherebbe la conclusione (del giudice d’appello) circa la natura fraudolenta dell’operazione, basata sui rilevantissimi elementi anzidetti (in sintesi: canone irrisorio, cessione del solo debito con la società di leasing dei macchinari, durata trentennale della cessione, trasferimento finale del possesso dei medesimi beni alla RAGIONE_SOCIALE, anch’essa riconducibile alla famiglia COGNOME).
Insomma, non viene in alcun modo scalfita la decisione impugnata laddove rimarca che, più che il logico (essendo passati in godimento della cessionaria pure i relativi beni) accollo del debito per canoni di godimento dei macchinari verso la società di leasing, RAGIONE_SOCIALEp.aRAGIONE_SOCIALE (che dunque compensava semplicemente il detto ceduto godimento e non poteva certo considerarsi un “compenso” per la cedente), destava stupore il fatto che nessun beneficio risultasse, a favore della stessa cedente, in virtù del menzionato contratto del 5/10/2005: atteso che neppure l’esiguo canone pattuito (in quanto compensato col debito verso RAGIONE_SOCIALE s.p.a.) era di fatto pervenuto alla società poi fallita e che, d’altro canto, nessun altro debito era stato trasferito alla cessionaria (la quale, come chiaramente evidenziato dalla sentenza impugnata, si ritrovava a gestire, addirittura potenzialmente per 30 anni, l’intero patrimonio aziendale della RAGIONE_SOCIALE, patrimonio sostanzialmente “liberato” dai gravosi debiti rimasti a carico della cedente verso Equitalia s.p.a.).
In tale contesto, è logico che l’unico debito che avrebbe potuto comportare la restituzione (per inadempimento), alla società di leasing, dei beni strumentali all’esercizio d’impresa sia stato trasferito alla cessionaria: essendo l’unico modo per garantire che tale godimento potesse continuare, nel tempo, a favore della medesima cessionaria (mediante il pagamento dei relativi canoni). Molto meno chiaro e logico, per contro, è comprendere da detta operazione quale vantaggio abbia ricavato la cedente.
È lo stesso ricorrente ad evidenziare, sin dall’appello, che proprio in virtù di tale accordo, la RAGIONE_SOCIALE s.p.a. non aveva “effettuato alcuna contestazione in merito,
tant’è che non è risultata tra i creditori insinuatisi nel fallimento della RAGIONE_SOCIALE, anzi ha continuato a collaborare negli anni successivi al 2005 con la predetta società lasciandole i mezzi meccanici a disposizione nel sito produttivo in Orosei”: evidente essendo, in caso opposto, che sarebbe venuto meno il vantaggioso contratto stipulato dalla cessionaria.
Il terzo motivo (con cui si evidenzia l’estraneità del COGNOME al dissesto, tanto che nessuna censura era stata formulata sul suo operato) è infondato.
Al riguardo è appena il caso di richiamare il noto insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui: «Ai fini della sussistenza del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non è necessaria l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di distrazione ed il successivo fallimento, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività. (In motivazione, la Corte ha precisato che i fatti di distrazione, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, assumono rilievo in qualsiasi momento siano stati commessi e, quindi, anche se la condotta si è realizzata quando ancora l’impresa non versava in condizioni di insolvenza)» (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Rv. 266804-01).
Per quanto chiarito in modo lineare, completo e condivisibile dalla corte d’appello, è evidente che l’operazione contestata al COGNOME abbia comportato un rilevantissimo depauperamento per l’impresa poi fallita, privata dei suoi beni fruttiferi a fronte di un canone irrisorio e per giunta compensato in parte con la maggior somma dovuta alla società di leasing, cui si doveva la locazione dei costosi macchinari il cui godimento era stato ceduto col contratto sopra menzionato del 5/10/2005.
Anche il quarto motivo (con cui si evidenzia che Equitalia avrebbe potuto ben rifarsi sui beni oggetto della cessione) è inammissibile, ancora una volta omettendo di confrontarsi con la motivazione sottesa alla sentenza d’appello.
Come già evidenziato trattando i precedenti motivi, la fraudolenza non poteva consistere nella cessione della proprietà di beni che non erano ancora intestati alla fallita, bensì nella perdita del loro godimento (e, più in generale, del godimento dell’intero complesso aziendale, ivi inclusa la possibilità di sfruttare la cava) a fronte di un canone da un lato assolutamente incongruo, dall’altro neppure realmente mai incassato. E sulle possibilità di recupero di tale rilevantissima perdita nulla dice parte ricorrente, destinando nuovamente all’inammissibilità la doglianza di cui si tratta.
Per le stesse ragioni, inammissibile è anche la doglianza relativa all’omessa considerazione, da parte della Corte d’appello, di un evento (il recupero del godimento dei beni da parte della fallita) che integrerebbe, a dire di parte ricorrente, “bancarotta riparativa”.
A prescindere da ogni considerazione giuridica al riguardo, è sufficiente ribadire qui come a parte ricorrente non colga, evidentemente, la ratio della decisione presa dalla Corte d’appello, la quale ineriva più esattamente non solo (e non tanto) la cessione del ramo di azienda, quanto la sua controprestazione: che, si ripete, con valutazione rimasta non adeguatamente censurata in questa sede (e del tutto logica e condivisibile), è stata ritenuta depauperativa ai danni della società fallita, sia per l’importo esiguo, sia per non essere mai stata di fatto incassata. A fronte di tanto non si vede (né parte ricorrente lo spiega) come l’addotta retroattività della pronuncia giudiziale invocata con il motivo in esame potesse porre rimedio a tale pregiudizio.
Tanto, oltre che logico, è affermato costantemente da questa Corte: «Costituisce condotta idonea ad integrare un fatto distrattivo riconducibile all’area d’operatività dell’art. 216, comma primo, n. 1, legge fall., l’affitto dei beni aziendali per un canone incongruo e mai riscosso che comporti la sostanziale privazione, per la società fallita, dei suoi beni strumentali» (Sez. 5, n. 12456 del 28/11/2019, dep. 2020, Rv. 279044-01; confronta, negli stessi termini: Sez. 5, Sentenza n. 19973 del 11/04/2024, Rv. 286491-01; Sez. 5, n. 16748 del 13/02/2018, Rv. 272841-01).
È evidente, pertanto, che per l’integrale reintegrazione del patrimonio dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento, tale da non mettere in pericolo la garanzia dei creditori (Sez. 5, n. 14932 del 28/02/2023, Rv. 284383; Sez. 5, n. 13382 del 03/11/2020, dep. 2021, Rv. 281031; Sez. 5, n. 50289 del 07/07/2015, Rv. 265903; Sez. 5, n. 26115 del 07/03/2024, non massinnata; Sez.5, n.34290 del 02/10/2020, non massimata), sarebbe stato necessario il tempestivo recupero del valore dei canoni di locazione perduti, e che avrebbero potuto essere incassati sulla base di un contratto rispondente a normali logiche di mercato: ciò su cui, si ripete, parte ricorrente non si confronta minimamente.
Nella specie, infatti, non risulta neppure addotto, da detta parte, che il notevole pregiudizio (la perdita del godimento dei beni priva di adeguato compenso: nessun canone avendo incassato la fallita all’uopo) sia venuto, in qualche modo, meno: non essendo sufficiente, per quanto detto, la mera restituzione dei beni alla medesima fallita o la (ipotetica) rivalsa verso la cessionaria, della cui idoneità ad elidere il danno anzidetto nulla è stato addotto, men che meno che ciò sia avvenuto prima del fallimento.
Consegue, a quanto detto, l’esito in dispositivo, e la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in data 27/9/2024
Consigliere estensore
Il Preside e