Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 2050 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 2050 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 09/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a REGGIO CALABRIA il 28/06/1965
avverso l’ordinanza del 11/09/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con sentenza del 18 gennaio 2021 – emessa all’esito di giudizio abbreviato – il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Reggio Calabria ha dichiarato NOME COGNOME responsabile del reato di cui all’art. 95 d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, per aver falsamente attestato in una istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, presentata il 19 giugno 2017, che il suo nucleo familiare aveva percepito nell’anno 2016 un reddito di C 6.524,44 a fronte di un reddito effettivo pari ad C 13.953,48. Il G.u.p. ha ritenuto sussistente l’aggravante rappresentata dall’ottenimento del beneficio, ha escluso la rilevanza della contestata recidiva e non ha ritenuto applicabili le attenuanti generiche. Operata la diminuzione conseguente alla scelta del rito, COGNOME è stato condannato alla pena di anni uno di reclusione ed C 667,00 di multa.
Contro questa decisione ha interposto appello il difensore di fiducia dell’imputato, sostenendo: in primo luogo, che COGNOME avrebbe dovuto essere assolto dall’imputazione ascrittagli perché, nell’anno 2016, era sempre rimasto disoccupato e non aveva percepito alcun reddito; in secondo luogo, che l’imputato sarebbe stato meritevole delle attenuanti generiche perché «l’entità del falso» non era «eccessiva». A riprova dello stato di disoccupazione, il difensore ha allegato all’atto di appello un provvedimento adottato dal Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria che, proprio nel 2016, respinse la richiesta di applicazione di una misura alternativa avanzata da COGNOME osservando che egli non aveva un lavoro. Ha ipotizzato, inoltre, che la documentazione relativa al reddito percepito da COGNOME fosse errata a causa di una omonimia e ha chiesto una rinnovazione istruttoria con esame del direttore dell’Agenzia delle entrate che quella documentazione ha acquisito.
Con ordinanza in data 11 settembre 2024 la Corte di appello di Reggio Calabria ha dichiarato inammissibile l’appello perché privo della «indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta» come previsto, invece, dal combinato disposto dell’art. 591, comma 1, lett. c) e dell’art. 581, comma 1, lett. c) e lett. d) cod. proc. pen.
2. Il difensore dell’imputato ha proposto rituale ricorso contro l’ordinanza della Corte di appello. Il ricorrente lamenta vizi di motivazione e violazione di legge. Lamenta, in particolare, la violazione dell’art. 581, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. e sottolinea: che i motivi di appello sollecitavano una rinnovazione istruttoria; che l’ordinanza impugnata non ha argomentato sul punto; che l’inammissibilità dell’appello può essere dichiarata solo quando i motivi di impugnazione «difettino di specificità, ovvero quando non siano affatto argomentati o non affrontino la
motivazione spesa nella sentenza impugnata, ma non quando siano ritenuti infondati, cioè inidonei, anche manifestamente, a confutarne l’apparato motivazionale». In tesi difensiva, nel caso di specie, essendo fondati su una richiesta di rinnovazione istruttoria, i motivi di appello non avrebbero potuto essere considerati inammissibili.
Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso. Secondo il PG, la Corte territoriale ha correttamente qualificato come inammissibile l’appello proposto, atteso che le richieste formulate con l’atto di gravame erano prive di ogni riferimento «sia ad atti e circostanze di causa che alla motivazione del Tribunale».
I motivi di ricorso non superano il vaglio di ammissibilità.
Come noto, l’art. 581, comma 1, cod. proc. pen. è stato modificato dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, che, nel farlo, ha tenuto presente il principio affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME, Rv. 268822, secondo la quale «L’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatt di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato». Questa impostazione è stata ribadita – e resa ancor più chiara – col d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 150 che ha introdotto nell’art. 581 il comma 1 bis, in base al quale «L’appello è inammissibile per mancanza di specificità dei motivi quando, per ogni richiesta, non sono enunciati in forma puntuale ed esplicita i rilievi critici in relazione alle ragioni di fatto o di diritto espresse nel provvedime impugnato, con riferimento ai capi e punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione».
Si deve subito riferire che l’appello dichiarato inammissibile con l’ordinanza impugnata è stato depositato il 24 febbraio 2021 e pertanto, nel valutarne l’ammissibilità, non si deve fare riferimento all’art. 581, comma 1 bis (che ancora non era in vigore), ma al testo dell’art. 581, comma 1, cod. proc. pen. già all’epoca vigente, in base al quale l’atto di impugnazione deve contenere «l’enunciazione specifica, a pena di inammissibilità: a) dei capi o dei punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione; b) delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione; c) delle richieste, anche
istruttorie; d) dei motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli eleme di fatto che sorreggono ogni richiesta».
La norma in esame stabilisce, in termini non equivoci, che i motivi di appello non devono essere fondati su considerazioni generiche, astratte o evidentemente non pertinenti al caso concreto: devono possedere, quindi, requisiti di «specificità intrinseca»; ma devono possedere anche requisiti di «specificità estrinseca», efficacemente definita dalla citata sentenza COGNOME come «la esplicita correlazione dei motivi di impugnazione con le ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata» (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016 cit., pag. 14 della motivazione). Ed invero, l’atto di appello non è diretto a introdurre un nuovo giudizio del tutto sganciato da quello di primo grado, bensì ad attivare uno strumento di controllo, «su specifici punti e per specifiche ragioni, della decisione impugnata» (così, testualmente, Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016 cit., pag. 16 della motivazione).
In altri termini: l’appello deve contenere una critica specifica della decisione impugnata e deve trarre da quella decisione gli spazi argomentativi di fatto e di diritto utili a condurre ad una decisione diversa. Proprio per questo, i motivi di appello «devono contenere, seppure nelle linee essenziali, ragioni idonee a confutare e sovvertire, sul piano strutturale e logico, le valutazioni del primo giudice» (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016 cit., pag. 17 della motivazione).
5. Applicando questi principi al caso in esame si deve osservare che la richiesta di rinnovazione istruttoria avanzata col primo motivo dell’appello proposto nell’interesse di NOME COGNOME è basata su una mera congettura e, in particolare, sulla affermazione secondo la quale l’accertamento compiuto dalla Agenzia delle entrate potrebbe essere frutto di omonimia. Tale richiesta non tiene conto della motivazione della sentenza di primo grado, nella quale si fa puntuale riferimento al contenuto degli accertamenti eseguiti dalla Agenzia delle entrate; accertamenti che avevano ad oggetto il nucleo familiare di NOME COGNOME (composto da lui e dalla madre NOME COGNOME), ciò che esclude in radice la possibilità di un errore dovuto a omonimia. Ne consegue che l’ordinanza impugnata non può essere censurata per aver sostenuto che l’appellante non ha sviluppato critiche puntuali alle argomentazioni poste a fondamento della decisione di primo grado.
A differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, la richiesta di rinnovazione istruttoria non conferisce specificità all’atto di appello, il difensore, infatti, non chiarito in che modo l’escussione del direttore della Agenzia delle entrate avrebbe potuto confutare l’esito degli accertamenti svolti da quell’istituto (puntualmente riportati nella sentenza di primo grado). Non può avere rilievo nel senso voluto dalla difesa la circostanza che il testimone del quale è stato chiesto l’esame non
fosse stato escusso nel giudizio di primo grado. Nell’atto di ricorso il dif valorizza questa circostanza, ma non considera che il giudizio si è svolto con abbreviato e (come risulta dalla sentenza appellata) la richiesta condizion all’acquisizione di «documentazione relativa ad altro procedimento» è sta respinta per genericità essendo stata ammessa, invece, la richiesta di giud abbreviato non condizionato formulata in subordine.
Il ricorso non sviluppa argomenti per contestare la dichiarazione inammissibilità dell’appello con riferimento al secondo motivo di gravame, relati alla mancata applicazione delle attenuanti generiche. L’ordinanza impugnata peraltro, ha fondato la dichiarazione di inammissibilità di questo motivo su constatazione che l’appellante si è limitato a sostenere, in termini del generici, la possibilità di applicare le attenuanti generiche senza sottop critica argomentata le ragioni della diversa decisione adottata dal Giudice di p grado.
Per quanto esposto, la motivazione sviluppata nell’ordinanza impugnata è congrua e conforme ai principi di diritto relativi all’applicazione dell’ar comma 1, cod. proc. pen. Ne consegue l’inammissibilità del ricorso e la condann del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugn 2000 e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il ricorrente versasse in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, deve ess disposto a suo carico, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere di vers somma di C 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, somma così determinata in considerazione delle ragioni di inammissibilità.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento del spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa de ammende.
Così deciso il 9 gennaio 2025
Il Presidente