Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 21940 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 21940 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME, nato a Poti (Georgia) il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza emessa dalla Corte di appello di Lecce il 21/07/2023;
visti gli atti ed esaminato il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere, NOME COGNOME;
lette le conclusioni del AVV_NOTAIO, AVV_NOTAIO, che ha chiesto l’annullamento della impugnata ordinanza in accoglimento del primo motivo di ricorso;
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Lecce ha dichiarato inammissibile l’appello proposto avverso la sentenza con cui NOME era stato condannato per il reato di cui all’art. 33 cod. pen.
Secondo la Corte di appello l’atto di impugnazione non conteneva in allegato, ai sensi dell’art 581, comma 1-ter, cod. proc. pen. .p.p. l’atto di dichiarazione di domicilio dell’appellante.
Ha proposto ricorso per cassazione l’imputato articolando quattro motivi.
2.1. Con il primo si deduce violazione di legge.
L’imputato, detenuto per altra causa al momento della pronuncia della sentenza impugnata, aveva fatto pervenire il 15/03/2023 alla RAGIONE_SOCIALE Circondariale Di Lucera una dichiarazione con la quale manifestava la volontà di impugnare, conferendo l’incarico al proprio difensore di formulare i motivi.
Detta dichiarazione sarebbe stata allegata all’atto di appello; l’imputato, liberato 12/06/2023, sarebbe stato immediatamente rimpatriato in Georgia.
La Corte avrebbe errato nel ritenere applicabile l’art. 581, comma 1 -ter, cod. proc. pen. anche nel caso, come quello in esame, in cui l’imputato era detenuto e, quindi, domiciliato ex lege a ricevere in carcere la comunicazione degli atti ai sensi dell’art. 156 cod. proc. pen.
Solo al momento della scarcerazione, all’imputato sarebbe stato richiesto di eleggere domicilio.
2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge processuale e vizio di motivazione.
Il difensore sarebbe stato impossibilitato a raggiungere l’imputato, ormai rimpatriato dopo la scarcerazione, e, dunque, non sarebbe stato in grado di farsi conferire lo specifico mandato per proporre ricorso per cassazione con dichiarazione di domicilio ex art. 581, commi 1ter – quater, cod. proc. pen.
Tali omessi adempimenti non potrebbero essere imputati al difensore.
2.3. Con il terzo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione.
L’imputato non avrebbe avuto conoscenza della lingua italiana; nonostante detta circostanza fosse nota, non sarebbe stata a lui tradotta la sentenza di condanna che, di conseguenza, sarebbe stata comunicata solo in italiano.
Anche l’ordinanza dichiarativa della inammissibilità dell’appello non sarebbe stata tradotta e ciò avrebbe comportato una lesione del diritto di difesa.
2.4. Con il quarto motivo si chiede di sollevare questione di legittimità costituzional dell’art. 581, comma 1ter, cod. proc. pen. in relazione agli artt. 3-24-25-27- 111 Cost. per violazione del diritto di difesa ovvero, in subordine, dell’art. 89, comma terzo, d Igs. 10 ottobre 2022, n. 150.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato quanto al primo motivo di ricorso, che ha valenza pregiudiziale e assorbente.
Deve preliminarmente rilevarsi che, ai sensi dell’art. 89 d.lgs. 150 del 2022, la nuova disciplina dettata dall’art. 581, commi 1 -ter e 1 -quater cod., proc. pen. è
applicabile nel caso di sentenze, come quella in esame, pronunciate dopo l’entrata in vigore della nuova normativa.
Chiarito ciò, non è in contestazione in punto di fatto che l’imputato: a) presente all’udienza dell’08/03/2023, era detenuto per altra causa al momento in cui fu pronunciata dal Tribunale di Lecce la sentenza di condanna poi appellata nel termine previsto dalla legge; b) era detenuto al momento in cui, dalla RAGIONE_SOCIALE Circondariale di Lucera, dichiarò, il 15/03/2023, di proporre appello avvero la sentenza emessa dal Tribunale, riservando al suo difensore di formulare i motivi; c) era detenuto quando il 23/03/2023 il difensore, al quale era stato conferito mandato, propose appello; d) fu scarcerato per essere rimpatriato solo il successivo 12/06/2023, eleggendo domicilio nel procedimento “diverso”.
In tale quadro di riferimento si pone la questione relativa a se l’adempimento previsto dall’art. 581 comma 1 -ter cod. proc. pen., a pena di inammissibilità della impugnazione, riguardi anche il caso, come quello in esame, dell’imputato che, al momento della pronuncia della sentenza e al momento della proposizione dell’appello, è in stato di detenzione per altra causa e tale stato sia noto al giudice che procede.
Il quadro normativo di riferimento in cui la questione si colloca è stato in più occasion delineato dalla Corte di cassazione.
Prima dell’entrata in vigore del d. Igs. n. 150 del 2022, l’art. 156 cod. proc. pen stabiliva:
nel comma 1, che «Le notificazioni all’imputato detenuto sono eseguite nel luogo di detenzione mediante consegna di copia alla persona»;
nel comma 3, che «Le notificazioni all’imputato detenuto in luogo diverso dagli istituti penitenziari sono eseguite a norma dell’articolo 157».
In tale quadro di riferimento, le Sezioni Unite (sentenza n. 12778 del 27/02/2020, S., Rv. 278869) avevano chiarito che le notificazioni all’imputato detenuto vanno sempre eseguite, mediante consegna di copia alla persona, nel luogo di detenzione, anche in presenza di dichiarazione od elezione di domicilio, dovendo tale disciplina trovare applicazione anche nei confronti dell’imputato detenuto in luogo diverso da un istituto penitenziario e, qualora lo stato di detenzione risulti dagli atti, anche confronti del detenuto “per altra causa”, purchè lo stato detentivo risulti dagli atti.
Tale principio ha trovato riconoscimento con le modifiche apportate all’art. 156 cod. proc. pen. dall’art. 10, comma 1, lett. h) n. 1, d. Igs., n. 150/2022, che, nella nuov formulazione di cui al primo comma, prevede che le notificazioni all’imputato detenuto, anche successive alla prima, sono “sempre” eseguite nel luogo di detenzione.
Il comma 4 della norma in questione estende l’applicazione della disposizione generale di cui al comma 1 anche ai casi in cui l’imputato sia detenuto per causa diversa rispetto al reato oggetto del procedimento per il quale deve eseguirsi la notificazione.
A sua volta l’art. 164 cod. proc. pen. prevede che la determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida anche per le notificazioni degli atti di citazione a giudiz quindi, anche per quella relativa al giudizio di appello, salvo quanto previsto dall’ar 156, comma 1, cod. proc. pen.
Si tratta di un disposto normativo che ha una valenza confermativa del fatto che l’avverbio “sempre” di cui all’art. 156, comma 1, cod. proc. pen. non è derogato neppure quando si tratti della notificazione della citazione in appello ad un imputato che abbia dichiarato o eletto domicilio ma sia, nondimeno, detenuto, anche per altra causa.
In tale quadro di riferimento, assume peraltro rilievo anche l’art. 157ter cod. proc. pen., secondo cui le notificazioni degli atti introduttivi del giudizio nei confr dell’imputato “non detenuto” sono effettuate nel domicilio dichiarato o eletto e specificamente nel caso dei giudizi di impugnazione – esclusivamente presso il domicilio dichiarato o eletto ai sensi dell’art. 581, commi i -ter e 1 -quater.
Dunque, il riferimento preso in considerazione dal legislatore è lo stato di detenzione dell’imputato, non il reato per il quale si procede; l’imputato appellante detenuto per altra causa, al momento in cui propone impugnazione, sa che il decreto di citazione per il giudizio di appello gli sarà notificato in carcere, sia che abbia dichiarato o ele domicilio, sia nel caso in cui ciò non abbia fatto.
5. In tale contesto, non vi è dubbio che le disposizioni di cui all’art. 581, commi i -ter e 1 -quater, cod. proc. pen. creino un collegamento tra atto di impugnazione e citazione in giudizio, e che, richiedendo di depositare con l’atto di impugnazione la dichiarazione o elezione di domicilio, siano funzionali ad agevolare la notificazione della citazione e a rendere più agevole la celebrazione dei processi.
Il tema attiene, tuttavia, alla interpretazione e alla portata di disposizioni processua che, come quella in esame, impongono oneri di attivazione per le parti alla cui inosservanza consegue la più grave delle sanzioni processuali, cioè l’inammissibilità dell’atto e, in questo caso, della impugnazione.
La questione attiene alla necessità di scongiurare il rischio di interpretare la norma in esame in modo tale da incrinare la funzionalità del processo e, in particolare, il senso della sequenza ordinata degli atti procedimentali, i diritti dell’imputato e il suo pote di impugnazione, il sistema delle invalidità processuali, la congruità delle sanzioni rispetto alla difformità dell’atto dal modello legale.
Il processo penale ruota intorno ad alcuni principi costitutivi, quali l’obbligatori dell’azione, il contraddittorio come metodo, la garanzia del diritto di difesa, ragionevole durata.
In ragione di tali principi sono fissate regole, alla cui inosservanza conseguono sanzioni.
Il rapporto tra adempimenti di regole funzionali a garantire i principi cardine del processo e le sanzioni conseguenti alla inosservanza di dette regole caratterizza l’andamento del procedimento.
In particolare, si è correttamente fatto osservare come il procedimento sia segnato non solo dall’esistenza o dall’assenza di sanzioni ma anche dalla congruenza tra il meccanismo sanzionatorio che consegue alla violazione della regola posta a tutela degli interessi sottostanti al processo e l’effettività della esigenza di tutela degli interessi.
Non vi è “abuso” quando vi è proporzione, congruità, tra meccanismo sanzionatorio e lesione degli interessi sottesi alla regola violata; vi potrà essere oggettivamente “abuso” quando invece vi è uno scollamento, una frattura, tra la violazione della regola e la presenza o l’assenza di una sanzione, ovvero la sua congruità.
Dunque, è possibile che vi siano sanzioni processuali senza lesione in tutti i casi in cui alla violazione della regola, cioè alla difformità dell’atto dal modello legale, consegu una sanzione asimmetrica rispetto alla tutela degli interessi sottostanti la regola violata; è possibile però anche che vi siano anche lesioni senza sanzione, cioè violazione di regole strumentali alla tutela dei principi fondanti del processo a cui non consegue una sanzione.
Detta esigenza di congruità e di proporzione fra sanzione processuale e violazione della regola è fortemente avvertita anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Si coglie infatti una chiara tendenza a creare un nesso obiettivo tra l’applicazione da parte delle Corti nazionali di formalità ingiustificate o irragionevoli da osservare pe proporre un ricorso (e a maggior ragione un’impugnazione di merito in appello) e il rischio di svuotare di effettività il diritto di accesso alla giustizia nonchè il ruolo cen da questo assolto nel sistema complessivo dell’equo processo e dell’art. 6 CEDU.
Tale rischio si concretizza quando una interpretazione eccessivamente formalistica della legge ordinaria impedisce di fatto l’esame nel merito del ricorso proposto dall’interessato (Corte EDU, 12 luglio 2016, COGNOME c. Francia; Corte EDU 5 novembre 2015, COGNOME c. Francia; Corte EDU, 12 novembre 2002, COGNOME e altri c. Repubblica Ceca; COGNOME c. Regno Unito del DATA_NASCITA).
Secondo la Corte europea limitazioni al diritto all’accesso alla giustizia possono consentirsi solo se giustificate da un fine legittimo e, soprattutto, se proporzionate (Corte EDU, Grande Camera, Zubac c. Croazia del 5 aprile 2018 (v. soprattutto pari -. 76-82); COGNOME c. Italia del 28 ottobre 2021 e NOME e COGNOME c. Belgio del 21 settembre 2021).
Se, sotto il primo profilo, possono essere consentiti in astratto “sistemi di filtro” a impugnazioni, anche attraverso la previsione di cause di inammissibilità, la questione si pone in modo più evidente quanto al rapporto tra strumento di filtro, sanzione processuale e principio di proporzionalità.
La Corte di cassazione ha già evidenziato in modo condivisibile come, proprio con riguardo al tema della proporzionalità, la giurisprudenza di Strasburgo sia rigorosa nell’evidenziare la necessità di una stringente valutazione in concreto della ragionevolezza della restrizione al diritto di accesso; una valutazione che deve essere compiuta in considerazione di alcuni parametri essenziali come: la prevedibilità della restrizione; la responsabilità della parte nei cui confronti viene dichiarat l’inammissibilità per gli eventuali errori procedurali che abbiano impedito l’accesso alla giurisdizione superiore; l’assenza di indici di “formalismo eccessivo” nell’applicazione della regola processuale restrittiva, cui segua l’inammissibilità (sul tema, lucidamente, Sez. 5, n. 6993 del 13/11/2023, dep. 2024, Gambino, Rv. 286975).
Il tema della proporzionalità della sanzione rispetto alla violazione di norme di filtr del diritto di accesso alla giustizia e limitative del diritto di impugnazione appare peraltr ancora più stringente se riferito al giudizio di appello, che, tendenzialmente, rimane un giudizio di seconda istanza “piena” per le parti processuali.
Il principio di proporzione, certamente ancorato alla disciplina delle cautele personali nel procedimento penale ed alla tutela dei diritti inviolabili, ha nel sistema una portata più ampia: esso travalica il perimetro della libertà individuale per divenire termine necessario di raffronto tra la compressione dei diritti quesiti e la giustificazion della loro limitazione.
In ambito sovranazionale, il principio, come è noto, è ormai affermato tanto dalle fonti dell’Unione (cfr. par. 3 e 4 dell’art. 5 TUE, art. 49 par. 3 e art. 52 par. 1 della C dei diritti fondamentali, che dal sistema della CEDU.
La Corte costituzionale ha a sua volta chiarito in più occasioni – ed anche di recentecome il generale controllo di ragionevolezza, a sua volta effettuato attraverso il bilanciamento tra gli interessi in conflitto, comprenda il canone modale della proporzionalità (Corte cost., sentenza n. 85 del 2013, ma anche n. 20 del 2017).
Non diversamente, è condivisibile quanto ritenuto in dottrina, e cioè che il rango conferito dall’ordinamento interno alle fonti sovranazionali consente di affermare che, qualunque sia la natura con cui sono costruite – sostanziale o processuale – le tutele dei diritti, si deve tenere conto del cd. test di proporzionalità.
Il principio in esame è capace cioè di fungere da guida per lo sviluppo futuro della materia dei diritti fondamentali, oggetto primario delle disposizioni normative processuali penali.
Si può dunque affermare che, anche là dove non entri espressamente in gioco il tema dei diritti fondamentali, il principio di proporzionalità rappresenti un utile termine paragone per lo sviluppo di soluzioni ermeneutiche e, ancor prima, di nuovi modelli di ragionamento giuridico; in tal senso, si sostiene acutamente, il principio di proporzionalità assolve ad una generale funzione strumentale per un’adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, ed ad una funzione finalistica, cioè come parametro per verificare la correttezza della soluzione presa nel caso concreto.
In tale accezione, il canone della proporzione e della adeguatezza si rivolgono certamente al legislatore, nel momento in cui traccia le norme ordinarie, ed alla Corte costituzionale nel vaglio di legittimità delle stesse, ma anche al giudice comune, allorquando è chiamato in concreto a valutare di norme e di atti limitativi delle istanze fondamentali.
Il principio di proporzionalità segna il limite entro il quale la compressione d un’istanza fondamentale per fini processuali risulta legittima.
Dunque, anche rispetto all’art. 581, comma 1ter cod. proc. pen., si impone la necessità di una interpretazione che scongiuri il rischio di sanzioni senza lesione, che tenga conto del principio di proporzione, che tenda a conciliare l’esigenza di filtro sottesa alla “regola” con il fondamentale canone del diritto di accesso alla giustizia, che rifugga da eccessi formalistici capaci di frustrare, svuotandone di contenuto, diritti fondamentali e garanzie soggettive.
Ciò scongiura i dubbi di legittimità costituzionale della norma che, non casualmente, da più parti sono stati prospettati.
Si tratta di una norma che, lungi dal limitarsi ad imporre un mero, “leggero”, onere collaborativo, da una parte, incide in realtà fortemente sul diritto di impugnazione e sul diritto di accesso alla giustizia, e, dall’altra, prevede una sanzione – quella inammissibilità -, che è giustificata solo se congrua e proporzionata.
Ciò impone cautela nella interpretazione e necessità di evitare eccessi formalistici.
La celerità del processo deve coniugarsi con l’esigenza primaria di tutela dei diritti.
Ciò spiega l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, nel caso in cui l’imputato sia detenuto al momento della proposizione del gravame, non opera, nei suoi confronti, la previsione dell’art. 581, comma 1-ter, cod. proc. pen., posto che tale adempimento risulterebbe privo di concreto effetto ed utilità in ragione proprio della vigenz dell’obbligo di procedere alla notificazione a mani proprie dell’imputato detenuto; diversamente, una interpretazione eccessivamente formale comporterebbe la violazione del diritto all’accesso effettivo alla giustizia sancito dall’art. 6 CEDU (Sez. 2, n. 5127 del 10/11/2023, Savoia, Rv. 285546; Sez. 2, n. 33355 del 28/06/2023, COGNOME, Rv. 285021; Sez. 2, n. 38442 del 20/09/2023, NOME, Rv. 285029; Sez.2, n.44026 del
12/10/2023, NOME, n.m.; Sez.6, n.47172 del 31/10/2023, Alletto, n.m.; Sez.6, n.47174 del 07/11/2023, NOME, n.m.).
Non diversamente, quanto in precedenza detto spiega perché la norma in questione non trovi applicazione nei confronti della parte civile, del responsabile civile e de soggetto civilmente obbligato per la pena pecuniaria la previsione di cui all’art. 581, comma 1-ter, cod. proc. pen., novellato dall’art. 33, comma 1, lett. d), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150. (Sez. 5, n. 6993 del 13/11/2023, dep. 2024, Gambino, cit., in cui in motivazione la Corte ha affermato che tale adempimento risulterebbe inutile ed eccessivamente formalistico, in ragione dello statuto processuale di tali parti, rinvenibile negli artt. 100, commi 1 e 5, e 154, comma 4, cod. proc. pen.).
10. In tale contesto si colloca in senso non propriamente simmetrico, Sez. 5, n. 4606 del 28/11/2023, dep. 2024, COGNOME, Rv. 285973, secondo cui, invece, le disposizioni di cui all’art. 581, commi 1 -ter e 1 -quater, cod. proc. pen. sono applicabili all’atto di appello proposto dall’imputato detenuto per altra causa.
Secondo la Corte, la non perfetta coincidenza tra il momento esecutivo della notificazione del decreto di citazione a giudizio in appello rispetto a quello dell presentazione dell’atto di impugnazione comporterebbe la necessità di applicare l’art. 581, comma 1ter, cod. proc. pen. anche nel caso di imputato detenuto per altra causa in ragione della possibilità che l’appellante non sia più detenuto all’atto dell notificazione del decreto di citazione per l’appello e al tempo stesso non abbia dichiarato o eletto domicilio nel procedimento in cui si procede.
Se, infatti, si sostiene, l’art. 581, comma 1 ter, cod. proc. pen non trovasse applicazione anche nel caso in questione rimarrebbe vanificata l’esigenza sottesa a detta norma, quella cioè di facilitazione della notificazione e di certezza della conoscenza dell’atto notificato da parte dell’imputato, cioè del decreto di citazione in appello.
Né, si aggiunge, l’esigenza in questione, che attiene alla necessità di non scindere il momento della proposizione della impugnazione rispetto a quello della notifica della citazione in appello, potrebbe considerarsi soddisfatta facendo riferimento all’art. 161, comma 3, cod. proc. pen. che impone al momento della scarcerazione di dichiarare o eleggere domicilio con atto ricevuto a verbale dal direttore dell’istituto ove era ristrett avendo detta dichiarazione validità unicamente con riferimento al procedimento in relazione al quale è intervenuta la scarcerazione medesima e non anche per il procedimento avente ad oggetto il reato per cui si procede.
Si tratta di una pronuncia che lascia sullo sfondo rilevanti questioni, che attengono alla esigenza di interpretare la causa di inammissibilità di cui all’art. 581, comma 1 ter, cod. proc. pen. in senso conforme al principio di proporzione.
In realtà, la situazione dell’imputato appellante detenuto per altra causa, a ben vedere, non è diversa da quella dell’imputato appellante detenuto per il reato per cui si procede.
Si è già detto di come, l’intero sistema delle notificazioni degli atti di citazione giudizio, e quindi anche della citazione per il giudizio di appello, sia fondato sul principi per cui la comunicazione all’imputato detenuto deve essere compiuta alla sua persona in carcere.
Si è già detto di come questo principio trovi applicazione anche nei casi in cui l’imputato sia detenuto per altra causa
Si è già detto di come il riferimento normativo sia allo stato di detenzione e non al reato per il quale l’imputato è detenuto.
L’adempimento previsto dall’art. 181, comma 1ter, cod. proc. pen. costituisce un requisito di ammissibilità della impugnazione sicchè, al fine della sussistenza della causa di inammissibilità, è necessario riferire detto adempimento al momento della presentazione dell’atto e non a quello della citazione in giudizio.
Rispetto al momento in cui l’impugnazione è proposta, l’imputato in stato di detenzione, seppure per altra causa, non è normalmente in grado di prevedere se e quando potrà essere rimesso in libertà, soprattutto se lo stato detentivo non è conseguente ad una sentenza definitiva.
Dunque, anche nel caso di imputato detenuto per altra causa, l’appellante, al momento in cui propone l’impugnazione, sa che la citazione a giudizio, che può essere disposta anche a distanza di tempo, sarà a lui comunicata in carcere.
A voler ragionare diversamente, ne deriverebbe una restrizione del diritto all’accesso alla giustizia di fatto non prevedibile, atteso che un atto di impugnazione – rispetto a quale, al momento della sua proposizione, non vi è l’esigenza sottesa alla previsione di cui all’art. 181, comma 1ter, cod. proc. pen. – sarebbe inammissibile in ragione del fatto che l’imputato potrebbe successivamente non essere più in stato detentivo al momento della citazione in giudizio in appello, cioè per ragioni che, al momento della formazione dell’atto, non esistevano e, verosimilmente, non potevano nemmeno configurarsi.
Rispetto ad un imputato che, per esempio, si trovi in stato di detenzione per altra causa per espiare una pena che sicuramente lo priverà della libertà personale per anni – e rispetto al quale non vi è il rischio di scissione tra il momento della proposizione dell impugnazione e quello della citazione in giudizio- è sproporzionata la sanzione di inammissibilità di un atto di appello proposto senza l’adempimento previsto dall’art. 181, comma 1ter, cod. proc. pen.
Né, ancora, è chiaro perché l’impugnazione dovrebbe essere inammissibile anche nei riguardi di un imputato detenuto per altra causa, che dichiari o elegga domicilio per il
reato per cui si procede successivamente al proposizione della impugnazione ma prima della citazione in giudizio.
Né è chiaro perché l’imputato, al momento della rimessione in libertà disposta prima della citazione a giudizio, non potrebbe essere invitato a dichiarare o eleggere domicilio anche per il diverso procedimento per cui si procede, in modo da poter soddisfare nuovamente l’esigenza sottesa alla previsione di cui all’art. 181, comma 1 -ter, cod. proc. pen.
Ciò che deve essere scongiurato è il rischio che la sanzione di inammissibilità della impugnazione venga fatta discendere da una interpretazione eccessivamente formale e ciò nonostante la presenza di plurimi indici normativi di segno contrario.
Ne consegue che l’ordinanza impugnata deve essere annullata senza rinvio con conseguente trasmissione degli atti alla Corte di appello di Lecce per il giudizio.
P. Q. M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e dispone trasmettersi gli atti alla Corte di appello di Lecce per il giudizio.
Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2024.