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Appello penale e domicilio: inammissibilità e Riforma

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 22190/2024, ha dichiarato inammissibile un ricorso, ribadendo un principio chiave della Riforma Cartabia. La questione centrale riguarda l’appello penale e domicilio: il mancato deposito della dichiarazione o elezione di domicilio unitamente all’atto di appello, come richiesto dall’art. 581, comma 1-ter c.p.p., comporta l’inammissibilità del gravame. La Corte ha inoltre giudicato manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, affermando che la norma non limita il diritto di difesa ma ne regola le modalità di esercizio.

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Pubblicato il 24 novembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Appello penale e domicilio: la Cassazione conferma l’inammissibilità

Con la recente ordinanza n. 22190 del 2024, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi su un tema cruciale introdotto dalla Riforma Cartabia: il rapporto tra appello penale e domicilio. La decisione ribadisce con fermezza che il mancato deposito della dichiarazione o elezione di domicilio, contestualmente all’atto di impugnazione, determina inesorabilmente l’inammissibilità dell’appello. Analizziamo questa pronuncia per comprendere le sue implicazioni pratiche.

I Fatti del Caso

Un imputato proponeva ricorso in Cassazione avverso un’ordinanza della Corte d’Appello di Bologna che aveva dichiarato inammissibile il suo appello. Il ricorrente basava le sue lamentele (doglianze) su una presunta errata applicazione e sull’incostituzionalità del comma 1-quater dell’art. 581 del codice di procedura penale.

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha subito chiarito un punto fondamentale: la Corte d’Appello non aveva applicato il comma 1-quater (relativo al mandato specifico per l’impugnazione in caso di assenza), bensì il comma 1-ter dello stesso articolo. Quest’ultima norma impone, a pena di inammissibilità, di depositare la dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato unitamente all’atto di appello.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, dichiarandolo inammissibile e condannando il ricorrente al pagamento delle spese e di un’ammenda. La decisione si fonda su argomentazioni chiare e precise.

L’applicazione del comma 1-ter dell’art. 581 c.p.p.

Il cuore della decisione risiede nell’interpretazione del comma 1-ter. I giudici hanno specificato che, anche aderendo all’orientamento più favorevole all’imputato (secondo cui la dichiarazione di domicilio può essere effettuata già nel corso del primo grado), essa deve comunque essere depositata unitamente all’atto di appello. Nel caso di specie, il ricorrente non aveva neppure affermato di aver adempiuto a tale onere, rendendo le sue doglianze sul punto del tutto infondate.

La questione di legittimità costituzionale sull’appello penale e domicilio

La Corte ha liquidato come manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione al comma 1-ter. Citando precedenti conformi, i giudici hanno affermato che tale norma non limita il diritto di difesa (art. 24 Cost.), né viola la presunzione di non colpevolezza (art. 27 Cost.) o il principio del giusto processo (art. 111 Cost.).

Secondo la Cassazione, richiedere il deposito della dichiarazione di domicilio non è una restrizione del diritto di impugnare, ma una semplice regolamentazione delle modalità di esercizio di tale diritto. Si tratta di un adempimento formale che non collide con i principi costituzionali, ma mira a garantire la corretta gestione delle notifiche nel processo.

Le Motivazioni della Sentenza

Le motivazioni della Corte si basano su una logica di coerenza procedurale e di rispetto delle nuove normative. Innanzitutto, si sottolinea l’irrilevanza delle argomentazioni del ricorrente, che si concentravano su una norma (il comma 1-quater) non applicata dalla corte territoriale. Questo evidenzia l’importanza di centrare il ricorso sulla specifica ratio decidendi del provvedimento impugnato.

In secondo luogo, la Corte rafforza il principio secondo cui i nuovi oneri formali introdotti dalla Riforma Cartabia sono pienamente legittimi. Essi non rappresentano un ostacolo all’esercizio della difesa, ma una modalità per rendere più efficiente e certo il processo, in particolare per quanto riguarda la reperibilità dell’imputato. L’obbligo di depositare l’elezione di domicilio insieme all’appello è un requisito non derogabile, la cui omissione ha la sanzione, prevista per legge, dell’inammissibilità.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame conferma un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato. Per difensori e imputati, il messaggio è chiaro: le nuove disposizioni procedurali in materia di impugnazioni devono essere osservate con la massima diligenza. In particolare, il binomio appello penale e domicilio è diventato inscindibile: la dichiarazione o elezione di domicilio non è un mero optional, ma un requisito di ammissibilità che deve essere soddisfatto contestualmente al deposito dell’atto di appello. Ignorare questo adempimento significa esporsi al rischio concreto di vedere la propria impugnazione rigettata in limine, senza alcuna possibilità di discussione nel merito.

È necessario depositare la dichiarazione o elezione di domicilio insieme all’atto di appello penale?
Sì, secondo l’art. 581, comma 1-ter, del codice di procedura penale, la dichiarazione o elezione di domicilio deve essere depositata unitamente all’atto di appello, a pena di inammissibilità dell’impugnazione stessa.

L’obbligo di depositare l’elezione di domicilio insieme all’appello viola la Costituzione?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che tale obbligo è manifestamente non incostituzionale. Non limita il diritto di difesa, ma ne regola semplicemente le modalità di esercizio, essendo compatibile con gli articoli 24, 27 e 111 della Costituzione.

Cosa succede se un ricorso si basa su una norma che il giudice precedente non ha applicato?
Le doglianze relative a una norma non applicata nel provvedimento impugnato sono considerate inconferenti e irrilevanti. Il ricorso deve concentrarsi sulle specifiche ragioni giuridiche (la cosiddetta ratio decidendi) che hanno fondato la decisione contestata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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