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Amministratore di fatto: responsabilità penale e dolo

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7466/2024, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un amministratore di fatto e dei suoi prestanome, condannati per bancarotta fraudolenta. La Corte ha ribadito che la responsabilità penale del prestanome non richiede la conoscenza di ogni singola operazione illecita, essendo sufficiente la consapevolezza generale delle attività criminose gestite dall’amministratore di fatto, configurando così il dolo eventuale.

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Pubblicato il 2 novembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Amministratore di Fatto: La Cassazione sulla Responsabilità del Prestanome

La figura dell’amministratore di fatto è centrale in numerosi procedimenti per reati societari e fallimentari. Con la recente sentenza n. 7466 del 2024, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sulla responsabilità penale non solo di chi gestisce occultamente una società, ma anche di chi, pur ricoprendo formalmente la carica di amministratore (il cosiddetto “prestanome” o “testa di legno”), omette i propri doveri di vigilanza. La decisione ribadisce principi fondamentali in materia di dolo e consapevolezza, offrendo importanti spunti di riflessione per chiunque accetti un incarico amministrativo.

I Fatti: Una Gestione Societaria “Ombra”

Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda una complessa vicenda di bancarotta fraudolenta, sia patrimoniale (distrattiva) che documentale. Gli imputati, legati da stretti vincoli familiari, avevano orchestrato il fallimento di una società in accomandita semplice, il cui complesso aziendale era stato preventivamente trasferito a una nuova società a responsabilità limitata, anch’essa destinata al fallimento.

La struttura vedeva la presenza di amministratori di diritto, meri prestanome, e di amministratori di fatto che esercitavano il reale potere gestorio. Questi ultimi, secondo l’accusa confermata nei gradi di merito, avevano sistematicamente distratto fondi e beni societari e tenuto le scritture contabili in modo da rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio e del reale andamento degli affari.

La Decisione della Corte e la Responsabilità dell’amministratore di fatto

I ricorsi presentati dagli imputati sono stati giudicati inammissibili dalla Corte di Cassazione. I motivi di ricorso sono stati ritenuti generici e non in grado di scalfire la logicità e coerenza delle motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado. La Corte ha colto l’occasione per consolidare l’orientamento giurisprudenziale sulla responsabilità penale degli amministratori, sia di fatto che di diritto.

Le Motivazioni: Il Ruolo del Prestanome e il Dolo Eventuale

Il cuore della sentenza risiede nell’analisi dell’elemento soggettivo del reato, ovvero il dolo. La Corte ha affrontato due aspetti cruciali.

La Consapevolezza del “Prestanome”

Per quanto riguarda l’amministratore di diritto, la Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: per la configurazione della responsabilità penale non è necessaria la prova della conoscenza di ogni singola operazione illecita posta in essere dall’amministratore di fatto. È sufficiente, invece, una “generica consapevolezza”, anche a titolo di dolo eventuale, delle attività illecite compiute.
Nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto che tale consapevolezza fosse ampiamente provata da una serie di elementi logici: la stretta compagine societaria e i legami familiari tra i coinvolti, l’assunzione della carica su indicazione dei congiunti e la partecipazione a una vorticosa sequenza di costituzione di società operanti nello stesso settore con il medesimo compendio di beni. L’accettazione passiva del ruolo in un contesto palesemente sospetto integra l’elemento psicologico del reato.

L’identificazione dell’amministratore di fatto e la bancarotta documentale

La Corte ha inoltre respinto le censure relative all’individuazione della figura dell’amministratore di fatto. Ha sottolineato come la sua esistenza si provi attraverso elementi sintomatici e concreti, come la gestione dei rapporti con fornitori, dipendenti e clienti, e l’ingerenza in qualsiasi settore dell’attività d’impresa. L’appello è stato giudicato generico perché non si è confrontato con le numerose prove (dichiarazioni testimoniali, rapporti con il curatore) che delineavano un ruolo gestorio continuativo e significativo.
Infine, è stato chiarito che la bancarotta documentale non era un’infrazione minore, ma un reato strumentale all’occultamento delle condotte distrattive, finalizzato a impedire la ricostruzione dei fatti e a garantire l’impunità per il più grave reato di bancarotta patrimoniale.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

La sentenza in esame rappresenta un serio monito: accettare formalmente la carica di amministratore senza esercitare i connessi poteri-doveri di controllo e gestione è una condotta estremamente rischiosa. La giurisprudenza non offre alcuna protezione a chi, per compiacenza o negligenza, funge da “prestanome”. La responsabilità penale per i reati commessi dall’amministratore di fatto scatta anche solo per aver accettato il rischio che tali illeciti potessero essere commessi, senza necessità di provare un coinvolgimento diretto in ogni operazione. La legge esige che chi assume una carica sociale agisca con diligenza e consapevolezza, non potendo invocare a propria discolpa la mera ignoranza di fronte a evidenti segnali di gestione illecita.

Chi è l’amministratore di fatto e come viene individuato?
L’amministratore di fatto è colui che, pur senza una nomina ufficiale, esercita in modo continuativo e significativo i poteri di gestione di una società. Secondo la sentenza, la sua figura viene provata attraverso elementi concreti e sintomatici, come la gestione dei rapporti con dipendenti, fornitori o clienti, o l’ingerenza in qualsiasi altro settore gestionale dell’attività aziendale.

Quale livello di consapevolezza è richiesto all’amministratore di diritto (prestanome) per essere ritenuto responsabile di bancarotta?
Secondo questa decisione, non è necessaria la conoscenza di ogni singola operazione illecita. È sufficiente una generica consapevolezza, anche a titolo di dolo eventuale, delle attività illecite condotte dall’amministratore di fatto. Tale consapevolezza può essere desunta da elementi come stretti legami familiari, la ristretta compagine sociale e il contesto operativo palesemente anomalo.

Perché il ricorso degli imputati è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché i motivi presentati sono stati ritenuti generici e assertivi. Gli imputati non si sono confrontati in modo specifico con la logica e solida motivazione della sentenza d’appello, ma si sono limitati a riproporre questioni già valutate o a sollevare critiche astratte che non intaccavano l’impianto accusatorio confermato nei precedenti gradi di giudizio.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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