Bancarotta documentale semplice: l’obbligo contabile non cessa con l’attività
La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha fornito importanti chiarimenti sui confini del reato di bancarotta documentale semplice, confermando la condanna di un amministratore per la mancata tenuta delle scritture contabili. La decisione sottolinea come gli obblighi contabili non vengano meno neanche con la cessazione di fatto dell’attività aziendale, ribadendo la specificità della normativa fallimentare rispetto a quella civilistica.
I Fatti del Caso
Il caso trae origine dalla condanna di un amministratore di società da parte della Corte d’Appello. Inizialmente accusato di bancarotta fraudolenta documentale, il reato era stato riqualificato in bancarotta documentale semplice ai sensi dell’art. 217, comma 2, della legge fallimentare. La condotta contestata consisteva nell’aver omesso di tenere la contabilità sociale nel triennio precedente alla dichiarazione di fallimento, avvenuta nel 2021.
L’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, basandolo su tre motivi principali: l’errata applicazione della legge penale, il mancato riconoscimento della particolare tenuità del fatto e l’erronea applicazione delle pene accessorie.
L’Analisi della Corte sulla bancarotta documentale semplice
La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, giudicando tutti i motivi manifestamente infondati. Esaminiamo nel dettaglio le argomentazioni della Corte.
Primo Motivo: L’irrilevanza delle norme civilistiche
Il ricorrente sosteneva che l’obbligo di conservazione decennale delle scritture contabili, previsto dall’art. 2220 del codice civile, rendesse irrilevante la sua omissione. La Cassazione ha respinto questa tesi, chiarendo che la norma penale fallimentare è autonoma. Il reato di bancarotta documentale semplice si configura per la mancata tenuta della contabilità nel triennio antecedente al fallimento, un obbligo specifico che grava sull’amministratore. La Corte ha inoltre precisato che la cessazione di fatto dell’attività non esonera l’amministratore da tali doveri.
Secondo Motivo: L’elemento soggettivo e la tenuità del fatto
La difesa aveva lamentato il mancato riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto e l’assenza dell’elemento soggettivo del reato. Anche su questo punto, la Corte è stata netta. Le censure sulla tenuità del fatto sono state considerate mere critiche di merito, non ammissibili in sede di legittimità. Riguardo all’elemento soggettivo, i giudici hanno ricordato che la bancarotta documentale semplice è un reato che può essere commesso anche per semplice colpa (negligenza), rendendo irrilevante la dimostrazione di un’intenzione fraudolenta.
Terzo Motivo: La correttezza delle pene accessorie
Infine, il ricorrente contestava le pene accessorie applicate. La Corte ha ritenuto il motivo palesemente infondato, evidenziando che le sanzioni irrogate dalla Corte d’Appello erano quelle specificamente previste per il reato di cui all’art. 217 della legge fallimentare, correttamente riqualificato, e non quelle, più severe, previste per la bancarotta fraudolenta (art. 216 l.fall.).
Le Motivazioni
La motivazione centrale dell’ordinanza risiede nel principio di autonomia e specificità della legge penale fallimentare. La Corte di Cassazione ha inteso ribadire che la tutela degli interessi dei creditori nel contesto di una crisi d’impresa impone agli amministratori doveri di trasparenza e corretta tenuta contabile che non ammettono deroghe o interpretazioni estensive basate su altre normative, come quelle civilistiche. La ratio della norma è garantire che, in caso di fallimento, sia sempre possibile ricostruire il patrimonio e i movimenti economici della società per tutelare la massa dei creditori. La sufficienza della colpa come elemento soggettivo per la configurabilità del reato rafforza ulteriormente questo presidio di legalità, ponendo a carico dell’amministratore un preciso dovere di diligenza nella gestione contabile.
Le Conclusioni
La decisione in commento rappresenta un monito per tutti gli amministratori di società. L’obbligo di tenere regolarmente le scritture contabili è perentorio e non si estingue con la semplice interruzione delle operazioni commerciali. La Corte conferma un orientamento rigoroso, secondo cui la negligenza nella gestione contabile nel periodo critico che precede il fallimento è sufficiente per integrare il reato di bancarotta documentale semplice. Di conseguenza, l’amministratore deve assicurare la corretta tenuta e conservazione dei documenti contabili fino alla conclusione formale della vita della società, consapevole che un’omissione colposa può avere rilevanti conseguenze penali.
L’obbligo di tenere le scritture contabili cessa se l’attività dell’azienda si interrompe?
No, la Corte di Cassazione ha stabilito che la mera cessazione di fatto dell’attività non fa venir meno gli obblighi contabili che gravano sull’amministratore, specialmente nel triennio antecedente alla dichiarazione di fallimento.
Per essere condannati per bancarotta documentale semplice è necessario aver agito con dolo (intenzionalmente)?
No, la Suprema Corte ha chiarito che il reato di bancarotta documentale semplice può essere commesso anche solo per colpa (ad esempio, per negligenza), non richiedendo necessariamente l’intenzione di recare pregiudizio ai creditori.
Le norme del codice civile sulla conservazione decennale dei documenti contabili possono giustificare l’omessa tenuta della contabilità nel triennio prima del fallimento?
No, secondo la Corte, la norma del codice civile (art. 2220 c.c.) è irrilevante ai fini della configurazione del reato. La legge fallimentare (art. 217) sanziona specificamente l’omessa tenuta della contabilità nel triennio antecedente al fallimento, indipendentemente dalla durata dell’obbligo di conservazione previsto in ambito civilistico.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 12821 Anno 2025
Penale Ord. Sez. 7 Num. 12821 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 12/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a PIANELLA il 28/11/1946
avverso la sentenza del 15/05/2024 della CORTE APPELLO di L’AQUILA
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Rilevato che COGNOME Enzo ricorre avverso la sentenza con la quale la Corte d’appello di L’Aquila, in riforma della pronunzia di primo grado, lo ha condannato per il reato di bancarotta documentale semplice, così riqualificato il fatto originariamente contestato sotto il titolo della bancarotta fraudolenta documentale.
Rilevato che il primo motivo di ricorso è generico e manifestamente infondato, posto che la Corte territoriale, una volta riqualificato il fatto in contestazione ai sensi dell’art. 217 comma 2 legge fall., ha correttamente attribuito rilievo alla omessa tenuta della contabilità nel triennio antecedente al fallimento, avvenuto nel 2021. Conseguentemente si rivela comunque irrilevante il disposto dell’invocato art. 2220 c.c. relativo alla durata dell’obbligo di conservazione delle scritture contabili, attesa la datazione della condotta per cui è intervenuta condanna e la sua indifferenza rispetto alla norma menzionata in ragione della sua natura, fermo restando che la mera cessazione di fatto dell’attività non fa venir meno gli obblighi contabili gravanti sull’amministratore della società.
Rilevato che quelle proposte con il secondo motivo di ricorso in merito al denegato riconoscimento della particolare tenuità del fatto si rivelano mere censure in fatto, mentre manifestamente infondata è l’ulteriore obiezione relativa al difetto dell’elemento soggettivo incidentalmente sollevata con il medesimo motivo, atteso che quello ritenuto è reato che può essere commesso anche solo con colpa, ferma restando l’inconfigurabilità del solo genericamente evocato errore su legge extrapenale in cui sarebbe incorso l’imputato.
Ritenuta fa manifesta infondatezza del terzo motivo di ricorso, le cui doglianze si fondano sulle vicende che hanno interessato il disposto dell’ultimo comma dell’art. 216 legge fai!., mentre le pene accessorie applicate dalla Corte territoriale sono quelle previste dal corrispondente comma dell’art. 217 della medesima legge, la cui formulazione è peraltro diversa da quello precedentemente citato.
Rilevato, pertanto, che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila a favore della Cassa delle ammende.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 a favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 12/03/2025