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Appello Cautelare: i limiti dei motivi d’impugnazione

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 44755/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato agli arresti domiciliari per bancarotta fraudolenta. La decisione si fonda sul principio che in sede di appello cautelare non possono essere proposti motivi nuovi rispetto a quelli avanzati in primo grado. L’imputato aveva contestato le esigenze cautelari e i gravi indizi, temi non affrontati nell’istanza originaria che chiedeva solo la sostituzione della misura o l’autorizzazione al lavoro.

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Pubblicato il 15 ottobre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Appello Cautelare: quando i motivi nuovi rendono il ricorso inammissibile

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 44755 del 2024, offre un importante chiarimento sui limiti dell’appello cautelare, ribadendo un principio fondamentale del diritto processuale penale: l’inammissibilità di motivi di impugnazione non proposti al giudice di primo grado. Questa pronuncia analizza il caso di un imputato agli arresti domiciliari che, nel tentativo di ottenere un’attenuazione della misura, ha visto il suo ricorso respinto a causa di un errore strategico-difensivo.

I Fatti di Causa

Il caso riguarda un soggetto sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di bancarotta fraudolenta, in relazione al fallimento di una società. La difesa aveva presentato un’istanza al Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) chiedendo, non la revoca della misura, ma la sua sostituzione con una meno afflittiva o, in subordine, l’autorizzazione a svolgere un’attività lavorativa. Il GIP aveva rigettato l’istanza.

Successivamente, la difesa ha proposto appello al Tribunale del Riesame, il quale ha confermato la decisione del GIP. Contro questa ordinanza, l’imputato ha infine proposto ricorso per Cassazione, articolando quattro motivi di doglianza.

La strategia difensiva e i limiti dell’appello cautelare

I primi tre motivi del ricorso per Cassazione miravano a smontare l’impianto accusatorio e cautelare. In particolare, la difesa contestava:
1. La sussistenza del pericolo di recidiva, sostenendo che la liquidazione giudiziale delle società coinvolte avrebbe impedito la prosecuzione dell’attività criminosa.
2. La solidità dei gravi indizi di colpevolezza, adducendo che il dissesto finanziario della società fosse stato causato da un precedente sequestro preventivo e che le banche creditrici fossero consapevoli della situazione patrimoniale critica.

Il quarto motivo, infine, insisteva sulla richiesta di autorizzazione al lavoro, deducendo uno stato di indigenza dell’imputato.

Il punto cruciale, evidenziato dalla Suprema Corte, è che le questioni relative al pericolo di recidiva e ai gravi indizi di colpevolezza non erano state sollevate nell’istanza originaria presentata al GIP. Quella richiesta si limitava a sollecitare una rivalutazione delle esigenze cautelari in ottica di un loro affievolimento, senza mai mettere in discussione l’esistenza stessa dei presupposti della misura.

Le Motivazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile, facendo corretta applicazione del principio dell’effetto devolutivo che governa l’appello cautelare. Questo principio stabilisce che la cognizione del giudice d’appello è circoscritta ai motivi specificamente dedotti nell’atto di impugnazione e, prima ancora, alle questioni decise dal giudice di primo grado (il giudice a quo).

Non è possibile, quindi, introdurre per la prima volta in appello censure nuove, che amplino l’oggetto del contendere (il cosiddetto petitum) rispetto a quanto sottoposto alla valutazione del primo giudice. Poiché l’istanza iniziale era focalizzata solo sulla sostituzione della misura o sull’autorizzazione al lavoro, ogni argomento volto a contestare l’esistenza dei gravi indizi o delle esigenze cautelari risultava estraneo alla cognizione del GIP e, di conseguenza, inammissibile in sede di appello.

La Corte ha inoltre ritenuto il richiamo a una precedente sentenza delle Sezioni Unite (n. 46201/2018) come “incoerente”, poiché quel caso riguardava un’istanza di revoca, e non di sostituzione, della misura.

Anche il quarto motivo, relativo alla richiesta di autorizzazione al lavoro, è stato giudicato inammissibile per genericità. La difesa si era limitata ad affermare l’esistenza di “ampia prova” dello stato di indigenza, senza però sostanziare tale affermazione né confrontarsi con la motivazione del Tribunale, che aveva evidenziato la mancata documentazione degli orari di lavoro e l’impossibilità di valutarne la compatibilità con le esigenze cautelari.

Conclusioni

La sentenza in esame rappresenta un monito fondamentale sulla corretta tecnica processuale da adottare nelle impugnazioni. In materia di appello cautelare, è essenziale che i motivi di gravame siano una diretta conseguenza delle questioni già sottoposte al giudice di primo grado. L’introduzione di argomentazioni nuove, per quanto potenzialmente fondate, non può trovare spazio in appello, pena l’inammissibilità del ricorso. La decisione riafferma la natura strettamente devolutiva di questo mezzo di impugnazione, che non consente al giudice superiore di estendere ex officio la propria cognizione a questioni non sollevate tempestivamente dalla parte interessata.

È possibile presentare motivi nuovi in un appello cautelare rispetto a quelli proposti in primo grado?
No, la sentenza chiarisce che la cognizione del giudice d’appello è circoscritta ai motivi dedotti nell’istanza originaria. L’introduzione di censure nuove, come la contestazione dei gravi indizi di colpevolezza non sollevata in prima istanza, rende l’appello parzialmente inammissibile.

Qual era l’oggetto della richiesta originaria dell’imputato al GIP?
La richiesta originaria non era volta a ottenere la revoca della misura cautelare, ma unicamente la sua sostituzione con una misura meno afflittiva o, in subordine, l’autorizzazione a svolgere attività lavorativa, basandosi su un presunto affievolimento delle esigenze cautelari.

Perché la Cassazione ha ritenuto generico il motivo relativo alla richiesta di autorizzazione al lavoro?
La Corte ha ritenuto il motivo generico perché la difesa si è limitata a sostenere che vi fosse “ampia prova” dello stato di indigenza, senza fornire elementi concreti a supporto e senza contestare specificamente la motivazione del Tribunale, il quale aveva lamentato la mancata documentazione degli orari di lavoro proposti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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