Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 20729 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 20729 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/03/2024
SENTENZA
sui ricorsi proposti da NOME NOME nato a Mantova il DATA_NASCITA; COGNOME NOME nata a Treviso il DATA_NASCITA;
avverso la sentenza del 12 maggio 2023 della Corte d’appello di Brescia;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi; letta la memoria depositata il 14 marzo 2024 dall’AVV_NOTAIO, nell’interesse di NOME COGNOME, che ha insistito per l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Oggetto dell’impugnazione è la sentenza con la quale la Corte di appello di Brescia, confermando la condanna pronunciata in primo grado (riformata solo in termini di trattamento sanzionatorio), ha ritenuto NOME COGNOME e NOME COGNOME responsabili del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, per avere la COGNOME, quale amministratore unico della RAGIONE_SOCIALE (dichiarata fallita il 21 agosto 2012),
NOME COGNOME, quale amministratore unico della RAGIONE_SOCIALE, stipulato un contratto di affitto dell’azienda appartenente alla società poi fallita, per u canone esiguo e mai corrisposto.
Avverso tale sentenza ricorrono per cassazione entrambi gli importanti.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME si compone di cinque motivi di impugnazione.
2.1. Il primo è formulato in termini di violazione di legge e connesso vizio di motivazione e attiene alla valutazione di congruità del canone di affitto che, anche da quanto emergerebbe dai rilievi del consulente della difesa, geom. COGNOME, era pienamente adeguato al valore dell’azienda ceduta, in quanto era stato quantificato alla luce dello stato di decozione in cui versava la società concedente (poi fallita) e sulla circostanza che era in corso un procedimento per la revoca della Soa (disposta dopo circa un mese dalla stipula del contratto). E tanto avrebbe impedito la prosecuzione dei contratti pur indicati nell’atto notarile di affitto di azienda.
2.2. Il secondo motivo lamenta la contraddittorietà e l’illogicità della motivazione resa dalla Corte di appello che, da un lato, avrebbe preso atto dello stato di insolvenza della cedente al momento della stipulazione del contratto e, dall’altro, avrebbe omesso di ricavare da questo dato la logica conseguenza che l’azienda doveva, per ciò stesso, considerarsi priva di qualsiasi valore. Le uniche attività consistevano nelle attrezzature (stimate dal consulente della difesa in circa 10.000 euro), ampiamente remunerato dall’accollo del TFR da parte della cessionaria.
2.3. Il terzo motivo deduce, sotto i profili della violazione di legge e del connesso vizio di motivazione, che dalla stipula del contratto di affitto non sarebbe scaturito alcun danno per i creditori: alla vendita delle attrezzature sarebbe, infatti, corrisposta la riduzione del debito verso i dipendenti per un importo di oltre 40.000 euro e i contratti di appalto (pur oggetto della cessione) non si sarebbero più potuti eseguire (in mancanza della Soa).
2.4. Il quarto motivo lamenta l’illogicità della motivazione resa dalla Corte di appello, essendosi la stessa, con riferimento all’accollo del Tfr, limitata a affermare che tale debito diviene esigibile solo al termine del rapporto di lavoro, trascurando però che alcuni dipendenti transitati presso la RAGIONE_SOCIALE hanno ottenuto, a seguito del licenziamento, il trattamento di fine rapporto.
2.5. Il quinto, in ultimo, attiene al trattamento sanzionatorio e censura il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e dell’attenuante di cui all’art. 219 della legge fallimentare.
Il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME è affidato ad un unico motivo d’impugnazione, con il quale si lamenta, sotto il profilo del vizio di motivazione, il riscontro dell’elemento psicologico del dolo, insistendo sulla totale inconsapevolezza dell’imputata circa le vicende patrimoniali della società e sull’assenza di volontà riguardo al compimento dell’atto distrattivo.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto nell’interesse del NOME è infondato.
Deve anzitutto premettersi che le due pronunce conformi di merito, rinsaldate, nel loro impianto motivazionale, dalla coincidenza degli approdi decisori e dalla ricostruzione univoca della piattaforma probatoria, hanno accertato che la condotta di bancarotta fraudolenta patrimoniale è consistita principalmente nella distrazione dell’intero compendio aziendale della società attraverso la stipula di un contratto d’affitto di ramo d’azienda con la società RAGIONE_SOCIALE, amministrata dal COGNOME, per il canone annuo di euro 6.000, mai riscosso, avente per oggetto attrezzature, impianti, arredi e suppellettili (il cu valore veniva indicato in euro 42.584,20), nonché le attestazioni RAGIONE_SOCIALE e Qualità, cinque contratti di appalto e quattro rapporti di lavoro subordinato. Contestualmente all’affitto, veniva pattuita anche la cessione delle attrezzature, degli impianti, degli arredi e delle suppellettili, il cui corrispettivo ve compensato con l’equivalente ammontare del TFR dei quattro lavoratori (in relazione ai quali la cessionaria subentrava nel relativo contratto di lavoro).
Ciò premesso, va ribadito, in linea di principio, che il distacco del bene dal patrimonio dell’imprenditore poi fallito (cori conseguente depauperamento in danno dei creditori), in cui si concretizza l’elemento oggettivo del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, può realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo incidenza su di esso la natura dell’atto negoziale con cui tale distacco si compie, né la possibilità di recupero del bene attraverso l’esperimento delle azioni apprestate a favore della curatela. Ne consegue che costituisce condotta idonea ad integrare un fatto distrattivo riconducibile all’area d’operatività dell’art. 216, comma primo, n. 1, legge fall., anche l’affitto dei ben aziendali per un canone incongruo (Sez. 5, n. 44891 del 9/10/2008, Quattrocchi, Rv. 241830).
Ciò considerato, i primi due motivi sono integralmente versati in fatto, in quanto chiaramente rivolti ad ottenere dal Collegio una diversa ricostruzione della piattaforma probatoria (quanto al valore dei beni oggetto d’affitto e alla valutazione complessiva del valore del compendio aziendale), preclusa alla Corte di cassazione, in quanto, appunto, diretta a sindacare i profili ricostruttivi dell prova e della versione dei fatti articolata dai giudici di merito, in assenza di vi di manifesta illogicità della motivazione ovvero di profili di travisamento (cfr. ex
multis Sez. 6, n. 27429 del 4/7/2006, COGNOME, Rv. 234559; Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, COGNOME, Rv. 265482 vedi anche Sez. U, n. 47289 del 24/9/2003, COGNOME, Rv. 226074; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794).
Esula, infatti, dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/4/1997, COGNOME, P.v. 207944; Sez. 5, n. 39048 del 25,/9/2007, COGNOME, Rv. 238215; Sez. 2, n. 7380 del 11/1/2007, Messina, Rv. 235716; Sez. 6, n. 25255 del 14/2/2012, Minervini, Rv. 253099; Sez. 6, n. 13809 del 17/3/2015, 0., Rv. 262965).
D’altronde, le censure sono dirette a sindacare la valenza del singolo elemento probatorio, isolandolo dal complesso argomentativo all’interno del quale è inserito. Laddove ogni singolo fatto deve essere valutato non in modo parcellizzato, ma nella sua unitaria sistemazione, all’interno del AVV_NOTAIO contesto probatorio dove ciascuno dato deve essere posto in vicendevole rapporto con tutti gli altri. Perché solo alla luce di una costruzione logica, armonica e consonante del complessivo compendio argomentativo sarà possibile attingere all’effettivo significato di ciascun singolo elemento e ricostruire l’effettiva verità processuale (Sez. 2, n.33578 del 20/05/2010, Rv. 248128).
Ciononostante, nell’analizzare partitamente le singole censure prospettate dalla difesa, è sufficiente osservare:
con riferimento alle censure sollevate con i primi due motivi, che: a) l’asserito stato di decozione in cui versava la società (poi fallita) non incide sul valore (oggettivo, in termini di liquidazione) del complesso aziendale, in quanto attiene al differente profilo della capacità dell’impresa di adempiere regolarmente i propri debiti (primo motivo); b) alcune delle commesse che la RAGIONE_SOCIALE aveva in corso (oggetto del contratto di affitto) proseguirono regolarmente con la RAGIONE_SOCIALE;
con riferimento al terzo motivo di censura, che il reato di bancarotta fraudolenta per distrazione è un reato di pericolo e non è, dunque, necessario, per la sua sussistenza, la prova che la condotta abbia causato un effettivo pregiudizio ai creditori, il quale rileva esclusivamente ai fini della eventuale configurabilità dell’aggravante prevista dall’art. 219 I. fall. (Sez. 5, n. 3229 d 14/12/2012 Rv. 253933; Sez. 5, n. 11633 del 08/02/2012 Rv. 252307);
con riferimento alla questione sollevata con il quarto, che l’accollo del TFR è effetto naturale del contratto stipulato, alla luce della solidarietà (tra cedente cessionario) prevista dall’art. 2112 del codice civile e l’asserito pagamento del Trf
ad opera della cessionaria è circostanza rimasta allo stato di mera allegazione alla luce della genericità dell’indicazione delle relative fonti di prova.
Quanto, in ultimo, al trattamento sanzionatorio, è sufficiente ribadire come la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che’ nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, dep. 2014, Rv. 259142).
E sotto tale profilo, deve ritenersi adempiuto l’obbligo di motivazione del giudice di merito sulla determinazione in concreto della misura della pena allorché siano indicati nella sentenza gli elementi ritenuti rilevanti o determinanti nell’ambito della complessiva dichiarata applicazione di tutti i criteri di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 6, n. 9120 del 02/07/1998, Rv. 211582; Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013, dep. 2014, Rv. 258410). Un onere motivazionale che si attenua quanto più la determinazione sia prossima al minimo edittale, rimanendo, in ultimo, sufficiente il semplice richiamo al criterio di adeguatezza, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen. (Sez. 2, n. 28852 del 08/05/2013, Rv. 256464).
Ebbene, da un canto, la pena irrogata (anni tre e mesi sei di reclusione) è ampiamente inferiore alla media edittale; dall’altro, sono chiaramente indicati i criteri logici e fattuali utilizzati ai fini della determinazione del trattam sanzionatorio (i precedenti penali e la gravità delle condotte). E tanto, alla luce di quanto osservato, è ampiamente sufficiente a ritenere adempiuto il relativo onere motivazione.
Ugualmente infondato è il ricorso proposto nell’interesse di NOME COGNOME.
Per comprendere compiutamente il ruolo svolto dall’imputata, va ricostruito il complessivo contesto economico all’interno del quale si deve inserire la condotta oggetto dell’imputazione e il ruolo svolto dalla ricorrente.
La società RAGIONE_SOCIALE, costituita il DATA_NASCITA, aveva quale oggetto sociale la verniciatura di manufatti in ferro, il trattamento antiossidazione e antiruggine dei metalli, la tinteggiatura, costruzione, ristrutturazione, restauro, riparazione manutenzione dei fabbricati ed opere edili, civili, industriali e commerciali.
Fin dalla sua costituzione, NOME COGNOME era stata nominata amministratrice unica, mentre il fratello NOME, titolare del 50% delle quote sociali (dal 2004 al 3 maggio 2011), lavorava alle dipendenze della società con le mansioni di Direttore Tecnico.
H 3 maggio 2011, NOME COGNOME cedeva tutte le sue quote sociali alla sorella e, nello stesso giorno, costituiva la RAGIONE_SOCIALE (della quale rivestiva
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carica di amministratore e socio unico) con oggetto sociale analogo a quello della RAGIONE_SOCIALE e medesima sede legale.
Il 15 settembre 2011, le quote venivano integralmente trasferite a NOME COGNOME, che assumeva anche la carica di amministratrice unica e, pochi giorni dopo, il 19 settembre 2011, veniva stipulato tra la RAGIONE_SOCIALE, amministrata dalla COGNOME, e la RAGIONE_SOCIALE, amministrata da NOME COGNOME, un contratto denominato “affitto di ramo d’azienda” avente per oggetto la concessione in affitto, per la durata di sei anni, del ramo d’azienda della società RAGIONE_SOCIALE, costituito, con esclusione di debiti e crediti, dalle autorizzazioni SOA e QUALITÀ, da cinque contratti di appalto, quattro rapporti di lavoro, nonché attrezzature, impianti, arredi e suppellettili per un valore complessivo di C 42.584.20.
Con tale regolamentazione contrattuale, la RAGIONE_SOCIALE si impegnava a versare il canone annuo di affitto di euro 6.000 alla RAGIONE_SOCIALE e, contestualmente, quest’ultima cedeva attrezzature, impiantì, arredi e suppellettili, il cui valor veniva compensato con l’accollo, da parte dell’affittuaria, del TFR dei lavoratori dipendenti ceduti, di pari ammontare.
Stipulato il contratto di affitto, il 28 ottobre 2011, NOME COGNOME dismetteva la carica sociale a favore di NOME, amministratore unico sino al 21.8.2012, data nella quale la società RAGIONE_SOCIALE veniva dichiarata.
Il curatore fallimentare riferiva di non aver potuto ricostruire il volume d’affari e la situazione finanziaria della società fallita; l’ultimo bilancio deposit dalla società era datato 31 dicembre 2010 e si chiudeva con una perdita di euro 757.000,00; il canone annuo di euro 6.000,00, pattuito al momento dell’affitto, non era mai stato pagato dalla RAGIONE_SOCIALE.
Ciò premesso, è pur vero che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall’amministratore di fatto (cosic:ché, nei confront dell’amministratore apparente, non può trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell’imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, i assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittima la presunzione della dolosa sottrazione: Sez. 5, n. 54490 del 26/09/2018, Rv. 274166), ma la Corte territoriale ha dato atto che la COGNOME, che era amministratore di diritto e pure socia unica della società, ha assunto le funzioni amministrative per poco più di un mese, proprio in coincidenza della stipula, a suo nome, del contratto di affitto di ramo d’azienda in questione. E proprio la finalizzazione dell’assunzione delle funzioni gestorie alla stipulazione dell’atto depauperativo (avvenuto appena qualche giorno dopo l’assunzione della carica) denota la consapevole partecipazione della COGNOME alle operazioni distrattive realizzate con tale atto.
Da ciò l’infondatezza del ricorso.
In conclusione, i ricorsi devono essere rigettati e i ricorrenti vanno condannati, in solido, al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 28 marzo 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente